Il tempo libero come osservatorio privilegiato della conciliazione tra tempo del lavoro e tempo dedicato alla famiglia
In questo percorso di visione, dedicato alle rappresentazioni cinematografiche della conciliazione del tempo del lavoro con quello della vita, più che concentrare esclusivamente la nostra attenzione su come sia stata documentata l’evoluzione di questo rapporto attraverso i film, è sembrato utile analizzare più da vicino quei momenti che, per definizione, sono sottratti alla quotidianità (sia essa lavorativa o familiare) e che dovrebbero costituire le occasioni privilegiate attraverso cui sviluppare una forma di relazione tra genitori e figli. Il tempo della vacanza e l’organizzazione nel tempo libero di quelle attività che dovrebbero essere per bambini e adolescenti extrascolastiche ed “extrafamiliari” ci sono sembrate un punto di vista magari eccentrico ma certamente più stimolante (almeno da una prospettiva cinematografica) dal quale esplorare le relazioni tra genitori e figli in una chiave meno legata all’evoluzione della società e delle strutture familiari ma capace di offrire più stimoli e suggestioni dal punto di vista simbolico e formale. Il tempo, al di là delle caratteristiche concrete che assume nelle varie fasi storiche e dell’uso che ne viene fatto nella quotidianità, è un elemento costitutivo (probabilmente il più importante) del cinema e di ogni forma di racconto: da qui l’esigenza di introdurre la parte più analitica del lavoro, dedicata all’esame dei testi filmici incentrati sul tema, con un capitolo che ne metta in evidenza l’importanza anche e soprattutto formale nell’economia di ogni narrazione per immagini.
Tempo della vita e tempo cinematografico: introduzione metodologica
Il miraggio e l’utopia di un tempo oggettivo e insieme manipolabile dalla volontà dell’individuo spesso viene sconvolto dall’arrivo o dalla presenza di un figlio. Ci si accorge presto che il tempo della crescita non ha scadenze né obblighi che lo possano irreggimentare: è incalcolabile, imprevedibile, estemporaneo (suo etimo di ex-tempore, fuori dal tempo, almeno quello sociale e di derivazione positivista) dato che lo sviluppo di un bambino o di un adolescente segue percorsi autonomi, non lineari e neppure subordinabili a qualsiasi logica performativa. Da qui uno scontro o una faticosa negoziazione tra il tempo lavorativo e quello famigliare, tra la produttività e l’improduttività (ma è poi davvero tale il tempo dedicato alla famiglia?), tra il bisogno di impostare e programmare e il piacere di improvvisare o inventare sul momento.
A pensarci bene, lo scontro tra queste diverse concezioni del tempo trova un “terreno di battaglia” straordinario – e una sua brillante evidenza – all’interno del cinema di finzione. Bisogna fare un passo indietro e tornare alle sue origini per meglio rendersene conto. L’invenzione del cinematografo, infatti, è stata possibile, alla fine dell’Ottocento, grazie proprio all’acquisizione e all’assimilazione di una concezione lineare, universale e standardizzata del tempo. Non a caso l’adozione di un orario universale si realizza negli stessi anni in cui Lumiére e altri pionieri della settima arte collaudano le loro prime macchine della visione (in Italia l’ora universale viene introdotta ad esempio nel 1893). Senza un proiettore che fa scorrere la pellicola a una velocità fissa, regolare e ininterrotta (inizialmente 18 ora 24 fotogrammi al secondo), la percezione del movimento su cui si fonda l’illusione filmica verrebbe meno e non sarebbe più credibile alcuna raffigurazione della realtà. Il cinema, inoltre, è una di quelle tecnologie che tra fine ‘800 e inizio ‘900 “accorcia” le distanze tra i luoghi (insieme all’aereo, il telegrafo, la radio, l’automobile, ecc…), si presenta come veicolo che aumenta le capacità cognitive dell’essere umano (essendo un mezzo di comunicazione che sollecita la percezione dello spettatore e gli offre un maggior numero di informazioni), si offre come mezzo privilegiato di rappresentazione della modernità (si pensi ai legami che istituisce con l’idea di metropoli, con lo sviluppo industriale, con la velocità del vivere contemporaneo) e si staglia come prima, vera esperienza di una cultura di massa e globalizzata che crea per la prima volta il concetto di tempo libero, istituito proprio dall’organizzazione del lavoro imposta dal modello economico industriale.
Parallelamente, grazie alla sua “missione” narrativa, legata quasi sempre alle avventure di un eroe, e in virtù del suo linguaggio, capace di restituire anche le emozioni dei personaggi e di farle accordare con quelle dello spettatore, il cinema si istituisce come moltiplicatore di soggettività (dei personaggi, degli spettatori) e come manipolatore della temporalità (si pensi alle tecniche di suspense che dilatano i tempi di attesa di un evento, o i break alla linea cronologica di un racconto determinati da flashback o da flashforward). L’ideale positivista e progressista di un tempo misurabile e oggettivo, lineare e universale viene in qualche modo controbilanciato dalla convinzione – propria per esempio della psicoanalisi, altra disciplina nata negli stessi anni – dell’esistenza di un tempo soggettivo e personale, irriducibile alle logiche commerciali, da proteggere e monitorare. Non è un caso se tre dei più grandi capolavori del cinema muto siano strettamente legati all’idea di questa doppia potenzialità temporale. In Intolerance (Usa 1915) di David W. Griffith una serie di eventi che si verificano in diverse età storiche (la caduta di Babilonia, la crocifissione di Gesù, la strage degli Ugonotti, uno sciopero negli Stati Uniti) vengono intrecciati tra loro (per mezzo di un montaggio alternato e sincronico) in modo da stabilire una linea discorsiva comune e una morale della favola universale. A tenere insieme tempi della storia così distanti compare frequentemente l’inquadratura della culla di un bambino, simbolo del futuro dell’umanità, immagine decontestualizzata e detemporalizzata che si offre come punto terminale del messaggio sociale del film. In Metropolis (Germania 1927) di Fritz Lang il tema della spersonalizzazione dell’essere umano in una società futuristica e tecnologica non molto dissimile dalla nostra viene trattato sia attraverso il culto per un androide/robot da parte del capo/dittatore della città, sia attraverso la riduzione in schiavitù delle classi più umili, divenute poco più di protesi subordinate al volere delle macchine. In una sequenza a dir poco emblematica, il figlio “ribelle” del dittatore, fintosi operaio per scoprire le condizioni di vita delle classi meno abbienti, si ritrova a essere parte costitutiva di un congegno a orologeria, “incatenato” al quadrante di una sorta di orologio e costretto a spostare continuamente due lancette su e giù per consentire al macchinario di funzionare correttamente. Ancora più nota è la sequenza di Tempi moderni (Usa 1936) di Charlie Chaplin in cui il suo alter-ego Charlot, operaio in una catena di montaggio e costretto a tempi di lavorazione insostenibili per un essere umano, finisce inghiottito dagli ingranaggi di un enorme marchingegno industriale.
Lungi dal rappresentare digressioni dal tema, gli esempi citati ci fanno capire che non si possono comprendere modalità e linguaggi della rappresentazione audiovisiva senza tenere in debita considerazione il fatto che la settima arte è – per dirla con le parole di Andrej Tarkovskij – l’arte di “scolpire il tempo” e, aggiungiamo noi, uno dei mezzi più efficaci per problematizzarlo, scomporlo e ricomporlo (attraverso il montaggio), e definirne le possibili declinazioni, sociali, famigliari, personali, universali. Su questo assunto, infatti, si basa l’oggetto del nostro studio, una panoramica dedicata alla raffigurazione del rapporto tra tempo della vita e tempo lavorativo nelle famiglie contemporanee che vuole essere innanzitutto una riflessione sulle differenze di percezione e messinscena di questa implicita conflittualità temporale che abbiamo poc’anzi individuato. Si faccia caso: nei tre film citati è sempre la presenza di un figlio – o nel caso chapliniano di un personaggio che incarna l’anarchia, l’ingenuità e la ribellione infantile – a mettere in luce le aporie che si producono tra tempo della produzione, dell’oggettività e della misurazione e tempo della improduttività, della soggettività e della contaminazione, tra tempo dell’evento e tempo della quiete.
C’è un altro figlioletto celebre del cinema muto a ricordarci come l’infanzia sia un formidabile elemento catalizzatore di queste due istanze, facendosi sia baricentro di sincronie sia punto di fuga di aporie: stiamo parlando del bebè che giace, ignaro di quanto gli accada intorno, su una carrozzina che una madre vorrebbe far scendere dalla scalinata di Odessa e che fatalmente gli scivolerà di mano nel corso della più celebre tra le sequenze de La corazzata Potëmkin (Urss 1925) di Sergej M. Ejzenštejn. Anche in questo caso è durante la caduta di questa carrozzella che il tempo soggettivo della madre sofferente (e dello spettatore coinvolto) e quello oggettivo dell’avvenimento in fieri (la crudele e gratuita aggressione dei militari dello zar contro l’inerme popolazione della città) trovano una loro sublimazione nella presenza estemporanea, simbolica, incontrollabile di un bambino inerme.
In questi due film il tempo non è soltanto simbolizzato attraverso l’apparizione di orologi giganteschi e dal risuonare di salve di cannone, ma continuamente evocato attraverso le situazioni messe in scena e i dialoghi dei personaggi. Il signor Banks, ad esempio, fa la sua comparsa in scena sottolineando quanto sia piacevole rientrare ogni sera a casa appena in tempo per augurare ai figli la buona notte (evitando in questo modo di dover trascorrere del tempo con loro) e apostrofa come “inutili perdite di tempo” le magiche passeggiate organizzate da Mary Poppins con l’aiuto dello spazzacamino Bert per i suoi figlioletti (alludendo in questo modo a più proficui passatempi come, ad esempio, la visita alla banca in cui lavora). Quanto a Peter Banning (il Peter Pan cresciuto e diventato avvocato di successo protagonista di Hook), è un uomo nevrotico, ossessionato dalla mancanza di tempo, sordo alle richieste di attenzione da parte dei figli (ma non al cercapersone che continua a perseguitarlo anche in vacanza) e per contrappasso si ritroverà a lottare contro il tempo al fine di riacquistare l’agilità e l’abilità di una volta per sconfiggere il suo nemico di sempre, Capitan Uncino, che ha plagiato i suoi figli.
Anche in Mio zio (Francia 1958) di Jacques Tati, satira pungente – e in qualche misura fantascientifica – del consumismo modernista e tecnologico, tutto ruota attorno al concetto di tempo produttivo. C’è una famiglia benestante che vive in una casa avveniristica, costruita con materiali plastici e un design futuribile, piena di congegni automatici che funzionano come meccanismi a orologeria. Il padre è un dirigente d’azienda ligio al dovere, la madre una casalinga perbenista e ossessionata dalla pulizia. Solo Gérard, il bambino della coppia – che vive in maniera oppressiva quella condizione famigliare – e lo zio strambo e sempre sfaccendato (il personaggio di Monsieur Hulot, più volte portato sullo schermo da Tati) sembrano ingranaggi non funzionali al mondo piccolo borghese fatto di festicciole con i vicini, visione di programmi televisivi “educativi” (sempre alla stessa ora), nuovi avveniristici congegni da sperimentare (come l’apertura automatica del garage). Nel corso del film allo spettatore viene indirettamente chiesto quale sia il tempo realmente produttivo: quello dei genitori arrivisti e conformisti, schiavi di macchine e convenzioni sociali, o quello indeterminato e inafferrabile vissuto dallo zio Hulot che abita in un vecchio quartiere parigino. In questo elogio premoderno i bambini, non solo il nipote coprotagonista, ma anche i monellacci che trascorrono gran parte del loro tempo “libero” in strada stanno inevitabilmente dalla parte di Hulot. Si vedano gli scherzi che combinano agli automobilisti (fingendo tamponamenti inesistenti) o ai passanti (distraendoli con un fischio e facendoli sbattere contro un palo): in un caso come nell’altro l’obiettivo sembra essere quello di fermare gli adulti, intralciarne i movimenti tanto frettolosi quanto preimpostati (la segnaletica orizzontale delle strade che costringe gli automobilisti a manovre tanto complicate quanto improbabili) per far scoprire loro l’imprevisto, l’inatteso, l’estemporaneo.
Non molto dissimili da queste esperienze sono quelle di altri due film che riproducono gli stessi equilibri falsati tra mondo adulto, grigio e oggettivo, e mondo infantile, soggettivo e fantastico: il primo esempio è recente e rimanda a Nel paese delle creature selvagge (Usa 2009) di Spike Jonze nel quale Max, il piccolo protagonista, al termine di una giornata di nera solitudine, indossato un buffo costume da lupo, chiede alla madre l’attenzione e il tempo che ritiene gli siano dovuti senza ottenerli. Il film, tratto dal celebre e quasi omonimo libro illustrato di Maurice Sendak (Nel paese dei mostri selvaggi), è un vero e proprio tuffo abissale nell’intrico di pulsioni, angosce e desideri che animano la vita di un decenne dentro un universo caotico e sorprendente, spiazzante, totalmente assurdo e, naturalmente fuori dal tempo e dallo spazio. Se nella parte iniziale il film mette in evidenza la solitudine patita da Max nel corso della giornata a causa degli impegni lavorativi della madre single che – a differenza del libro illustrato dove è soltanto una voce fuori campo – una volta a casa deve continuare a confrontarsi con una serie di problemi lavorativi e tentare di costruire la propria vita sentimentale attraverso l’invito a cena di un collega di lavoro, durante le poche ore trascorse lontano da casa nel corso della sua breve fuga, Max vive un’esperienza immaginaria le cui coordinate temporali sono impossibili da individuare, in cui i termini “giorno” e “notte” sono semplicemente lo sfondo per mettere in scena i piccoli e grandi drammi della sua coscienza. Il secondo esempio, più conosciuto, è quello di La storia infinita (Germania 1984) di Wolfang Petersen che vede protagonista Bastian, un bambino appassionato di letture fantastiche e vittima delle angherie dei suoi compagni di classe, orfano di madre, con un padre che lo ignora. Rifugiatosi nella soffitta della scuola, il ragazzo si abbandona alla lettura (e all’universo letterario in cui si realizza la storia di Atreyu e dell’imperatrice bambina del regno di Fantàsia) e dimentica letteralmente lo scorrere del tempo scolastico e famigliare, totalmente catturato dai pericoli che corrono i protagonisti del racconto che sta leggendo. Al mondo reale, ancora una volta, si sostituisce una realtà parallela di matrice fantastica minacciata dall’incombere del Nulla, il potere che ingloba e risucchia tutto e che domina le menti delle persone, che sono molto più controllabili se non hanno sogni, mete, ambizioni. Una metafora bella e chiara del pericolo che si corre nel consegnare interamente la propria vita al tempo gretto e ripetitivo della produttività, nel lasciarsi risucchiare da un mondo in cui tutto è rigidamente programmato, organizzato, finalizzato, annullato dalla natura autosufficiente di un meccanismo apparentemente perfetto.
La realtà dei fatti è, ovviamente, molto diversa e anche molto più sfumata rispetto a quanto descritto finora e, per averne un’immagine meno metaforica, è necessario volgersi a una serie di film caratterizzati da una maggiore aderenza al dato sociale e da un maggior grado di realismo. Si tratta del genere di materiale audiovisivo analizzato all’interno del percorso tematico sulla povertà e l’esclusione sociale comparso sul numero 3/2009 di questa rivista[1]. In quell’articolo s’era preferito affrontare il tema della povertà non nelle sue manifestazioni più eclatanti, bensì attraverso una serie di film che mostravano una serie di situazioni di disagio, la maggior parte delle quali vissute da donne sole con figli a carico, in difficoltà nel dividersi tra il lavoro e la cura della casa e dei figli. Era stato possibile, in questo modo, mettere in evidenza quella zona grigia a cavallo tra benessere e povertà che è oggi ben più interessante analizzare, dato che rappresenta il discrimine della tranquillità economica e sociale per un numero crescente di nuclei familiari. Ciò che emergeva da quella prima indagine era come il cinema avesse saputo in parte cogliere una serie di cambiamenti in atto nella società (e, di conseguenza, all’interno della famiglia) a partire dalla metà del ‘900, come l’entrata nel mercato del lavoro delle donne o i mutamenti intervenuti nella struttura della famiglia. Il cinema statunitense ha proposto attraverso alcuni film di autori anche molto celebri (Alice non abita più qui di Martin Scorsese, Il mio piccolo genio di Jody Foster) una serie di figure femminili (ma non solo) alle prese con il doppio ruolo di madri e di lavoratrici costrette a scendere a compromessi con le proprie ambizioni o, più semplicemente, a mettere da parte la prospettiva di una vita indipendente di fronte a un carico di lavoro doppio. In Europa, dove i mutamenti in atto negli Stati Uniti da decenni sono arrivati a incidere sul tessuto sociale successivamente, la risposta del cinema è stata più tardiva ma non per questo connotata da minore incisività, specie nel rivelare l’inadeguatezza delle risposte istituzionali a situazioni di particolare disagio: è stato attraverso soprattutto autori come Ken Loach (citiamo solo i titoli più pertinenti rispetto al nostro tema come Ladybird Ladybird e In questo mondo libero) o Bertrand Tavernier (Ricomincia da oggi) che sono emerse situazioni di profondo disagio vissute soprattutto da famiglie vittime dell’esclusione sociale, attraverso pellicole di aperta denuncia. In Italia, fanalino di coda tra i Paesi europei nell’entrata delle donne ne mondo del lavoro, il cinema si è avvicinato al tema della conciliazione tra tempo dedicato al lavoro e tempo della vita solo negli ultimi anni, concentrandosi su personaggi femminili la cui condizione di precarietà non è data dal grado di istruzione, dal genere di lavoro o dal livello di retribuzione raggiunto, bensì dalla precarietà vissuta a causa di un mercato del lavoro profondamente mutato[2].
Restano da mettere in evidenza alcuni aspetti del fenomeno che non era stato possibile affrontare in quella sede come, ad esempio, la sua natura che, a dispetto delle apparenze, assume caratteristiche non direttamente legate alla fascia sociale di appartenenza della famiglia. Il tema della conciliazione tra tempo del lavoro e tempo dedicato alla cura della famiglia può, in questo caso, essere analizzato non più esclusivamente dal punto di vista dell’accudimento materiale della prole, bensì anche da quello delle esigenze psicologiche e affettive di un bambino o di un adolescente figlio di una cosiddetta “donna in carriera”. Un esempio in tal senso è costituito dal celebre film di Jessie Nelson Mi chiamo Sam (Usa 2002) nel quale alla figura di Sam, padre amorevole ma incapace di accudire adeguatamente la figlia perché affetto da un grave ritardo mentale, viene contrapposta quella di Rita, giovane e ricca avvocatessa in carriera che lo difende nella causa per l’affidamento della bambina, incapace di stabilire un vero legame con il figlioletto a causa degli eccessivi impegni di lavoro. Se una dicotomia così forte (l’ingenuità disarmante dell’uomo e la sua dedizione verso la figlia, l’iniziale cinismo della donna e la sua incapacità a stabilire un contatto affettivo con il figlio) si inserisce alla perfezione nel quadro di un film caratterizzato da elementi fortemente patetici (anche se non privo di spunti interessanti), è anche capace di rivelare come la cura dei figli non si limiti all’esclusivo soddisfacimento di una serie di esigenze materiali, bensì anche alle richieste sul piano dell’ascolto, dell’affettività, della partecipazione, dell’attenzione.
Sullo stesso tema è incentrata la commedia di James L. Brooks Spanglish - Quando in famiglia sono in troppi a parlare (Usa 2004), che mette a confronto due realtà (e due modelli di genitore) ancora una volta opposte: da un lato Flor, ragazza madre di origini messicane che lavora come cameriera per consentire alla figlia dodicenne Cristina di vivere negli States e aver una vita migliore, dall’altra i Clasky, un’abbiente famiglia di Los Angeles nella quale spiccano per la conflittualità del loro rapporto Deborah e Bernice, rispettivamente madre frustrata e nevrotica e figlia disillusa e sovrappeso. Quando Flor, per seguire i suoi datori di lavoro nella loro residenza estiva, è costretta a trasferirsi fuori città portandosi dietro la figlia diviene evidente il divario incolmabile che separa le due donne: la cameriera preoccupata di offrire un’educazione irreprensibile ma anche molto affettuosa e attenta alle esigenze e ai turbamenti legati all’età evolutiva di Cristina, la padrona di casa incapace di stabilire con i figli un rapporto sereno, malgrado i vantaggi e le agevolazioni dovuti alla sua posizione sociale. Se Flor dimostra di possedere la capacità e la caparbietà di conciliare impegni lavorativi e familiari malgrado la sua condizione svantaggiata, al contrario Deborah commette tutti gli errori di un genitore distratto dai propri impegni di lavoro (è poco attenta alle esigenze dei figli, soprattutto di Bernice che spesso involontariamente mette in imbarazzo riversando su Cristina le proprie attenzioni) pur occupando il proprio tempo in attività superflue, rivolte esclusivamente al soddisfacimento delle proprie esigenze.
Tuttavia, l’incapacità o l’impossibilità di conciliare tempo del lavoro e tempo della vita non è un problema esclusivo delle società occidentali: se in Europa o in America si può discutere sulla maggiore o minore efficacia delle legislazioni poste a tutela del lavoro femminile, in moltissimi Paesi in via di sviluppo non solo tali garanzie sono assenti ma esiste una mentalità radicata nella maggior parte degli individui che tende a relegare le donne in un ruolo subalterno a quello dell’uomo. Dieci - Ten (Iran, Francia 2002) del regista iraniano Abbas Kiarostami testimonia in maniera estremamente originale (l’intero film è girato attraverso una camera digitale che, fissata sul cruscotto di un’automobile, riprende quanto avviene all’interno dell’abitacolo) le difficoltà di Mania, una giovane donna divorziata che ha scelto di rendersi indipendente dal marito scegliendo di dedicare parte della propria vita al lavoro e non esclusivamente alla famiglia come è tradizione in molti Paesi di fede islamica. Nel corso dei suoi spostamenti in automobile per Teheran la donna si confronta con altri personaggi sulla propria condizione particolare e su quella delle donne iraniane in generale. Ciò che colpisce lo spettatore è l’assenza di figure maschili tra quelle incontrate da Mania, ovvero che l’unico personaggio maschile sia quello del figlio decenne della donna, Amin. Non così diverso dai propri coetanei occidentali, oberato di impegni extrascolastici (piscina, incontri con amichetti, eccetera), decisamente nevrotico, Amin è “vittima” delle scelte dei propri genitori ai quali rinfaccia quel divorzio che lo costringe a dividersi tra due famiglie. Può apparire paradossale che questo giovanissimo cittadino, figlio di una coppia appartenente alla borghesia della capitale iraniana si faccia portavoce di una concezione della famiglia basata su presupposti tradizionalisti. Più semplicemente Amin scarica l’intera responsabilità del divorzio sulla madre, la accusa di aver pensato più al lavoro che alla famiglia, le rinfaccia di essersi risposata e così via per il bisogno di individuare una figura responsabile della disgregazione della propria famiglia, una necessità che si proietta su colei che nell’immaginario infantile (e non solo) è la depositaria dei valori e dell’unità del focolare domestico. Amin, in fondo, è un bambino come tanti, forse soltanto un po’ viziato, e come tutti i propri coetanei pretende (abbastanza legittimamente) le attenzioni dei genitori e una forma di stabilità familiare, soprattutto dal punto di vista della definizione e della certezza dei ruoli, proprio ciò che Mania ha infranto scegliendo autonomamente la propria strada.
In Occidente, al contrario, emergono fenomeni inediti, come quello delle famiglie monoparentali con un unico genitore maschio. Per un’analisi dei principali film che hanno messo in rilievo tale fenomeno rimandiamo ancora al già citato articolo pubblicato nel numero 3/2009 di questa rivista, anche se è interessante ricordare una pellicola italiana molto recente capace di offrire spunti di riflessione anche su quanto appena detto a proposito delle donne che devono affrontare da sole il doppio ruolo di lavoratrici e di madri. La nostra vita (Italia 2010) di Daniele Lucchetti racconta le vicende di Claudio, giovane capomastro romano che, in seguito alla morte della moglie, per compensare della perdita i tre figlioletti, decide di tentare una piccola scalata sociale improvvisandosi imprenditore edile. La reazione, la personalissima elaborazione del lutto del protagonista, è coerente con il personaggio mirabilmente interpretato da Elio Germano: per Claudio, ancorato a una visione della famiglia vecchio stampo (alla sorella che gli chiede perché non abbia permesso alla moglie di lavorare risponde che le donne sono troppo brave a fare figli per potersi realizzare altrimenti) non esiste altra possibilità se non quella di confermare il proprio ruolo di pater familias. Di fronte alla perdita della moglie/madre (la donna muore dando alla luce il suo terzogenito), le alternative per Claudio sono due: ripiegarsi su se stesso in un ruolo di padre attento ai sentimenti dei figli che non riuscirebbe comunque a incarnare, oppure tentare di rafforzare la propria figura di padre attraverso il potere del denaro e del successo sociale, anche a prezzo di compromessi morali sempre più grossi. Claudio si butta a capofitto nel lavoro e tenta quel piccolo salto sociale da lavoratore dipendente che trova continue conferme al proprio ruolo nella perfezione di un focolare domestico in cui tutto (o quasi) è come avrebbe desiderato (l’arredamento a buon mercato scelto per la cameretta del nascituro, la settimana di vacanza in Costa Smeralda promessa alla moglie poco prima della sua morte, eccetera), a piccolo imprenditore che può dare ai figli non solo tutto ciò di cui hanno materialmente bisogno ma anche il superfluo, ciò che può contribuire a creare quell’immagine (consumistica e costosa) di un successo che compensa ogni perdita.
Un ulteriore elemento di interesse da portare all’attenzione è costituito dal cambiamento avvenuto nel corso dei decenni per ciò che riguarda le esigenze di cura nei confronti dei bambini che, nel caso di famiglie monoparentali, vanno a gravare sull’unico genitore presente in famiglia. Ci si sorprende, infatti, nel constatare come, in un film statunitense del 1953 come Il piccolo fuggitivo del regista indipendente Morris Engel, ma anche in una pellicola molto più recente come Changeling (Usa 2008) di Clint Eastwood (ambientata negli anni ‘20) una madre possa “abbandonare” soli a casa i propri figli assentandosi per un’intera giornata per motivi di lavoro. Questi e altri film dimostrano come, soltanto fino a pochi decenni fa, il concetto di infanzia fosse profondamente diverso da quello attuale: se in passato il bambino o l’adolescente erano effettivamente più esposti sul piano giuridico ma anche su quello materiale, legato alla stretta quotidianità, d’altro canto erano anche detentori di spazi di autonomia molto più ampi rispetto a quelli che attualmente si tende a concedere loro. L’esistenza di un bambino o di un adolescente dei giorni nostri sembra caratterizzata, infatti, da una vera e propria invasione dei tempi e degli spazi più propri dell’infanzia (la socialità, il gioco, l’uso del tempo libero) da parte degli adulti, preoccupati di accompagnare la prole in ogni momento della crescita.
All’interno di una simile dimensione è logico che le possibilità a disposizione dei bambini e degli adolescenti nella scelta delle attività da svolgere si riduca sempre di più a vantaggio di decisioni orientate, suggerite o addirittura imposte dai genitori, preoccupati per il loro futuro o, più semplicemente, condizionati dall’ambiente sociale che li circonda. È il caso, ad esempio, del film di Kim Rossi Stuart Anche libero va bene (Italia 2006) nel quale il protagonista, Renato, giovane padre di due ragazzini abbandonato dalla moglie, obbliga il figlio undicenne Tommaso a frequentare i corsi di nuoto malgrado la passione del ragazzino per il calcio. Renato è un uomo dal carattere difficile, molto orgoglioso, sprezzante nei confronti della massa dalla quale vorrebbe emergere insieme ai figli grazie a un successo professionale che tarda ad arrivare. Così, anche la scelta del nuoto al posto del calcio come attività per il tempo libero del figlio è evidentemente orientata a costruire un’immagine diversa, fuori dal comune della propria famiglia. Tommaso, al contrario, vede nel calcio la possibilità di integrarsi un po’ meglio nel gruppo dei pari, attraverso uno sport magari banale («il calcio è uno sport che praticano tutti» afferma Renato per convincere il figlio, «il nuoto è un’altra cosa») ma certamente più popolare, che è possibile praticare anche nel cortile di casa. Quando al termine del film il padre gli darà finalmente il permesso di iscriversi a una scuola di calcio, alla domanda del genitore sul ruolo in cui desidererebbe giocare il ragazzino risponderà che «anche libero va bene»: una risposta che indica la sua sostanziale indifferenza verso un’attività agonistica orientata a fornire una preparazione specifica a fronte di una passione del tutto spontanea per il gioco e la socialità. L’episodio, che pure ha una parte relativamente marginale nell’economia narrativa del film, è significativo dato che indica ancora una volta il tentativo da parte delle generazioni più giovani di sottrarsi a un prematuro inserimento nelle dinamiche sociali (quasi mai positive) che animano il mondo adulto. È proprio ciò che tenta di fare Tommaso nel corso delle ricorrenti fughe in cima al tetto dello stabile in cui vive con la famiglia: al di là del semplice valore di trasgressione che si può assegnare agli episodi, su un piano più simbolico essi indicano il desiderio di isolarsi dal mondo, di sparire dalla vista degli altri, di sottrarsi alla routine delle attività umane (lavorative, scolastiche e sportive) che per lui, pur così giovane, costituiscono già un fardello di preoccupazioni e responsabilità.
Diverso il caso di Il calamaro e la balena (Usa 2005) di Noah Baumbach che mette in scena le vicende di una coppia di intellettuali newyorkesi, Bernard e Joan, che decidono di divorziare dopo 17 anni di matrimonio. Per i due figli, il diciassettenne Walt e il decenne Frank, l’evento è fonte di innumerevoli cambiamenti nella vita quotidiana, a incominciare da un menage familiare complesso, diviso tra i due genitori e le loro rispettive abitazioni in virtù di un affidamento congiunto che, nelle parole di un compagno di scuola di Walt che l’ha già provato sulla sua pelle, «fa schifo», un metodo ipocrita di condivisione di spazi e momenti, atto a nascondere ciò che interessa realmente, un risparmio sugli alimenti. Tuttavia, se la vita per i due ragazzi si fa dura nella gestione della quotidianità, è forse nei momenti dedicati alle attività extrascolastiche che emerge con più evidenza l’incapacità da parte dei genitori nel gestire il trauma provocato nei figli dal divorzio: i corsi di tennis, le uscite serali per il cinema, i passatempi domestici come una banale partita a pingpong diventano i momenti in cui si fa più aspro il confronto a distanza tra i due adulti. Le discussioni sul modo in cui rispondere a una volée, la complicata scelta di un film per una tranquilla serata al cinema, la travagliata decisione su quale sia il testo più idoneo a formare il carattere di un ragazzo, i bisticci per un servizio sbagliato a pingpong, non sono solo i sintomi di un menage familiare in crisi, ma veri e propri pretesti per imporre ai figli il proprio personale punto di vista, la propria visione della vita, ora da parte di uno ora da parte dell'altro genitore. Ciò che risulta oltremodo irritante nel comportamento di Bernard e Joan è probabilmente il modo in cui utilizzano la propria cultura, il proprio prestigio sociale, la propria autorità di intellettuali e non solo la propria autorevolezza di genitori, per ordire una trama di piccoli-grandi ripicche reciproche al cui centro si ritrovano i due spaesati figli, ora vittime ora strumenti di un gioco più grande di loro. A rendere ancor più interessante Il calamaro e la balena è la sua natura in parte autobiografica: figlio di un noto teorico e critico cinematografico, Baumbach mette in scena la propria movimentata adolescenza in un film ricco di citazioni cinematografiche colte (i registi citati sono soprattutto francesi come Truffaut, Godard, Eustache, ma anche statunitensi come David Lynch), sintomi persistenti, forse esorcizzati proprio attraverso la scrittura e la lavorazione del film, di un’influenza familiare capace di invadere anche le scelte professionali dell’autore che, in questo caso, è anche uno dei personaggi.
Per incontrare bambini o adolescenti del cinema contemporaneo[3] capaci di gestire autonomamente il proprio tempo libero è necessario rivolgere la propria attenzione a pellicole eccentriche rispetto al panorama cinematografico come possono esserlo soltanto i film di uno tra i pochissimi registi di origini gitane, Tony Gatlif. Swing (Francia, Giappone 2002) narra l’estate del dodicenne Max, in vacanza nel Sud della Francia presso l’anziana nonna: appassionato di jazz manouche (la musica caratteristica delle comunità gitane), Max riesce a convincere lo schivo musicista rom Miraldo a insegnargli a suonare la chitarra. Il film si dipana come un racconto di formazione tanto bizzarro quanto delicato che vede il biondo protagonista integrarsi nella comunità rom e legarsi sentimentalmente alla coetanea Swing in un rapporto che va a completare il suo ventaglio di esperienze, la scoperta dell’altro da sé pervicacemente perseguita dal ragazzino. L’affrancamento da convenzioni e costrizioni sociali tipiche del mondo adulto, la libertà di scelte dettate da una sensibilità particolare e non dal raziocinio e dal comune buon senso esperita dal protagonista sono simbolizzate non solo dal mondo gitano, atipico, stralunato, eccentrico rispetto a quello conosciuto fino ad allora dal protagonista (vero e proprio pretesto narrativo attraverso il quale Gatlif permette allo spettatore di avvicinarsi a una realtà da molti conosciuta solo superficialmente) ma anche da una forma cinematografica che osserva e documenta dal vivo più che rappresentare o ricostruire l’universo rom. La sensazione che il pubblico (anche quello adulto) condivide con Max è quella di una grande libertà dovuta proprio all’assenza a fianco del ragazzino di figure adulte pronte a orientarne le scelte e a un’altrettanto grande complicità dei suoi nuovi amici gitani, in un’esperienza che, travalicando la passione per la musica, mette in contatto il protagonista con temi universali quali la morte, l’amore, la libertà. Miraldo non impone a Max una propria visione della musica ma fornisce al ragazzino gli strumenti giusti (curiosità, ingenuità, autonomia) per trovare la propria strada per il jazz manouche: un’impostazione antididattica e antiautoritaria, lontana dalle preoccupazioni sociali, economiche, orientate al raggiungimento di un fine pratico fin qui incontrate. Tranne che per la presenza effimera della nonna di Max, il mondo adulto si affaccia alla rappresentazione solo nel finale, con la fine della vacanza e il rientro forzato del ragazzino in una dimensione familiare che, tuttavia, appare fredda e distante, se confrontata con quella passionale e coinvolgente del villaggio rom. L’arrivo precipitoso della madre, figura sfuggente, distratta, che si impone sulla scena per pochi secondi, dettando orari improrogabili e mete certe per la tappa successiva della vacanza di Max, strappa il protagonista non solo al suo (peraltro impossibile) idillio amoroso con Swing ma anche a un primo contatto con la dimensione della morte (Miraldo viene meno in seguito a un infarto) che potrebbe contribuire a far nascere nel ragazzino una maggior consapevolezza del valore di un presente troppo spesso dimenticato.
Del resto, la vacanza è stata una delle conquiste sociali più significative capace, nel giro di pochi decenni, di trasformarsi in fenomeno di costume e soprattutto di consumo da parte delle famiglie, diventando in questo modo parte integrante dei simboli dello status sociale ed economico di un nucleo famigliare. Uno dei primi film italiani incentrati sul tema della vacanza, Guendalina (Italia 1957) di Alberto Lattuada, mette in scena proprio il senso di vuoto (per l’appunto di “vacanza”) provato da un’adolescente milanese di estrazione borghese costretta a prolungare le ferie in Versilia a causa degli impegni lavorativi del padre, un ricco uomo d’affari. Non è un caso che la narrazione di questa piccola educazione sentimentale vissuta dalla protagonista (che, proprio nel corso dell’estate si affranca dalla propria condizione infantile per accedere a quella di adolescente consapevole delle proprie emozioni) si inserisca in un quadro familiare compromesso da un imminente divorzio che i genitori della protagonista tentano di mascherare proprio attraverso la proposta di un viaggio all’estero dopo un periodo trascorso al mare. Se il tempo libero delle ferie costituisce per gli adulti il terreno sul quale continuare a combattere la propria guerra personale, all’interno del quale riproporre litigi, dispetti, ritorsioni reciproche, per quanto riguarda Guendalina esso costituisce l’occasione per confrontarsi con un’esperienza per lei inedita come l’innamoramento e scoprire un mondo diverso, rappresentato dal giovane di cui si innamora, Oberdan, studente universitario di estrazione sociale diversa dalla sua (il padre del ragazzo, morto prematuramente, era un pittore anarchico), elementi che contribuiscono alla sua crescita emotiva e all’evoluzione del suo carattere. Sotto il profilo formale, il dato più interessante è fornito dall’ambientazione nostalgica, crepuscolare, conferita a una storia che, raccontando l’evolversi di un’emancipazione, dovrebbe, al contrario, assumere i toni più affermativi e costruttivi di un racconto svincolato da eccessi calligrafici. Invece il film risulta curatissimo sul piano formale (con scelte stilistiche ben precise nella composizione dell’inquadratura e nell’attenzione alla luce del paesaggio) proprio nelle parti dedicate alla descrizione dello stato d’animo della protagonista che, forse per la prima volta nel cinema italiano, propone un’immagine femminile diversa, lontana dagli stereotipi in vigore. Il corpo acerbo e flessuoso della giovane interprete (si veda la scena in cui danza in calzamaglia), spesso incorniciato da inquadrature che lo stringono all’interno di elementi architettonici, diviene il simbolo inedito di una femminilità in divenire che chiede (e sempre più chiederà negli anni a venire) spazi di indipendenza e autodeterminazione più ampi.
Probabilmente non è un caso se molti dei film che vedono genitori e figli alle prese con il tempo delle vacanze abbiano per protagoniste famiglie il cui equilibrio interno è in parte o del tutto compromesso. Il momento della villeggiatura, costringendo i protagonisti a confrontarsi al di fuori degli schemi tipici della vita quotidiana, densa di impegni e di problemi impossibili da eludere, si dimostra un banco di prova spietato sul quale saggiare la tenuta di relazioni e ruoli che nel corso dei mesi invernali spesso vengono dati per scontati. Non è un caso, ad esempio che in Voltati Eugenio (Italia 1980), uno dei film più noti di Luigi Comencini, la narrazione delle vicende familiari che portano il piccolo protagonista a tentare una breve fuga lontano dal mondo degli adulti inizi proprio in un giorno d’estate, poco prima della sua partenza per le vacanze in compagnia del padre. Riuniti presso la casa dei nonni del piccolo per organizzare le ricerche, tutti i membri della famiglia ricordano attraverso una serie di lunghi flashback le vicende al centro delle quali, suo malgrado, il ragazzino si è trovato nel corso di quell’estate e non solo: sballottato da una casa a un'altra, affidato a parenti e amici per periodi più o meno lunghi, conteso dai genitori divorziati o, al contrario, improvvisamente scaricato da questi ultimi, sempre pronti a cogliere, da eterni adolescenti, le occasioni più diverse per eludere i propri impegni familiari, quella di Eugenio è un’altra vacanza all’insegna dell’illusione e della conseguente delusione di desideri, aspettative e progetti. Anche in questo film la costruzione narrativa si sviluppa su un tempo sdoppiato: mentre gli adulti occupano interamente la scena cimentandosi in una sorta di psicodramma di gruppo nel corso del quale ognuno dei partecipanti aggiunge al mosaico del racconto in flashback il suo tassello di verità – spesso in contraddizione aperta con quanto affermato da chi l’ha preceduto – rinfacciandosi responsabilità, riesumando vecchi rancori, in un’ottica volta più a rivangare il passato che a organizzare una vita migliore per il ragazzino, Eugenio si proietta del tutto autonomamente nel futuro, sceglie la propria vacanza lontano da tutto e tutti, rifugiandosi in una fattoria dove trova (una relativa) serenità accudendo gli animali, proiettando su di essi la cura e l’attenzione che i grandi non hanno saputo rivolgergli. Eugenio, dunque, è il “convitato di pietra” del film, evocato solo attraverso i racconti di parenti e amici ma significativamente assente dal “qui e ora” della narrazione, occupato per intero dalle riflessioni tanto ipertrofiche quanto ombelicali degli adulti. In effetti, il tema della conciliazione tra tempo del lavoro, tempo dedicato ai figli e tempo libero in Voltati Eugenio è ribaltato, dato che le vite dei genitori del protagonista sono totalmente destrutturate, prive di una netta distinzione tra lavoro, impegno politico, tempo dedicato alle relazioni sociali, eccetera. La vita di Eugenio, al contrario, sembra più simile a un’eterna vacanza, fatta com’è di spostamenti continui da una casa all’altra, da un genitore all’altro, da un nonno all’altro. In questo caso, ciò che il bambino sembra chiedere è un tempo più strutturato, in cui vengano fissati con certezza scadenze e impegni, appuntamenti e responsabilità.
Quello della vacanza si conferma come tempo dell’incertezza, anziché tempo della possibilità, anche in un film più recente come Non è giusto (Italia 2002) di Antonietta De Lillo: i due giovanissimi protagonisti, gli undicenni Valerio e Sofia, entrambi figli di coppie divorziate, trascorrono l’estate a Napoli insieme ai rispettivi padri che hanno diritto di trascorrere con loro parte delle vacanze estive. Dopo un momento di iniziale diffidenza i due ragazzini scoprono di avere molto in comune, innanzitutto per ciò che riguarda i genitori che, malgrado la preziosa occasione offerta dalle vacanze per conoscere meglio i figli lontani e condividere con loro un po’ di tempo, continuano a vivere la loro vita di sempre, disordinata e all’insegna dell’improvvisazione. Più che attraverso un racconto ben organizzato, una narrazione di eventi strettamente concatenati e coerenti, la regista sceglie di descrivere la condizione dei due ragazzini per mezzo di uno stile episodico, forse poco coeso sul piano della consequenzialità delle situazioni ma capace di restituire appieno il senso di smarrimento dei due ragazzini di fronte all’inaffidabilità dei genitori. L’utilizzo della telecamera digitale, strumento di ripresa duttile, leggero, realmente ad altezza di bambino, permette di restituire alla perfezione tanto l’atmosfera estiva di una Napoli fuori dagli schemi (lontana dall’immagine stereotipata o bozzettistica spesso proposta dal cinema), tanto lo scorrere di un tempo vuoto, privo di reali punti di riferimento, il senso di attesa nei confronti di un miraggio (la vacanza vera e propria) che non riesce a realizzarsi. Come già in Guendalina anche in questo caso è il sodalizio tra i due giovani protagonisti a imporsi come unica soluzione possibile di fronte all’incapacità degli adulti nel comprendere le loro esigenze. A farla da padrona, tuttavia, è la visione ironica di un mondo adulto che forse non è neanche tale: lo sguardo innocente ma mai ingenuo di Sofia e Valerio si posa ora con garbato sarcasmo ora con spietata lucidità sulla generazione dei padri quarantenni, disorientati, privi di punti di riferimento certi, spesso succubi delle compagne o ex compagne, incapaci di compiere scelte e assumere ruoli definiti all’interno di una società che mette sempre più in discussione le certezze di un tempo. Una generazione, insomma, che si limita a lottare per restare a galla e che si limita a fluttuare in un tempo (lavorativo, sentimentale, esistenziale) privo di coordinate certe che, nell’opprimente vuoto estivo trova una formidabile metafora.
Ancora una volta si confrontano due mondi diversissimi, quello degli adulti che vedono nella vacanza semplicemente lo sfondo pretestuoso per mettere in scena le proprie personalissime nevrosi, e gli adolescenti, capaci di aprirsi alla scoperta dell’altro, di vivere questo momento in piena libertà. Un ulteriore esempio in questo senso potrebbe essere quello proposto da L’estate di mio fratello (Italia 2005) un film italiano di recente produzione che vede una famiglia di estrazione borghese affrontare il problema di una gravidanza non desiderata proprio nel corso delle vacanze estive. Quando i genitori, dopo una serie di dolorose esitazioni, decidono di tenere il bambino, Sergio, il figlio decenne, elabora in maniera del tutto personale la comparsa del fratello (vista ora come ingombrante e fastidiosa evenienza, ora come occasione per nuovi momenti di svago e felicità) attraverso la produzione fantastica di veri e propri sogni a occhi aperti nel corso dei quali prova a prefigurare le conseguenze di questa nuova presenza. La situazione si riflette inevitabilmente sulla gestione del tempo della vacanza: se per i genitori il “tempo vacante” delle ferie estive diviene in un primo momento il terreno di uno scontro che trova nella gravidanza inaspettata il pretesto per offrire nuova linfa a vecchi dissapori e, una volta presa la decisione di tenere il bambino, il momento più opportuno per comunicare non senza esitazioni e malintesi la notizia a Sergio, per il ragazzino si trasforma in un’occasione di rielaborazione fantastica di un evento inatteso e ricco di spunti problematici ma anche foriero di nuove possibilità. Il film mette in scena, con semplicità di mezzi ma non senza una buona dose di inventiva, lo sdoppiamento del tempo vissuto da genitori e figlio: senza apparente soluzione di continuità vengono rappresentati tanto i momenti più prosaici della vacanza (la noia di Sergio di fronte alle rituali visite di parenti e amici ai genitori) quanto quelli più intensi, vissuti dal protagonista all’insegna di una continua invenzione di situazioni improbabili, comiche, paradossali che spezzano la continuità del racconto reale per aprirsi verso una dimensione altra.
Per trovare un film in cui la vacanza di un genitore con un figlio costituisce davvero un momento di reciproco contatto e conoscenza è necessario prendere in considerazione un film decisamente anomalo, fin dal titolo: Un film parlato (Portogallo, Francia, Italia 2003) del regista portoghese Manoel De Oliveira, decano del cinema mondiale, intellettuale finissimo, dotato di grande sensibilità e ironia. Un film parlato narra le vicende di Rosa Maria una giovane insegnante di storia e Maria Joana, sua figlia di otto anni, che si imbarcano su un transatlantico per una crociera attraverso il Mediterraneo alla scoperta delle civiltà che su di esso si affacciano e che ne hanno fatto la storia. Nel corso del viaggio che comprende vari scali (Marsiglia, Napoli, Atene, Istanbul, Il Cairo) Rosa Maria ha cura di spiegare alla figlioletta, nel modo più semplice ma allo stesso tempo più preciso possibile, gli eventi storici che hanno caratterizzato i vari luoghi e, soprattutto, i momenti della storia in cui i popoli del Mediterraneo sono entrati in contatto creando quel crogiolo di culture che per secoli ha caratterizzato questo mare. Grande spazio è lasciato nel corso del film alla parola (ecco la ragione del bizzarro titolo), al punto che gli eventi sono ridotti al minimo e gli attori recitano con un’affettazione ostentata, tesa a mettere in evidenza la limpidezza del pensiero che sottende i dialoghi. Vere e proprie lezioni di storia, quelle di Rosa Maria possono apparire quanto di più lontano possa esserci da quell’affetto, da quella sensibilità che nel corso dell’articolo abbiamo dato per assente o latitante in tutti i film analizzati. Tuttavia, è proprio nella sollecitudine delle spiegazioni della madre, nelle sue risposte pazienti alle domande ingenue della bambina che è possibile rintracciare le caratteristiche più autentiche di un rapporto tra genitori e figli sincero, basato sul rispetto reciproco: la semplicità del loro rapporto, fatto di una “facilità” di relazione che non richiede formalismi di sorta per poter esistere, contrasta con la cordialità affettata e artefatta degli altri personaggi presenti nel film. Le risposte semplici ma non semplicistiche, divulgative ma mai banali a una serie di domande (cos’è la storia? cosa sono le religioni? perché sono così tante e tanto diverse? che differenza c’è tra i miti e le leggende? cos’è la civiltà?) che per secoli hanno impegnato filosofi, studiosi, intellettuali in una continua ricerca, sono invece quanto di più prossimo possa esserci a quell’affetto verso i figli che deve innanzitutto essere attento alle loro esigenze. Vacanza, dunque, non più in quanto momento di riunione fittizia della famiglia in vista di una meta geografica (la località prescelta per la villeggiatura) che, all’interno di una dimensione consumistica, assurge allo status di feticcio, di miraggio e allo stesso tempo di condanna, bensì come tempo in cui avviene realmente uno scambio (di conoscenze, esperienze, emozioni) tra genitori e figli. Al di là della sua apparenza di “gita scolastica” a uso privato il viaggio compiuto da Rosa Maria e Maria Joana non è mera occasione di trasmissione di una conoscenza per il puro e semplice gusto del sapere, ma qualcosa di più e di diverso. Rosa Maria ha intrapreso questo viaggio per vedere i luoghi dove è stata fatta la Storia che ha studiato e poi insegnato nel corso della sua vita, e il senso di questo vedere non è quello esclusivamente turistico del guardare, bensì quello ben più profondo dell’abbracciare con lo sguardo per comprendere. E questo nel senso etimologico del termine, ovvero un “prendere insieme” le storie (e le immagini) di luoghi che, se nei fatti e seguendo la semplice cronaca degli eventi, sono sempre stati divisi da rivalità, contrasti e guerre, al tempo stesso sono sempre stati uniti dall’auspicio dei popoli che li abitavano per un bene comune, superiore. Ma è solo attraverso il suo sguardo “vergine” e solo facendosi guidare dalle domande di Maria Joana che Rosa Maria può tentare di dar corpo a questa utopia.
I film del percorso
- Intolerance, David W. Griffith, USA, 1915
- La corazzata Potëmkin, Sergej M. Ejzenštejn, Urss, 1925
- Metropolis, Fritz Lang, Germania, 1927
- Tempi moderni, Charlie Chaplin, USA, 1936
- Il piccolo fuggitivo, Morris Engel, USA, 1953*
- Guendalina, Alberto Lattuada, Italia, 1957*
- Mio zio, Jacques Tati, Francia, 1958*
- Mary Poppins, Robert Stevenson, USA, 1964*
- Voltati Eugenio, Luigi Comencini, Italia, 1980*
- La storia infinita, Wolfang Petersen, Germania, 1984*
- Hook - Capitan Uncino, Steven Spielberg, USA, 1992*
- Dieci - Ten, Abbas Kiarostami, Iran, Francia, 2002*
- Mi chiamo Sam, Jessie Nelson, USA, 2002*
- Non è giusto, Antonietta De Lillo, Italia, 2002*
- Swing, Tony Gatlif, Francia, Giappone, 2002*
- Un film parlato, Manoel De Oliveira, Portogallo, Francia, Italia, 2003*
- Spanglish - Quando in famiglia sono in troppi a parlare, James L. Brooks, USA, 2004*
- Il calamaro e la balena, Noah Baumbach, USA, 2005*
- L’estate di mio fratello, Pietro Reggiani, Italia, 2005*
- Anche libero va bene, Kim Rossi Stuart, Italia, 2006*
- Changeling, Clint Eastwood, USA, 2008*
- Nel paese delle creature selvagge, Spike Jonze, USA, 2009*
- La nostra vita, Daniele Lucchetti, Italia, 2010*
[1] Colamartino, F., Le linee d’ombra: l’incerto statuto di adolescenti e preadolescenti sulla soglia della povertà, in «Rassegna bibliografica infanzia e adolescenza, n. 3, 2009, p. 27-40.
[2] Si veda a titolo di esempio non esaustivo Mi piace lavorare - Mobbing (Italia, 2004) di Francesca Comencini.
[3] Come già evidenziato sono i bambini e gli adolescenti dei giorni nostri ad aver perso quell’autonomia che fino a non molti anni fa consentiva ai più piccoli di organizzarsi il tempo libero indipendentemente dai genitori: si pensi a un film come La guerra dei bottoni (Francia, 1962) di Ives Robert, a I quattrocento colpi (Francia, 1959) di François Truffaut, entrambi ambientati in Francia nel corso degli anni ‘50, oppure a Garage Demy (Francia, 1991) di Agnès Varda, in cui le vicende narrate hanno come sfondo la Seconda guerra mondiale, e al grado di libertà impensabile rispetto a quello dei bambini odierni di cui potevano giovare i protagonisti.