Alla fine delle vacanze estive, tra il web e la carta stampata torna d'attualità il dibattito sul valore dell'attuale educazione scolastica. Ne parla in copertina il magazine Wired, che titola Educazione anno zero e ospita un intervento del pedagogo anglosassone Ken Robinson. Ma se ne discute anche on line.
«La nostra scuola è antica»: questa l'opinione di Robinson, ritenuto uno dei più grandi esperti al mondo nell'ambito di creatività e “pensiero trasversale”. Nel suo “manifesto per un nuovo sistema educativo” pubblicato da Wired e tratto da una delle sue conferenze (i cui filmati su You Tube sono state viste 7 milioni di volte) lo scrittore inglese spiega come il sistema educativo debba tornare al passo coi tempi: l'attuale sistema scolastico è stato «progettato, ideato e strutturato per un'altra epoca, nel clima culturale e intellettuale dell’Illuminismo e nelle circostanze economiche della prima rivoluzione industriale», in cui contava sviluppare «un'abilità di tipo accademico».
Col risultato che i sistemi di istruzione pubblica, dice Robinson, dividono le persone in due tipi: «studiosi e svogliati, intelligenti e stupidi, e la conseguenza è che molte persone brillanti pensano di non esserlo affatto perchè sono state giudicate secondo questa specifica visione della mente e dell'intelligenza». Le scuole poi sono organizzate «sul modello della linea di produzione, come in una fabbrica».Ci sono «le campanelle, delle strutture separate, gli alunni si specializzano in materie diverse» e i bambini sono divisi «annate: li inseriamo nel sistema raggruppandoli per età».
«I nostri figli – afferma Ken Robinson - stanno vivendo il periodo più stimolante in assoluto nella storia del pianeta: sono bombardati da informazioni da tutte le parti e la loro attenzione deve costantemente diramarsi in direzioni diverse». Il metodo educativo dovrebbe incentivare non il conformismo ma il “pensiero divergente”, cioè l’abilità di «vedere molte possibili risposte a una domanda» e risolvere problemi in modo creativo e da diverse prospettive. Robinson infatti afferma che è una capacità innata, che abbiamo tutti ma che «si deteriora col tempo» e porta come esempio un test: quanti modi esistono per usare una graffetta? « La maggior parte di noi ne trova 10-15. Quelli più bravi ne trovano anche 200. Il 98% di quelli che hanno raggiunto il livello di punteggio maggiore erano bambini». Ma questa percentuale, ripetendo il test a distanza di cinque anni, si era già dimezzata. All’età di 13-15 anni, quegli stessi bambini non erano più in grado di risolvere il quesito con la stessa ricchezza di prospettive: avevano intanto ricevuto un’istruzione, «per dieci anni si sentono dire a scuola che la risposta giusta è una e si trova alla fine del libro». «Il problema cruciale - conclude lo studioso inglese - risiede nella cultura delle nostre istituzioni, nel clima che vi si respira e nelle abitudini che hanno consolidato”.
Un approccio simile è testimoniato da Gianni Marconato, psicologo, formatore e animatore della community “La scuola che funziona”. In un post del suo blog intitolato Come apprende un nativo digitale (che a distanza di mesi dalla pubblicazione continua a essere molto dibattuto e commentato sui social network), Marconato racconta la propria esperienza col figlio diciassettenne Eugenio: «studente d’oggi alle prese con la scuola del passato (non possiamo certamente definire” contemporanea” la scuola che questi studenti frequentano)», ma capace – armato della propria voglia di imparare e mettersi alla prova, di progettare, acquistare e assemblare un computer di grandi prestazioni.
«Io, ad Eu, ho insegnato nella notte dei tempi ad accendere il pc, a scrivere qualche parola in word, ad entrare in internet: per il resto ha imparato tutto da solo», scrive Marconato. Uno studente visto dalla scuola come «superficiale, svogliato, poco interessato ad imparare» è stato in grado di farsi carico di un autonomo processo di apprendimento perché «ha potuto avere un ruolo attivo, aveva uno scopo chiaro per imparava, ha usato quello che imparava per migliorare le proprie competenze, le cose che lui imparava erano valorizzate dalla sua “comunità”». Insomma, un processo di crescita di cui dovrebbe farsi carico la scuola, per la quale invece ragazzi come Eugenio e gli adolescenti di oggi «non hanno voglia di studiare ciò che questa scuola impone loro di studiare; non vogliono fare fatica per far fronte a compiti di apprendimento per loro privi di senso; rifiutano un metodo di apprendimento in cui hanno un ruolo passivo».
Questi ragazzi «affrontano la scuola, e le sue richieste, con rassegnazione, senza entusiasmo, non è affar loro, il loro obiettivo è sopravvivere». Perché la scuola di oggi usa «le leve del potere e dell’ubbidienza per essere sè stessa, è una scuola che non ha e che non avrà alcuna possibilità di svolgere alcuna azione educativa, istruttiva, formativa»: «ha perso il suo contatto con la realtà, che non la sa più leggere, che non sa più quali risposte dare dato che tutte quelli su cui si basava e che rappresentavano sicurezze e routine (lezioni, esercizi, interrogazioni, compiti ..) sono saltate e non sortiscono più alcun risultato, non impattano – se non in misura limitata – su ciò che gli studenti devono imparare».
In mezzo stanno gli insegnanti, «prigionieri del quotidiano, presi dalla fatica del quotidiano, dalla necessità di dare, comunque, un senso a ciò che giorno per giorno facciamo, spesso in condizione disagiate, per dare qualcosa di dignitoso ai nostri studenti, corriamo il rischio di perdere il senso generale di quello che facciamo e non ci accorgiamo di stare in un’isoletta alla deriva negli oceani». E anzi, osserva Marconato: «nonostante tutto congiuri a sfavore di un apprendimento autentico, i nostri ragazzi qualcosa riescono ad imparare, trovo altrettanto sorprendente che alcuni insegnanti – numerosi ma ancora pochi – riescano a trovare energie e motivazione per dare alla nostra scuola un minimo di decenza». (mf)
Foto: crediti.
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