Quando il cinema lo fanno i ragazzi

15/09/2010

Ragazzi al cinema, ma nelle vesti di creatori di storie e immagini. Da diversi progetti in Sardegna e Lombardia sono nati due lungometraggi che, con differenti modalità, raccontano dal basso la realtà quotidiana degli adolescenti: Tajabone di Salvatore Mereu e Vedozero di Andrea Caccia, film molto diversi nel linguaggio ma nati dall'impegno attivo dei ragazzi coinvolti. Presentato all'ultimo Festival di Venezia, il film di Mereu, regista sardo già vincitore del David di Donatello nel 2003 col film Ballo a tre passi, nasce dai corsi di educazione all'immagine che il cineasta ha tenuto in due differenti scuole medie della periferia di Cagliari. «Da quando ho cominciato, alterno l’attività di regista a quella d’insegnante di educazione all’immagine», racconta. «Nello scorso autunno ho insegnato in due scuole della periferia di Cagliari nei quartieri popolari di San Michele e di Sant’Elia», aggiunge il regista «In un anno di laboratorio ho spiegato ai ragazzi come si dà forma a un'idea e come poi l'idea possa diventare un film. Sono venute fuori tante piccole storie sul vissuto dei ragazzi: inizialmente non pensavo di farne un film, poi il piacere del gioco del cinema ha prevalso su tutto». Girato in 3 settimane a Cagliari con un budget di soli 10 mila euro, il film racconta in cinque storie problemi quotidiani come la ricerca del lavoro, l'accettazione di sé e degli altri, la discriminazione, il desiderio di amore e amicizia: la vita di adolescenti italiani e stranieri (interpretati dagli stessi ragazzi dei corsi, che hanno dai 13 ai 15 anni) che vivono in una periferia urbana degradata. Il titolo viene dalla canzone che chiude la pellicola e richiama la festa musulmana per la fine del Ramadan che, nella cultura senegalese, è il giorno in cui gli angeli scendono in Terra per sapere degli uomini: «una giornata di buon aspicio per i progetti futuri: ho scelto questo titolo perché credo nella possibilità di realizzare progetti che sembrano impossibili e di scoprire talenti magnifici, come quelli di questi ragazzi». «Io che vengo dalla Sardegna dell'interno ho avuto l’occasione di confrontarmi con la periferia e il cemento – conclude Mereu – E ho scoperto che quella di Cagliari, non è così diversa da quella di Parigi, dove convivono tante etnie. E dove gli stessi ragazzi, in fatto di integrazione, sono molto più avanti di come possiamo immaginare». Di diversa impostazione Vedozero, il film di Andrea Caccia che nell'ultimo anno ha raccolto vari riconoscimenti. Nato dai corsi di linguaggio cinematografico che il regista ha tenuto in tre istituti dell'hinterland milanese (Vimercate, Rho e Monza), il film è a metà strada tra diario e documentario (la stampa l'ha definito “blog movie”): utilizzando i propri cellulari, settanta ragazzi tra i sedici e i diciott’anni hanno raccontato momenti della propria vita quotidiana in presa diretta. «Vedozero non è innovativo perché girato con il cellulare – ha detto Caccia - ma perché per la prima volta il cellulare entra nelle scuole e i ragazzi si raccontano in modo diverso rispetto a quello che vediamo su Youtube: lo fanno con un linguaggio nuovo, non solo in senso cinematografico ma nuovo tout court». In un'intervista il regista ha spiegato: «Invece che mettermi in cattedra e mostrare che il cinema ha significati alti, ho dato ai ragazzi un videofonino e ho detto loro: fate voi, senza dare una storia. L'unica cosa che ho chiesto è di filmare dei momenti della loro vita in maniera onesta, puntando il cellulare verso se stessi per raccontare il proprio mondo, ma senza usare toni scandalistici, pruriginosi o sensazionalistici. Quindi via la sceneggiatura, via il casting, via le riprese organizzate e totale libertà. Dai 4000 video da un minuto girati in sei mesi e uplodati su un sito, www.vedozero.it, ho estrapolato i 76 minuti del film, un mosaico di storie in prima persona, senza premeditazione drammaturgica, alla ricerca di una possibile verità da raccontare e dove l'unica protagonista è l'adolescenza». Il titolo «sintetizza due aspetti del film: il vedere, in un invito a riappropriarsi di un gesto, quello del guardare, e il farlo senza preconcetti, partendo da zero». Scrive il critico Paolo Mereghetti: «Come si sarà intuito è piuttosto difficile riassumere la trama del film. Ci sono dei momenti ricorrenti (le paure per le interrogazioni, i legami di coppia, le confidenze tra amiche, le feste serali) e ci sono dei «personaggi» riconoscibili (il «rumorista » che imita le sonorità elettroniche con la bocca, la coppia di fidanzati che si scambiano le fedine e si promettono eterno amore) ma in generale il film procede per accumulo di volti e di situazioni secondo una logica che verrebbe da definire non di causa-effetto ma di affinità (una soggettiva all’interno di un autolavaggio aiuta a «pulirsi gli occhi» dopo una serie di scene notturne). L’unico vero soggetto sono quei settanta giovani e il loro mondo quotidiano, mai “spiegato” o “indagato” ma piuttosto registrato “a futura memoria”, colto nella sua immediatezza e spontaneità, a volte di difficile comprensione. Ma più per gli adulti. Per gli altri è uno specchio in cui guardarsi e nascondersi nello stesso tempo». (mf)