Proseguono le attività del Progetto nazionale per l'inclusione e l'integrazione dei bambini rom, sinti e caminanti, promosso dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali con la collaborazione del Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca. Un'iniziativa sperimentale che coinvolge 13 città riservatarie: Bari, Bologna, Cagliari, Catania, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Palermo, Reggio Calabria, Roma, Torino e Venezia.
Le attività del progetto – che ha come destinatari i bambini e gli adolescenti rom, sinti e caminanti e non, di età compresa fra i 6 e i 14 anni, i dirigenti scolastici, gli insegnanti, il personale ATA, le famiglie rom, sinte e caminanti e tutte le altre famiglie - riguardano due ambiti di vita dei minori rom, sinti e caminanti: la scuola (le prime classi delle primarie e delle secondarie inferiori) e il campo (o contesto abitativo).
Gli interventi realizzati nelle scuole (incontri formativi per i docenti e laboratori e attività didattiche di cooperative learning rivolte agli alunni) puntano a migliorare il clima scolastico, mentre le attività realizzate nei campi o negli altri contesti abitativi dei bambini e degli adolescenti rom, sinti e caminanti mirano a integrare gli obiettivi di successo scolastico con quelli volti alla promozione del benessere complessivo del bambino in relazione alla sua famiglia.
All'iniziativa, a cui è dedicata una sezione di questo sito, partecipa anche l'Istituto degli Innocenti, con il compito di garantire l'assistenza tecnico scientifica alla sua attuazione.
Per cercare di capire più a fondo come si sta svolgendo il progetto nei diversi contesti urbani, vi proponiamo un “viaggio a tappe” nelle 13 città, che darà voce, di volta in volta, al racconto delle diverse figure coinvolte. Il viaggio inizia con l'intervista riportata di seguito a Beatrice Ferraboschi, referente di Venezia. Un ruolo chiave nella definizione e nell'attuazione delle attività, il suo, come quello dei referenti delle altre città.
Qual è la condizione abitativa e sociale delle famiglie rom, sinte e caminanti che vivono a Venezia?
Alcune famiglie abitano nel villaggio di via del Granoturco, un villaggio costruito dall'Amministrazione e reso abitabile nel 2009; altre vivono in contesti di residenza popolare dislocati in vari quartieri della città. C'è solo una roulotte non autorizzata che stiamo provvedendo a sistemare in maniera diversa. Dei 9 bambini coinvolti nel progetto 3 abitano nel villaggio, uno nella roulotte e gli altri 5 in appartamenti.
Il progetto prevede, fra le altre cose, laboratori e altre attività nelle scuole incentrate sul cooperative learning. Lavori di gruppo che coinvolgono tutti gli studenti, rom, sinti e caminanti e non. C'è integrazione fra i bambini in classe? Qual è l'atteggiamento degli alunni verso gli stereotipi?
La situazione a Venezia è abbastanza buona, almeno da quanto emerge dal confronto che ho avuto con i colleghi di altre città. Chi proviene dal villaggio non è sempre visto di buon occhio, perché le famiglie che vivono lì sono state coinvolte, in passato, in fatti di cronaca piuttosto pesanti. Ma la ricaduta nelle classi non è poi così evidente, anche grazie al lavoro di mediazione di insegnanti molto bravi. I bambini che partecipano al progetto difficilmente sono presi di mira e tutto sommato sono sufficientemente integrati. Gli stereotipi ci sono da entrambe le parti. Quando qualche alunno è malato, ad esempio, i genitori dei bambini rom non mandano i loro figli a scuola perché pensano che possano essere contagiati dai bambini veneziani; in altri casi le famiglie rom mirano ad assimilarsi a noi, pensando, ad esempio, che bisogna vestirsi bene per non essere distinti come rom e sinti. Dall'altro punto di vista, le famiglie italiane e anche gli insegnanti a volte si irrigidiscono quando si parla di bambini rom. Fino a qualche anno fa, quando la presenza degli alunni rom era più concentrata nelle classi, le difficoltà di integrazione si sentivano di più, perché i bambini rom tendevano a stare tra loro. Oggi per raggiungere il numero di bambini previsto dal progetto siamo dovuti andare in 6 classi, dove al massimo ci sono 2 bambini per classe. L'impatto in questo caso è molto diverso: gli alunni si integrano in maniera diversa perché non fanno gruppo a sé e sono più distribuiti nelle classi. Noi pensiamo che questo sia indice di integrazione; c'è chi ritiene, invece, che una presenza dei bambini rom distribuita nelle varie classi non sia necessariamente indice di una maggiore integrazione.
Com'è il rapporto tra le famiglie rom, sinte e caminanti e le altre famiglie coinvolte nel progetto?
Le famiglie rom, sinte e caminanti fanno ancora molta fatica a confrontarsi nei contesti di gruppo. Riescono a tenere una continuità con gli insegnanti che lavorano al progetto, ma quando ci sono le riunioni di classe fanno più fatica ad andare; hanno meno problemi, invece, nelle relazioni a due. Le famiglie autoctone le hanno accolte bene. I bambini rom che vivono a Venezia sono sicuramente più integrati rispetto ad altri loro coetanei che vivono in altre città. Ci sono anche delle criticità: ad esempio, non sempre vanno a scuola tutti i giorni, ma partono da una buona base, costruita negli ultimi venti anni di lavoro.
Come si declinano le attività all'interno degli appartamenti?
Si aiutano i bambini a fare i compiti, ma si fanno anche lunghe conversazioni con i genitori, per far emergere i loro bisogni. Si cerca anche di far capire ai padri e alle madri rom l'importanza dell'istruzione. Il nostro lavoro è soprattutto quello di essere presenti, avere la loro fiducia e facilitare i loro rapporti con gli altri. Le famiglie rom, sinte e caminanti con cui avevamo già un rapporto ci hanno aperto le loro case fin da subito, con facilità, felicissime di essere sostenute. Le nostre relazioni con loro sono state sicuramente favorite dall'aiuto che abbiamo offerto ai figli nello svolgimento dei compiti. Una buona “scusa” che vince sempre con le famiglie rom, proprio per il fatto che non conoscono bene la nostra lingua, e diventa il punto di partenza per avviare anche un lavoro sulla genitorialità responsabile.
Il progetto coinvolge figure professionali diverse: operatori, insegnanti, dirigenti scolastici, docenti e altri esperti. Come procede il lavoro di rete tra tutti questi soggetti?
Il progetto ci ha dato l'opportunità di andare a lavorare all'interno del gruppo classe; gli operatori hanno affiancato gli insegnanti nella gestione dei laboratori e viceversa. Abbiamo costituito un'équipe multidisciplinare che si incontra mensilmente dove portiamo avanti il progetto, ci aggiorniamo sulle attività a scuola e sulle altre attività del progetto. Per noi operatori è stato molto utile avere accanto delle figure come gli insegnanti, anche se all'inizio il dialogo non è stato facile. Le équipe multidisciplinari hanno rappresentato il tassello innovativo del progetto, un aspetto molto importante. Non nascondo che ci sono state alcune difficoltà all'inizio, ma si tratta di conflitti “normali” per un gruppo che sta nascendo; nel tempo le cose si sono appianate e oggi funzionano.
Quali sono le principali difficoltà nell'attuazione del progetto e quali, invece, i punti di forza dell'iniziativa?
Una difficoltà è il fatto che non è stato facile cercare di combinare le esigenze locali con i paletti che il progetto nazionale deve giustamente avere. Per raggiungere il numero target di 10 bambini, ad esempio, abbiamo dovuto triplicare il lavoro a scuola, perché i bambini coinvolti sono distribuiti in più classi. Si tratta, tuttavia, di difficoltà strutturali, legate alle peculiarità del contesto veneziano. Il risultato ottenuto, comunque, è buono. Un'altra criticità è il fatto di non poter ragionare a lungo termine: una sperimentazione di questo tipo richiede, a mio avviso, una continuità maggiore; sarebbe importante che un successivo finanziamento arrivasse subito. Passo ora ai punti di forza. A noi operatori questo progetto è servito moltissimo, perché eravamo concentrati a lavorare sempre e solo sul villaggio. L'iniziativa promossa dal Ministero ha permesso di dare una “svolta cittadina” al nostro impegno: abbiamo cominciato, così, a guardare anche ai rom, sinti e caminanti che vivono negli appartamenti e in altre realtà. Altri punti di forza molto importanti sono l'aver messo insieme operatori e insegnanti, il lavoro di rete di cui parlavo prima e il fatto che il progetto si rivolge a tutti i bambini, non solo agli alunni rom, sinti e caminanti.
Cosa prevedono gli incontri di “supporto rielaborativo” che riguardano l'équipe multidisciplinare?
La formazione è una parte molto importante del progetto, che prevede vari livelli. Noi l'abbiamo intesa in maniera un po' “personale”. Abbiamo pensato che l'équipe multidisciplinare avesse bisogno di spazi di pensiero diversi, che non fossero solo momenti in cui organizzare e prendere decisioni, ma momenti in cui creare cultura e contenuto. Ci sono dei conduttori esterni che ci aiutano in questo e anche noi lavoriamo con il cooperative learning. Sempre in tema di formazione, ricordo un'altra iniziativa molto importante realizzata a Venezia: gli insegnanti e gli operatori che conducono i laboratori partecipano periodicamente ad alcuni incontri con uno psicopedagogista e una collega del mio servizio, che li aiutano a riflettere sul lavoro svolto e individuare eventuali difficoltà.
(Barbara Guastella)