"Mio padre che amava Salgari e Gian Burrasca"

30/11/2009

Pubblichiamo in forma integrale l'intervento che Cristina Moro, figlia di Carlo Alfredo Moro, ha letto il 24 novembre scorso, in occasione della cerimonia di intitolazione al padre della Biblioteca Innocenti Library di Firenze. Scomparso nel 2005, Alfredo Carlo Moro è stato tra i creatori del Centro nazionale e tra le personalità più autorevoli nel campo dei diritti dei bambini.

 

«Esprimo a nome di tutta  la nostra famiglia il nostro sentito e commosso ringraziamento all’Istituto degli Innocenti, all’UNICEF ed a quanti hanno promosso l’iniziativa di intitolare questa biblioteca a mio padre, Alfredo Carlo Moro.
E’ un iniziativa che ci commuove innanzitutto perché testimonia ancora una volta il profondo affetto e la stima di tanti che hanno condiviso con papà lavoro e passioni civili, e che continuano nella visibilità o nell’anonimato, con la parola o con l’azione o tutte e due, a fare quanto lui  qui non può fare più: lavorare per allargare il numero dei cittadini di questo mondo e per far sì che questa cittadinanza sia per tutti piena.

Ci coinvolge emotivamente  anche e soprattutto  perché legherà per il futuro il nome e il ricordo di papà a due cose che tanto ce lo ricordano: l’amore per i libri e la cultura; la convinzione radicata che formazione e promozione dell’uomo  necessitino di un continuo impegno e alimento culturale.

E per papà libri e biblioteche sono stati tra i più importanti strumenti di conoscenza e interpretazione della realtà, amati fin da giovanissimo.

Ci raccontava che da bambino aveva in casa pochi libri e che li leggeva e rileggeva fino a  impararli  a memoria; che pur di leggere divorava qualunque cosa gli passasse sotto tiro, anche non adatta all’età, come alcuni famosi romanzi storico-popolari. E quando alcuni di quei romanzi furono sceneggiati e parodiati da Gregoretti e trasmessi in TV, papà non si perse neanche una puntata della serie; pensai che nell’entusiasmo di papà per quelle parodie ci fosse qualcosa di più del giusto apprezzamento per le indubbie capacità  e le  doti di penetrante ironia del regista- sceneggiatore; secondo me c’era  gratitudine,  perché Gregoretti aveva riscattato col riso le noiose e  troppo eroiche letture a cui la fame di libri aveva costretto da troppo piccolo papà.

Si vedeva che amava i libri come si amano le cose e le persone che ti hanno procurato gioia e conforto. Rammentava con entusiasmo la scoperta di una biblioteca itinerante che  lo consolò presto dell’esser rimasto in città l’estate; seduto su una panchina all’ombra aveva passato l’estate a leggere i tanti romanzi presi in prestito. E ricordava con gioia la felice scoperta, appena giunto a Roma nel 1939, dei libri sulle bancarelle in via Cola di Rienzo; ed all’uscita dal tetro periodo della guerra accolse la comparsa dei libri tascabili, accessibili anche al suo portafoglio, come uno dei segnali  della rinascita.

E tributava ai libri anche un po’ di venerazione.

Chi è venuto nella nostra casa ha sicuramente notato come con l’andare degli anni i libri di papà aumentavano fino ad accerchiarci e ad alimentare interminabili  discussioni su cosa si dovesse eliminare per far loro posto.
E c’erano pure i rituali:  tra ottobre e novembre papà si riservava ogni anno almeno un giorno per rifar ordine nella sua biblioteca. Si metteva il maglione, si armava  di scala e piumino, di fogli di carta da ricoprire e di etichette, andava su e giù per la scala per liberare uno per uno i libri dalla polvere; risanava poi, come poteva, i libri malconci e li cambiava di posto perché non fossero troppo in evidenza; ma, certo, non  li gettava. Spettava a lui insegnarci e aiutarci a ricoprire i libri di scuola e quando stava lì, non perdeva mai l’occasione per commentare con noi le immagini dei nuovi libri. Ed era lui che ci dava consigli di lettura, contagiandoci delle sue passioni da ragazzo. Adorava Salgari, che - ci raccontava - leggeva mezzo di nascosto dal padre, il quale,  da buon direttore scolastico, sponsorizzava invece Verne, lettura ben più seria e autorevole se si volevano acquisire cognizioni esatte dal punto vista geografico e grammaticale.

E papà ci spiegava che amava Salgari proprio perché non voleva insegnargli nulla, perché era fantasia allo stato puro, perché sapeva inventare trame avvincenti, con non trascurabili aspetti amorosi, perché lo portava in mondi assai esotici, anche se talvolta improbabili. L’altro amore era Gian Burrasca; era una reazione, diceva, per l’esser stato educato alla lettura di libri i cui protagonisti erano  tutti ragazzi “ammodino”, melensi e imbalsamati, o comunque personaggi troppo stereotipati; Gian Burrasca gli pareva finalmente un bambino vero: un bambino senza cattiveria, il che non gli impediva di fare macelli; un ragazzo che cercava di fare bene, ma vedeva rivoltarsi sorprendentemente l’esito delle sue azioni; che cercava approvazione e trovava invece incomprensioni; che rispettava gli adulti, ma di continuo era costretto a scoprirne magagne e ipocrisie.

La scelta del libro era insomma un’occasione per noi per capire quel che pensava, sentiva e che aveva pensato e sentito da bambino. E anche da più grandicelli la sera ci ritrovavamo nel suo studio a restituirgli il libro appena letto, per esigerne un altro, magari lamentandoci che ne volevamo uno più da grandi; non contestavamo quel rito del dover chiedere, o non lo contestavamo troppo, perché a tutti noi piaceva attendere che ci domandasse se c’era piaciuto e poi star lì a raccontare, mentre lui ascoltava con interesse e serietà i nostri ingenui entusiasmi e i nostri patetici tentativi di recensione. E la storia è continuata con i nipoti che hanno tutti letto e discusso col nonno i libri di Salgari, ripetendo tutte le invettive che lui ricordava a memoria, citandole come gemme: “Per mille campane di Brest”, “Corpo di mille balene” e via citando. Oltre a contagiarci al gusto della lettura, ci ha incoraggiato a scambiarci i libri con gli amici perché il bello era poterne parlare per comunicare  idee ed emozioni provate.

Non vorrei avervi dato l’impressione che papà amasse solo la lettura di evasione o rifuggisse dalla serietà e della fatica dell’impegno intellettuale, perché è vero il contrario. L’amore  anche dei generi meno alti della cultura era il risvolto, solo apparentemente  paradossale, di una concezione estremamente alta della cultura che per papà era un tutt’uno con la vita e che doveva essere per lui uno strumento vitale, di salvezza per l’uomo, finalizzata alla formazione e alla promozione dell’uomo cittadino della comunità umana.

Papà  ha creduto veramente all’importanza  della parola, del dialogo, del confronto e dell’impegno culturale  come mezzo per capire e rendere più giusto il mondo, come fondamento dell’impegno sociale e perciò ha parlato e scritto moltissimo. Riteneva che :“l’autentica cultura non può essere né chiusa in se stessa né autoreferente: essa vive nel dialogo e per il dialogo; deve sapere svolgere un’opera di mediazione degli uomini tra loro, dei diversi ambienti, tra l’ieri l’oggi e il domani; deve sapersi aprire agli altri e alle verità sia pure parziali di cui altri sono portatori, perché nessuno può dire di possedere compiute e indiscutibili risposte alle domande che l’uomo si pone; deve sapere accettare la storia con le sue ambiguità senza evasioni nell'utopia, ma senza neppure rinunciare alla tensione utopica che solo consente di non appiattirsi sul  contingente; deve sapere riconoscere la gradualità della difficile costruzione del nuovo senza impazienze, senza fughe dalla realtà, senza farsi attrarre da facili  scorciatoie”.

E, nel commemorare l’amico fraterno, Vittorio Bachelet, attribuiva a lui un atteggiamento che avrebbe potuto sicuramente attribuire anche a sé stesso: “non amò Vittorio la cultura come personale appagamento di un astratto piacere intellettuale, non gli interessò la cultura fine a se stessa e tanto meno come potere su gli altri; volle entrare con il suo impegno culturale nella vita degli uomini per cercare in qualche modo di aiutarli ad affrancarsi dai pesanti condizionamenti che li avviluppano.”

Credo veramente, quindi, che sarebbe stato molto contento  di sapere che è stato intitolato a lui un luogo alla cui istituzione ha lavorato e che nella sua storia e nelle sue finalità riassume tutto quello in cui papà ha fermamente creduto: leggere per intelligere la realtà, per leggerla  fra le righe, cioè oltre le pieghe dei pregiudizi e del luogo comune; e poi parlarne insieme, e non per amor di oratoria, ma per persuadere istituzioni e società a riconoscere e garantire un pieno diritto di cittadinanza a tutti  gli uomini, e in particolare a quelli che ancora oggi per condizioni di età o di provenienza geografica, culturale e sociale sono spesso trattati o come sudditi o come cittadini di serie B». 
Cristina Moro