G2 musulmani, orgoglio e identità

18/10/2011

Un primo tentativo di ritratto delle seconde generazioni musulmane: è il rapporto G2: una generazione orgogliosa, promosso dall'associazione Genemagrebina e presentata nelle scorse settimane. La ricerca, che vuole essere “esplorativa”, si concentra sulle comunità egiziane, marocchine e pakistane presenti nel nostro paese.

Realizzata da Abis Analisi e Strategie con la collaborazione del Centro italiano studi elettorali della LUISS, la ricerca parte dall'assunto che «le seconde generazioni svolgano un ruolo cruciale nelle dinamiche d’integrazione degli immigrati». Gli elementi che emergono sono di sicuro interesse, con la dovuta premessa che, trattandosi di un'indagine qualitativa e non essendoci alla spalle un campione probabilistico, sarebbe fuorviante generalizzare opinioni e pensieri espressi dai ragazzi intervistati.

Per i ragazzi intervistati l'integrazione non può che essere un processo «complesso e articolato», che muove da «uno scambio e una maggiore conoscenza reciproca», ma che non può fare a meno di «doppia appartenenza e reciprocità». «Alla domanda se un immigrato di seconda generazione debba integrarsi o mantenere l’identità e le tradizioni del paese di provenienza la risposta è univoca: integrarsi conservando le proprie tradizioni». “Integrazione” è una parola percepita con diffidenza: «sembra volere dire che ai giovani musulmani di seconda generazione manchi qualcosa, che debbano riparare a lacune, a mancanze». La doppia appartenenza è però «una ricchezza, perchè sono abituati al confronto con la differenza, a parlare più lingue, a muoversi tra culture diverse».

Ma l'Italia, il paese che ha accolto e dato spazio alle loro famiglie, è ora percepita in modo diverso. È casa, sicuramente, «dove hanno avuto opportunità di studio e di benessere che nei paesi da cui provengono non sarebbero stati possibili» ma «oggi tende a respingere, a far sentire indesiderato lo straniero, soprattutto se musulmano». Eppure, le aspettative di ragazzi e ragazze sono «comuni a quelle dei loro coetanei nati da coppie italiane, in linea con i loro diplomi e i loro sogni»
Oltre a tutte le difficoltà legate alla differente provenienza, l'ignoranza è il nemico numero uno per i ragazzi intervistati. «Gli italiani ignorano cosa sia l'islam, ignorano la differenza tra un marocchino, un algerino, un egiziano, ignorano che i giovani di seconda generazione – cresciuti in Italia – parlano bene l'italiano e si rivolgono a loro parlando lentamente e scandendo le parole così come si fa con i turisti stranieri». L'indifferenza verso la propria cultura è motivo di sofferenza, soprattutto a causa dell'immagine «stereotipata e sminuente» veicolata spesso dai media.

Ma per i ragazzi dei focus, l'Islam è un momento di identità, «il più forte riferimento culturale e morale che essi abbiano». Questo grazie anche all'associazionismo musulmano, che «ha aiutato questi giovani a cominciare un vero e proprio dialogo con sé stessi e la loro identità». Inoltre molti intervistati lamentano che la libertà di culto affermata dalla Costituzione italiana resta di fatto una dichiarazione di principio normalmente smentita dalla realtà. Pregare o indossare il velo è teoricamente permesso ma entrambi questi comportamenti sono di fatto disconosciuti, resi di difficile attuazione nella realtà di tutti i giorni. In alcune città, grandi e piccole, mancano le moschee. In altre, i luoghi di culto sono ricavati in garage, cortili, strade, cinema, spazi non sempre idonei al raccoglimento e alla preghiera. Questa mancanza rende difficile vivere la propria religiosità e sentirsi comunità.

Le donne intervistate sembrano condividere le regole islamiche alle quali sono state educate. Hanno un forte rispetto per i genitori: “onorano il padre e la madre”, in un quadro complessivo in cui tutte riferiscono di avere rapporti molto buoni con i loro genitori, basati sulla libertà e la fiducia. Sanno che il futuro marito dovrà essere musulmano e piacere al loro padre, ma non vivono questa condizione come una limitazione alla loro possibilità di autorealizzazione. Pur nel quadro di queste coordinate di fondo omogenee, si registra in loro un diverso grado di intensità del legame con la propria cultura e religione di origine e, anche se rispetto alle loro coetanee italiane per lo più non fumano, non bevono, non vanno in discoteca, credono nel matrimonio e nel valore della verginità, si rilevano quote non trascurabili di ragazze più “trasgressive” rispetto a queste norme di comportamento.

L’usanza delle donne musulmane di indossare il velo è divenuta più visibile in Italia negli ultimi anni. La decisione delle donne di indossare il velo evidenzia una precisa scelta identitaria, che è conseguenza dell’adesione ai modelli culturali trasmessi dalla famiglia. Il conflitto con i modelli familiari invece favorisce l’abbandono del velo come segno esteriore della rottura con essi. In prevalenza le intervistate che indossano il velo sottolineano che la loro è una scelta personale e che nessuno le ha costrette. Tuttavia in alcuni casi (in particolare nel caso delle donne pachistane) si percepisce una forte influenza della famiglia di origine nell’orientare questo comportamento. Le donne che indossano il velo riferiscono di essere circondate da diffidenza e rifiuto da parte degli italiani. Il velo diventa un limite ai processi di integrazione sociale: chi lo indossa è convinto che sia un ostacolo nella ricerca di un lavoro qualificato, che precluda ad esempio l’impiego in uno studio professionale o in una agenzia di viaggio.

Una questione importante, ai fini di una più sostanziale integrazione delle seconde generazioni, è la concessione della cittadinanza italiana a chi, figlio d’immigrati, nasca in Italia. Sentirsi italiani ma essere legalmente stranieri è infatti una condizione talmente frustrante da poter generare in prospettiva forme di risentimento.

L'indagine è stato focalizzata su giovani appartenenti a famiglie originarie di paesi musulmani, selezionati in base alla consistenza della presenza in Italia e a criteri d’ordine geografico-culturale. Sono state presi interpellati «giovani (maschi e femmine) in età compresa tra i 23-24  anni e i 32-33 anni, nati in Italia o venuti in Italia  da piccoli, insieme ai genitori o in momento   successivo» in quattro aree metropolitane a forte presenza straniere: le aree metropolitane di Torino, Milano e Roma e quella di Brescia e hinterland. Focus group e interviste approfondite soprattutto con le ragazze sono stati gli strumenti principali mediante i quali ottenere le informazioni. I promotori della ricerca evidenziano la «grande interattività» e «attiva partecipazione» dei ragazzi interpellati, ma anche il filtro che interviene «in particolare su temi come rapporti familiari, relazioni sentimentali, rapporto con la politica». (mf)