Asili nido pubblici e privati, il quadro aggiornato

Nell'anno scolastico 2010-2011 la percentuale di bambini che si avvale di un servizio socio-educativo pubblico è pari al 14 per cento. Dal 2003-2004 al 2010-2011 aumenta, anche se di poco,  la spesa sostenuta dai comuni per gli asili nido. Sono alcuni dati che emergono dal rapporto dell'Istat L'offerta comunale di asili nido e altri servizi socio-educativi per la prima infanzia, diffuso di recente.

La fotografia scattata dall'Istituto nazionale di statistica registra un progressivo incremento, negli anni, della percentuale di comuni che offrono il servizio di asilo nido, sotto forma di strutture comunali o di trasferimenti alle famiglie che usufruiscono di strutture private.

Un dato positivo che però non basta a soddisfare le richieste: «nonostante il graduale ampliamento dell'offerta pubblica di asili nido, la quota di domanda soddisfatta è ancora limitata rispetto al potenziale bacino di utenza», si legge nel report.

Un altro aspetto critico evidenziato dai dati è il divario tra le regioni. Le differenze territoriali sono «ancora molto ampie in termini sia di spesa che di offerta e di utilizzo dei servizi esistenti». Per quanto riguarda l'indicatore di presa in carico dei bambini in asilo nido in rapporto ai residenti tra 0 e 2 anni (cioè il numero di utenti per 100 bambini tra 0 e 2 anni), ai primi posti ci sono l'Emilia Romagna (29,4 per cento), l'Umbria (27,6 per cento) e la Valle d'Aosta (27,1 per cento). Le percentuali più basse, invece, si registrano in Molise e Sicilia (entrambe 5,5 per cento), Puglia (4,6 per cento), Campania (2,7 per cento) e Calabria (2,4 per cento). Dal report emerge, fra le altre cose, anche la scarsa diffusione sul territorio dei servizi integrativi per la prima infanzia: i bambini che li hanno frequentati nell'anno scolastico 2010-2011 sono il 2,2 per cento.

I dati, si precisa nel documento, «sono riferiti ai soli utenti delle strutture comunali o delle strutture private convenzionate o sovvenzionate dal settore pubblico, mentre sono esclusi dalla rilevazione gli utenti del privato tout court», che dovrebbero invece concorrere all'obiettivo del 33 per cento indicato dal Consiglio europeo di Lisbona del 2000. «Si tratta di una precisazione importante - spiega Aldo Fortunati, direttore dell'area educativa dell'Istituto degli Innocenti di Firenze –, su cui occorre fare alcune considerazioni». A Fortunati abbiamo rivolto qualche domanda sul quadro generale dell'offerta educativa per la prima infanzia delineato dal rapporto, alla luce di questa integrazione.

 

Quali sono le reali opportunità di accesso dei bambini ai servizi educativi per la prima infanzia?

I dati dell'Istat fotografano un pezzo molto importante dell'offerta educativa: i nidi e i servizi integrativi pubblici o convenzionati con il pubblico. Un'opportunità che interessa poco meno del 12 per cento dei bambini da 0 a 3 anni per quanto riguarda l'accesso al nido e circa il 2 per cento per quanto riguarda i servizi integrativi. Circa il 5-6 per cento dei bambini da 0 a 3 anni, invece, accede a un nido o a un servizio integrativo privato, non convenzionato con il pubblico. Dato, questo, che emerge dai sistemi informativi delle regioni e delle province autonome ed è stato raccolto dall'Istituto degli Innocenti per conto del Centro nazionale di documentazione e analisi per l'infanzia e l'adolescenza nell'ambito delle attività di monitoraggio del Piano straordinario per lo sviluppo dei servizi socio-educativi per la prima infanzia. Tenendo conto anche dell'offerta privata, si registra, quindi, una misura di copertura che arriva quasi al 20 per cento. Dobbiamo considerare, però, che i bambini da 0 a 3 anni in molti casi utilizzano un accesso anticipato alla scuola dell'infanzia. I dati del Miur ci parlano di una percentuale di poco inferiore al 5 per cento, questo vuol dire che altri 5 bambini su 100 accedono come anticipatari a una scuola dell'infanzia. Mettendo insieme tutti questi dati, l'indice di copertura è intorno al 25 per cento. Occorre precisare che sono dati che si possono dare con riferimento al 31 dicembre. Se si sposta l'orologio a settembre, all'inizio dell'anno scolastico, a questi bambini si devono aggiungere quelli che normalmente, non avendo ancora compiuto i 3 anni di età, cominciano a frequentare una scuola dell'infanzia. Si arriva così ad aggiungere alle percentuali dette prima altri sette punti. In conclusione, mettendo insieme nidi pubblici e privati, servizi integrativi pubblici e privati, accesso anticipato e accesso ordinario alla scuola dell'infanzia di bambini che non hanno ancora compiuto 3 anni, si arriva a una percentuale di copertura di circa 1 bambino su 3.

 

Quali gli aspetti più rilevanti che emergono dal rapporto?

C'è un trend di crescita nella copertura attraverso la tipologia del nido: nella serie storica, negli ultimi 8 anni, si passa dal 9 al 12 per cento circa. Un incremento importante. C'è invece una leggera flessione del dato relativo ai servizi integrativi, che comprendono, ad esempio, gli spazi gioco e i centri per bambini e genitori. Questi servizi sono proposte troppo leggere e incostanti nel tempo. Sono importanti, perché rispondono a esigenze di gioco e apprendimento, ma non hanno caratteristiche utili a sostenere anche i difficili equilibri dell'organizzazione quotidiana della vita di una famiglia. Le famiglie, al contrario, hanno bisogno di servizi educativi che riconoscano il diritto all'educazione dei bambini ma che siano anche delle sponde di supporto capaci di offrire una possibilità di conciliazione fra tempi di lavoro e tempi di cura. L'altro dato evidenziato dal rapporto, ma anche dalle attività di monitoraggio del Piano straordinario, è la forte disparità territoriale. Alcune regioni hanno conquistato livelli di copertura al di sopra del 20 per cento secondo i dati dell'Istat (al di sopra del 30 per cento secondo i dati del monitoraggio), mentre il Mezzogiorno ha livelli di copertura al di sotto della metà della media nazionale, con punte negative estreme del 2-3 per cento di copertura.

 

Qual è il dato di maggiore criticità?

Sicuramente la disparità territoriale. Il dato non si modifica se spostiamo l'attenzione dai dati dell'Istat ai dati di monitoraggio derivati dai sistemi informativi delle regioni, che comprendono sia i servizi pubblici che quelli privati. La presenza del privato non è alternativa ma complementare a quella pubblica: sono le regioni che hanno il maggior livello di diffusione dei servizi quelle in cui è più forte il protagonismo del privato, mentre il privato non attecchisce nelle aree del Paese in cui non c'è una presenza pubblica. Il Mezzogiorno, dunque, è doppiamente sfavorito, per la scarsa presenza del pubblico e per la scarsa presenza del privato.

 

A cosa è dovuto l'ampio divario tra le regioni?

La disparità territoriale dipende dal fatto che le attività di impulso allo sviluppo dei servizi non hanno avuto origine da un piano nazionale. Inizialmente l'impulso è derivato dalla legge 1044/1971, che ha avuto un arco di effetto di una decina di anni, ma da quel momento fino al 2007, quando è entrato in vigore il Piano straordinario, non c'è stata un'azione dal centro verso la periferia per coordinare lo sviluppo della rete dei servizi. Questo ha comportato che alcune regioni del Centro-Nord hanno promosso con continuità politiche di sviluppo dei servizi, mentre le regioni del Mezzogiorno non hanno fatto altrettanto.

 

Ci sono degli aspetti positivi nel quadro generale delineato dall'Istat?

Credo che gli ingredienti di positività siano da ricondurre alle occasioni nelle quali le regioni hanno condiviso momenti di riflessione intorno allo sviluppo delle politiche per l'infanzia. Negli ultimi anni, sia nell'ambito delle attività di attuazione del Piano straordinario, sia nell'ambito delle attività di assistenza tecnica che il Governo ha disposto nei confronti delle regioni del Mezzogiorno, c'è stato un processo di coinvolgimento, di partecipazione attiva delle regioni a una verifica dello stato dei servizi e all'elaborazione di strategie rinnovate di programmazione e sviluppo dei servizi. Queste attività sono avvenute all'interno di azioni straordinarie; il Piano straordinario, in particolare, è stato avviato nel 2007 e si è concluso nel 2010. Ora siamo in una fase in cui rischiamo di retrocedere rispetto a quegli ingredienti positivi che avevamo cominciato a sperimentare perché si è interrotto un flusso di risorse incentivanti e si è interrotta la possibilità di dare continuità a queste riflessioni condivise da parte di tutte le regioni. Le attività sono ad oggi sospese, tranne che per le regioni del Mezzogiorno, per le quali è stato rifinanziato un intervento straordinario di diverse centinaia di milioni di euro che possiamo auspicare che dia il riavvio alle attività di assistenza tecnica già nel corso degli ultimi mesi di quest'anno.

 

I dati mettono in evidenza un ampliamento dell'offerta pubblica, anche se graduale. A cosa è dovuta questa evoluzione?

L'espansione del sistema è dovuta al fatto che soprattutto nelle aree territoriali dove i servizi ci sono c'è una forte domanda perché i servizi siano di più. Le incentivazioni attraverso il Piano straordinario hanno rinnovato la motivazione degli enti locali a proseguire nello sviluppo delle iniziative. Un trend positivo che ha interessato il Centro-Nord sia per l'offerta pubblica che per quella privata. Questo purtroppo non è successo nel Mezzogiorno. Per l'ampliamento dei servizi nelle regioni del Sud occorre che si confermi un'assunzione di responsabilità da parte pubblica nel sostegno allo sviluppo attraverso il finanziamento, in un quadro in cui le iniziative siano poi realizzate da una pluralità di soggetti, pubblici e privati, che concorrono ad animare le esperienze. Il pluralismo di soggetti coinvolti non ci deve far dimenticare che alle spalle ci vuole una parte pubblica che definisca le regole, controlli il funzionamento dei servizi garantendone la qualità e sostenga i costi.

(Barbara Guastella)

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