Come emerge scorrendo la biografia di Steven Spielberg è quasi impossibile tenere separata la carriera (e i film) del regista da quella del produttore (e dai film da lui finanziati). Il cinema, per Steven Spielberg così come per gli altri registi della cosiddetta "Nuova Hollywood" (Coppola e Lucas su tutti), si pone, infatti, fin da principio come una sorta di “giocattolo” da smontare, alla amniera dei bambini, per scoprirne i meccanismi più intimi di produzione e, successivamente, da riutilizzare per generare fascinazione. Non si tratta solo dell'uso invasivo degli effetti speciali o di tentativi di monopolizzare il mercato cinematografico (che resta sempre saldamente in mano alle major), bensì di qualcosa di più profondo che, facendo proprie le nuove tecnologie, riesce a proporre veri e propri “prodotti globali” adatti alla filosofia dell' entertainment, un concetto che compendia cinema, televisione, videogame, musica, gadget e quant'altro all'interno di un progetto complessivo che tende a coinvolgere bambini, adolescenti ma anche adulti. Dietro a tali prodotti agisce una strategia che, trasformando l'immaginario in marketing, mette in scena attraverso le sue molteplici presentificazioni una visione di certo invasiva sotto il profilo commerciale ma al tempo stesso fondata su meccanismi della psicologia collettiva niente affatto scontati. Quella dell'entertainment è una concezione che rivoluziona il cinema soprattutto per l'eliminazione della consueta suddivisione del pubblico per età: il film d'avventura con forti componenti spettacolari non è più destinato ad un'audience formata prevalentemente da adolescenti (e, solo dopo, anche dagli adulti), ma a un pubblico vastissimo per il quale il film è solo il primo anello di una lunga catena di prodotti multimediali appartenenti a quella che potremmo definire come “industria culturale di massa”. Forse è proprio per questi motivi che molti dei film di Steven Spielberg hanno come protagonisti bambini o adolescenti e, anche quelli con personaggi adulti, vedono questi ultimi agire come animati da uno spirito di infantile disposto a seguire più i voli della fantasia che a restare con i piedi per terra. Si pensi al protagonista di Incontri ravvicinati del terzo tipo, un tipo di eroe americano completamente nuovo, capace (proprio come farebbe un bambino o un adolescente), di mettere da parte valori dati per scontati come il lavoro, la casa, la famiglia per inseguire una propria “visione”, una sorta di Peter Pan che, non a caso, ormai divenuto uomo, è protagonista di Hook – Capitan Uncino, un film nel quale agli adulti viene chiesto di riscoprire il loro lato affettivo ed emozionale più infantile e sincero, o ancora ad Hammond, il magnate di Jurassic Park, anch'egli rapito da una visione che si colloca a cavallo tra fantasia e scienza, quella di riportare in vita i dinosauri, o infine allo scienziato che, al termine di E.T. – L'extraterrestre, assistendo al decollo dell'astronave aliena afferma esterrefatto di aver atteso quel momento fin da quando era bambino. Non è un caso se abbiamo parlato di “voli” della fantasia: tale prerogativa preclusa agli umani è, infatti, uno dei topoi che attraversano quasi per intero il cinema di Steven Spielberg, un elemento che accomuna i personaggi più disparati: dal piccolo Jim di L'impero del sole (bambino costretto a crescere troppo in fretta) appassionato di aviazione, al protagonista di Hook che, regredendo, torna a librarsi come quando era adolescente, ai bambini in bicicletta nel finale di E.T., alla professione scelta dal giovane Frank Abagnale di Prova a prendermi (altro esempio di adolescente costretto a maturare precocemente) per fuggire dal mondo degli adulti e farsene gioco, quella del pilota d'aereo. Si tratta, in ogni caso, di vere “traiettorie dello sguardo” che, proprio secondo la filosofia spielberghiana, perdono sempre più in quanto a concretezza per compiere evoluzioni possibili solo per chi è disposto a credere anche all'impossibile (e ad un cinema fondato su una sorta di affabulazione tecnologica). Una concezione che, se trovava una sintesi perfetta nell'affermazione di Elliott, il bambino protagonista di E.T. , “i grandi non possono vederlo [l'extraterrestre], solo noi ragazzi”, quella di un'esclusiva del mondo infantile rispetto alla fantasia, in La guerra dei mondi viene capovolta con alieni terrificanti che scrutano attraverso grandi occhi meccanici un'umanità in fondo incapace di preservare dall'orrore lo sguardo dei propri bambini.
Fabrizio Colamartino