La scena negata: rappresentazioni problematiche della giustizia minorile nel cinema e nel teatro

Il rapporto che si instaura tra un minore e la giustizia, in particolare attraverso la figura del giudice minorile, riflette e riproduce – spesso nel bene, a volte nel male – quello tra mondo adulto e mondo dell’adolescenza. L’analisi del ruolo della magistratura in un caso in cui sia coinvolto un minore, dunque, non implica soltanto una valutazione della bontà degli strumenti approntati per fronteggiare gli aspetti più problematici della condizione minorile, ma anche una riflessione sulla rappresentazione che la società riesce a dare di se stessa e del suo rapporto con i suoi membri più giovani: a volte, infatti, il legislatore sembra promulgare a partire dall’immagine riflessa della realtà restituita da statistiche e media. Se una riflessione si impone soprattutto per quanto riguarda la rappresentazione che i mezzi di informazione danno dell’universo giudiziario, altrettanto importante può essere valutare i media che analizzano la questione attraverso la mediazione di un dispositivo atto a produrre una rappresentazione in senso proprio, primi fra tutti cinema – sia nella sua accezione di documentario, quanto di fiction – e teatro.

Sguardi in cella: ritratti ristretti Quanto complessa possa essere tale relazione (tra informazione, opinione pubblica e politica attorno al tema della giustizia minorile) lo si evince da un film tra i meno conosciuti di un importante regista italiano, La fine del gioco (1970) di Gianni Amelio: in questa sua prima prova per il grande schermo l’autore mette l’uno di fronte all’altro un regista televisivo che, armato di tutte le migliori intenzioni, sta conducendo un’inchiesta sulla giustizia minorile e un ragazzino recluso in un riformatorio del Sud d’Italia. Al termine delle riprese il giovane Leonardo (che dal regista è stato scelto come portavoce di tutti i suoi compagni di prigionia) metterà il suo intervistatore con le spalle al muro, rivelando di aver raccontato solo ciò che i “superiori” gli avevano imposto di dire e accusandolo di non essere stato realmente in grado di mettersi al servizio della realtà o, per lo meno, di averne omessa una parte essenziale per farne un uso strumentale e paternalistico. I ruoli si ribaltano e sul banco degli imputati sale l’informazione, accusata di rappresentare non già i fatti ma di seguire semplicemente gli umori dell’opinione pubblica da un lato e di spalleggiare il potere politico dall’altro.

Attorno alla relazione che si instaura tra la legge – rappresentata dal giudice minorile – e il minore sottoposto alla sua tutela o al suo giudizio, si rideterminano, dunque, i limiti e le possibilità di una più generale relazione tra società e individuo: partendo dall’anello più delicato della catena, il rapporto con la giustizia può essere analizzato in profondità e nei suoi aspetti più contraddittori e, nel caso in cui sia il cinema a occuparsene, anche i più eclatanti. A dominare le rappresentazioni cinematografiche sulla giustizia minorile, infatti, sono soprattutto le “emergenze sociali”, i casi limite, le vicende connotate da comportamenti patologici – che vanno, ovviamente, sanzionati ed emendati, ma che costituiscono una parte non così significativa del totale dei procedimenti – mentre decisamente più rare sono le occasioni in cui a finire sotto i riflettori è il ruolo di tutela del giudice nei confronti del minore in tutti quei casi in cui il minore sia non già il protagonista, bensì la vittima di una violenza.

Nella memoria, tanto dello spettatore quanto del critico, restano impresse immagini entrate nella storia del cinema soprattutto per la forza della loro denuncia: Sciuscià (1946) di Vittorio De Sica ci ricorda che in un passato non troppo lontano la devianza e il disagio giovanile venivano “corretti” con la reclusione; Pixote, la legge del più debole (1980) di Hector Babenco o Salaam Bombay! (1988) di Mira Nair ci ammoniscono sulla puntuale negazione dei diritti civili anche e soprattutto verso i minori nelle aree più povere del mondo; Vito e gli altri (1991) di Antonio Capuano e Mery per sempre (1989) di Marco Risi ci dicono quanto sia difficile per i giovani reclutati dalla malavita organizzata riuscire a imboccare un vero percorso di recupero. Si tratta di opere che mettono in evidenza come, sia all’esterno sia all’interno delle quattro mura del carcere, violenza e sopraffazione dominino incontrastate e come la reclusione non possa costituire per i ragazzi una reale possibilità di recupero ma, semmai, un’ulteriore tappa di un lungo viaggio nel degrado. Ciò che emerge, in particolare, è l’irriducibilità di questi adolescenti alle logiche adulte, tanto malavitose quanto legali, per una consustanziale impossibilità a riconoscersi in quelle che, innanzitutto, sono le false rappresentazioni di una società agli occhi della quale povertà e ignoranza non sono mali da curare con l’integrazione e l’accoglienza ma colpe da punire con l’isolamento e la correzione.

Lo spazio carcerario diventa, dunque, il luogo privilegiato della rappresentazione del rapporto tra i giovani protagonisti e la legge: restano fuori campo tutte quelle fasi intermedie (indagini, istruttoria, processo) del giudizio che, in questo modo, si palesa solo nel suo esito estremo e più eclatante e che impedisce di comprendere appieno i meccanismi della giustizia, soprattutto quelli delicatissimi della giustizia minorile. È significativo che, proprio in due dei film italiani poc’anzi citati – Sciuscià e Vito e gli altri – che mettono in scena anche le fasi processuali, venga sottolineata soprattutto la natura paternalistica, fittizia e ipocrita di un giudizio che non tiene conto dell’origine sociale, delle condizioni di vita, della personalità dei giovani protagonisti ma si concentra solo sugli aspetti tecnici e procedurali. Paradossalmente, a fronte di una simile rappresentazione delle aule giudiziarie (luoghi freddi e spogli che mettono in soggezione l’imputato) e di coloro che vi operano (giudici e avvocati ritratti impietosamente come i depositari di un potere assoluto sui comuni mortali, racchiuso in formule giuridiche imperscrutabili), il carcere diviene una dimensione carica di umanità e solidarietà, i cui codici morali, il cui linguaggio, la cui umanità (o disumanità) sono, agli occhi dei protagonisti, familiari, immediati, spontanei.

 Juìzo: davanti e dietro le sbarre

Esistono, ovviamente, delle eccezioni in un panorama che sembra voler negare l’esistenza di una figura così importante come quella del giudice, puntando esclusivamente agli aspetti più vistosi del fenomeno della giustizia minorile, ovvero la carcerazione nelle sue manifestazioni più eclatanti. Con Juìzo (2007) Maria Augusta Ramos si cala nella realtà della giustizia minorile brasiliana, osservandola da due distinti punti di vista che, allo stesso tempo, risultano complementari: da un lato le ricostruzioni delle udienze di una corte di giustizia minorile, volte a mostrare il lato più formale e allo stesso tempo “umano” della legge, dall’altro le immagini che ci mostrano la vita in un carcere minorile brasiliano in tutta la sua crudezza. Juìzo segue fedelmente tutte le tappe del procedimento (dall’arresto, alla condanna, fino all’incarcerazione o all’affido ai servizi sociali) contro alcuni minori giudicati presso la corte di giustizia minorile di Rio de Janeiro. Il film, tuttavia, non ha la pretesa di costituirsi in quanto brano di verità catturato direttamente dalla realtà, se non in parte. La legge brasiliana a tutela dei minori condannati o sottoposti a giudizio impone di non riprendere in volto i giovani protagonisti delle vicende documentate: la regista ha cercato dei ragazzi originari degli stessi contesti sociali di provenienza di quelli coinvolti nelle udienze, prevalentemente dalle favelas di Rio de Janeiro, vera e propria fucina di degrado, povertà e, purtroppo, di delinquenza minorile. Più che attori, dunque, possiamo considerare questi giovani dei doppi, dei “sostituti” o, purtroppo, dei possibili (se non probabili) “successori” dei loro alter ego reali, in un futuro neanche troppo anteriore. Tutti gli adulti che compaiono sullo schermo, invece, sono i reali protagonisti delle vicende: giudici, avvocati, poliziotti, agenti di custodia, assistenti sociali e persino i familiari dei ragazzi ascoltati nel corso delle udienze, spesso chiamati a garantire per i figli, interpretano se stessi, vengono ripresi nel momento del vero e proprio procedimento, quasi a voler sottolineare il loro ruolo (sulla “scena” e nella realtà) di individui adulti, tutti più o meno responsabili di quanto sta accadendo. Impossibile non ricordare, a questo punto, tra i documentari più significativi sulla carcerazione minorile, altri titoli come Nisida. Grandir en prison (Francia/Italia, 2007) di Lara Rastelli, Allein in Wier Wänden (Germania, 2007) di Alexandra Westmeier, Love letters from a children’s prison (Russia, 2004) di David Kinsella.

Attraverso il meccanismo escogitato per bypassare la legge che tutela l’immagine dei minori Maria Augusta Ramos mette in scena il “processo al processo”: tramite la ricostruzione e la ricomposizione delle varie fasi dei procedimenti ricalca il lavoro a cui assistiamo nel corso di un’udienza, analizzare i fatti, tentare di comprenderne le cause, individuare le responsabilità di ognuno degli “attori”. Tuttavia, c’è un passaggio di questo procedimento al quale il film non si adegua: è l’ultimo, quello del giudizio (e, non è un caso se il suo film si intitola proprio in questo modo), che la regista decide di non esprimere, lasciando nelle mani dello spettatore una serie di domande e, forse, una possibile risposta.

Alle immagini delle udienze si alternano le sequenze girate nel carcere minorile di Rio: qui si documenta il volto più duro della giustizia minorile, la parte repressiva e punitiva dell’iter giudiziario, quella che dà esecuzione alla pena. Allo spazio asettico e formalmente impeccabile dell’aula del tribunale, dominato dalla figura del giudice togato, vero e proprio deus ex machina del procedimento, si sostituiscono quelli angusti, male illuminati, spesso poco decorosi del carcere. Oltre ai giovani detenuti, i protagonisti qui sono gli agenti di custodia, voci autoritarie che impartiscono ordini e minacce ai reclusi, presenze oscure, sfuggenti, inquadrate spesso di scorcio, simboli di una giustizia che, dopo aver condannato a viso aperto, punisce e maltratta al chiuso delle quattro pareti del carcere. Juìzo, infatti è un documentario a più facce anche sul piano dello stile: da un lato le sequenze girate in tribunale, riprese frontalmente e in campo totale, caratterizzate da una freddezza dello sguardo che si mette al servizio dei fatti rappresentati e delle storie dei singoli, dall’altro quelle girate nel carcere connotate da una sofferta distanza (specie nelle riprese dei gruppi di ragazzi dei quali, ovviamente non è possibile riprendere i volti) o da una ricerca della verità attraverso l’avvicinamento ai volti, ai corpi e ai gesti dei giovani che interpretano i reclusi. A emergere è soprattutto la distanza tra questi due mondi (quello del giudizio e quello della pena) e, come abbiamo già notato in precedenza, il divario tra il linguaggio della giustizia e quello degli imputati, tra la necessità di utilizzare strumenti di giudizio non sempre flessibili e comprendere le motivazioni diversissime che portano a delinquere.

 Il giudice minorile: una voce fuori campo

Al di là di quest’esempio mirabile nel campo del documentario, nell’ambito della fiction si conferma un’immagine del giudice minorile che, oltre a risultare sgradita a causa del potere che incarna, si rivela come distante e astratta, chiusa in un mondo di cavilli ed eccezioni privi di un senso immediato per i comuni mortali. Un’immagine che non solo è lontana dalla cultura e dal linguaggio dei giovani protagonisti dei film, ma anche dalle strategie del racconto filmico, dunque di difficile trasposizione in un contesto fittizio che ha le sue proprie logiche narrative. Persino in un film come La guerra di Mario (2005) di Antonio Capuano, capace mettere in scena con innegabile efficacia le dinamiche e i meccanismi alla base di un provvedimento poco conosciuto e poco rappresentato come l’affido familiare, la figura della giudice minorile incaricata di occuparsi del caso del piccolo Mario non può che risultare, malgrado tutto, distante e autoritaria. Tolto alla sua madre naturale a causa dei maltrattamenti subiti, il piccolo protagonista viene affidato a una giovane docente di Storia dell’arte in vista di una possibile adozione: malgrado il provvedimento della giudice tolga la tutela del bambino al genitore naturale, la madre affidataria tenta comunque di tenere vivo il legame di Mario con la famiglia d’origine permettendogli di incontrare la vera madre in diverse occasioni. Tale atteggiamento di apertura della donna nei confronti di quell’ambiente familiare all’origine del maltrattamento viene stigmatizzato dalla giudice tutelare e dai membri del suo staff e sarà una delle cause del successivo provvedimento di revoca dell’affido, in vista dell’adozione da parte di una famiglia in grado di accogliere meglio il bambino.

Negli occhi dello spettatore resta, in ogni caso, l’immagine di una figura (quella del giudice) che dispone a suo insindacabile giudizio del futuro del minore, prima sottraendolo a un pessimo genitore (al quale, tuttavia, il bambino è legato da un rapporto affettivo indissolubile), poi affidandolo alla tutela di una figura materna fin troppo sollecita nel compensare le carenze di attenzioni subite dal bambino ma inadeguata da un punto di vista concreto a fargli da madre (e con la quale, tuttavia, il bambino instaura un rapporto affettivamente intenso), infine permettendone l’adozione da parte di una famiglia ritenuta “normale”. Ciò che sembra restare fuori dal campo delle competenze del giudice sono i sentimenti del minore, messi in secondo piano prima dal pur provvidenziale allontanamento dalla famiglia di origine, poi dalle valutazioni su una presunta conformità alla media della famiglia adottiva che, tuttavia, non sembra poter costituire una reale garanzia per la vita affettiva del bambino.

Volere o no, quanto emerge anche da questo film è una domanda (implicita ma presente) sulla legittimità del ruolo del giudice: è giusto che costui possa decidere sull’adeguatezza o meno delle relazioni interne a una famiglia, sull’idoneità di una coppia a essere genitori, fino al punto di poterne interrompere (a tempo determinato ma anche per sempre) i legami con i figli? Certo, in La guerra di Mario tra le maglie del racconto emergono anche altri personaggi – una psicologa, un’assistente sociale con il ruolo di giudici onorari – che affiancano e consigliano il giudice togato nel suo difficile ruolo, ma nelle maglie strette della narrazione cinematografica anche la funzione di queste figure risulta irrigidita e marginalizzata. Se è vero che la giustizia minorile non si occupa (come la giustizia ordinaria) soltanto dell’accertamento dei fatti così come sono avvenuti, ma si deve preoccupare di considerare una situazione dinamica (in sintonia con la giovane età dei soggetti tutelati), guardando al passato ma anche prefigurando un possibile futuro, il cinema riesce a restituire con molta difficoltà tale processo. Ciò a dispetto del suo essere eminentemente un’arte della narrazione la cui capacità di affabulazione, tuttavia, poggia fondamentalmente su una declinazione al presente degli eventi raccontati e molto meno su una proiezione dello spettatore in un futuro possibile, probabile ma sostanzialmente non-rappresentabile all’interno dell’hic et nunc della narrazione.

A ulteriore riprova dell’ipotesi fin qui formulata – l’espunzione della figura del giudice da un immaginario cinematografico, magari minimo – conviene citare un altro film italiano, molto significativo nella rappresentazione del rapporto tra i minori e la giustizia in Italia: in Jimmy della Collina (2006) di Enrico Pau, che segue il protagonista – Jimmy, diciassettenne inquieto che finisce in carcere per aver tentato una rapina a mano armata – fedelmente attraverso tutte le tappe del suo percorso giudiziario, l’unico passaggio lasciato fuori campo è proprio quello del processo e della sentenza. Il destino del protagonista risulta ancor più ineluttabile (la sentenza “cala dall’alto”, come se fosse emessa da un’entità ultraterrena) e la sua figura solitaria e orgogliosa emerge ulteriormente rafforzata grazie a tale elisione che, tuttavia, relega in un angolo oscuro del film una figura essenziale come quella del giudice. Jimmy della Collina, tuttavia, ha il merito di mostrare non solo il volto repressivo e restrittivo della giustizia, ma anche quello riabilitativo e rieducativo: la seconda parte del film, infatti è ambientata quasi interamente in una comunità per il recupero dei giovani messi alla prova dall’autorità giudiziaria, una scelta che risulta importante per due motivi. Da un lato Pau lega il suo film a una rappresentazione delle dinamiche della giustizia minorile più aderente alla realtà: soltanto una minima parte dei minori sottoposti giudizio subiscono provvedimenti di restrizione estremi come il carcere, mentre è significativo notare che la maggior parte di essi viene affidato a comunità di recupero attraverso provvedimenti di messa alla prova. Dall’altro, scegliendo di girare all’interno della vera comunità La collina fondata da don Ettore Cannavera in Sardegna e coinvolgendo nelle riprese anche alcuni dei veri ospiti del centro, ha dimostrato come tali strutture possano costituire realmente una dimensione protetta al cui interno i ragazzi possono continuare ad arricchire il proprio patrimonio di conoscenze attraverso l’esperienza diretta. Del resto, anche le sequenze della prigionia di Jimmy sono state girate “on location”, cioè nel vero carcere minorile di Quartucciu, nei pressi di Cagliari, a testimonianza della volontà dell’autore di calarsi completamente in una realtà per comprenderla appieno, ma anche della capacità da parte dell’amministrazione carceraria di aprirsi a sguardi e contributi esterni. «Siamo nel territorio della finzione», ha affermato Pau a proposito del film, «ma lo spazio non è stato ricostruito […] gli attori partecipavano osservando la realtà che avevano attorno come se vivessero una sorta di privilegio. C’era l’emozione dell’incontro con i ragazzi, il desiderio d’essere fedeli a quello che loro vivono, l’unicità di un’esperienza: solitamente il cinema entra negli ambienti e li cambia. In questo caso è successo il contrario. Sono i luoghi che hanno cambiato i cinematografari». Una situazione molto distante, per fortuna, da quella denunciata da Amelio nel suo La fine del gioco, un segno piccolo ma tangibile di un cambiamento importante.

 Il teatro delle voci di dentro

Quanto afferma Pau a proposito della sua esperienza cinematografica è ancor più vero nel caso di un documentario che testimoni un’attività svolta all’interno di un carcere minorile, in particolare se tale attività consiste nel mettere in scena il gioco delle identità negate dalla carcerazione attraverso il teatro. Falsa testimonianza di Piergiorgio Gay è il risultato di un lavoro sul campo pluriennale svolto presso l’Istituto penale minorile Fornelli di Bari dal Teatro Kismet OperA, una delle realtà di ricerca teatrale più interessanti del nostro Paese. Tale attività si struttura fin dal 1997 come un vero e proprio laboratorio permanente che trova la sua sede nella Sala prove, allestita in alcuni locali dello stesso Istituto Fornelli con il contributo degli ospiti della struttura e grazie alla collaborazione delle istituzioni (prime fra tutte lo stesso Istituto penale minorile di Bari, il Dipartimento di giustizia minorile e l’Ente teatrale italiano). Falsa testimonianza, una scrittura originale di Lello Tedeschi per la regia di Enzo Toma, è uno degli spettacoli-laboratorio nati tra le quattro mura del Fornelli, all’interno della Sala prove, uno spazio protetto ma di scambio, che si nutre proficuamente della contraddizione di essere un territorio aperto (anche verso altre associazioni teatrali che vogliano utilizzare la struttura per provare e mettere in scena i loro spettacoli coinvolgendo i giovani detenuti) all’interno di un luogo per definizione chiuso e isolato rispetto all’esterno. Falsa testimonianza non è il classico filmato promozionale finalizzato semplicemente a illustrare progetti e attività svolte e a dar voce a chi le ha ideate (il Kismet) e sostenute (il Ministero di grazia e giustizia, l’Ente teatrale italiano), dunque girato a uso e consumo delle istituzioni: fare questo significherebbe “passare sopra le teste” dei protagonisti o, peggio, utilizzarli strumentalmente a fini politici. Non è nemmeno teatro filmato, una semplice ripresa dello spettacolo dal vivo diretta a conservare la memoria di un evento, per quanto importante o insolito esso sia. E neanche una documentazione sul lavoro preparatorio della messa in scena, atta a testimoniare, magari a fini di studio, le tecniche e i procedimenti adottati dal regista per perfezionare la performance degli interpreti. Falsa testimonianza è un po’ tutte queste cose ma è soprattutto l’occasione per conoscere meglio i destinatari (non esclusivi) dell’attività della Sala prove, coloro che interpretano il testo teatrale, ovvero i ragazzi dell’ipm Fornelli. Il video di Gay si propone come dimensione transitoria tra l’esperienza della messinscena, i ragazzi coinvolti nella lavorazione e lo spettatore, con il preciso obiettivo di restituire ai protagonisti quell’identità spesso negata dalla carcerazione. Montando insieme le riprese delle prove, i brani tratti dello spettacolo e le testimonianze di alcuni dei ragazzi, mostrando per quasi tutta la sua durata la serietà del loro impegno, il duro lavoro sulla scena e gli straordinari risultati raggiunti e rivelando solo nel finale la loro identità di reclusi, il video è realmente una “falsa testimonianza”, questa volta, tuttavia, fondamentale per smontare facili stereotipi, luoghi comuni e inutili pregiudizi.

Difatti, è soltanto nel finale che i ragazzi rivelano la propria condizione di reclusi, dichiarando nell’ordine il proprio nome, il reato per il quale sono stati condannati (o, in molti casi, il fatto che sono in attesa di giudizio) e la data in cui terminerà la loro pena. Il gioco è fatto: il pre-giudizio è stato evitato proprio perché lo spettatore non è stato avvertito della reale condizione dei protagonisti e non ha potuto frapporre tra sé e la visione tutti quegli schermi di difesa che avrebbero fatto ricadere ciò che ha visto all’interno di questa o quella categoria. Se esiste una condizione che soffre il pregiudizio della società, è probabilmente quella di coloro che scontano la loro pena in carcere e, probabilmente, è ancor più ingiusto che a dover subire il preconcetto di uno sguardo superficiale sia proprio chi un’identità se la sta costruendo faticosamente, a cavallo tra adolescenza e maturità, vivendo la contraddizione dello scontro tra le regole del mondo adulto e una personalità in crescita, spesso trovandosi a dover scegliere tra legalità e crimine o, peggio ancora, trovandosi a non poter scegliere affatto.

La realtà del teatro in carcere si compone di tanti piccoli segnali che rivelano una realtà forse ancor meno conosciuta di quella cinematografica fin qui documentata ma probabilmente molto più importante, almeno dal punto di vista di coloro che sono ristretti tra le quattro mura del carcere. Una realtà quasi del tutto sconosciuta (almeno al grande pubblico), quella dei teatri di ricerca e sperimentazione, delle associazioni e degli enti che negli ultimi anni hanno lavorato alla produzione di spettacoli teatrali all’interno di una realtà difficile come quella degli istituti penali minorili. Non si tratta di banali attività ricreative, palliative per la routine e la noia di chi è costretto a passare il proprio tempo in cella (un tedio ancor più palpabile se a viverlo sono adolescenti o giovani) né, semplicemente, di uno spazio in cui dare sfogo alla libertà di espressione dei ragazzi. Il tempo del lavoro dedicato alla preparazione e alla produzione degli spettacoli è certamente per gli “ospiti” degli istituti penali minorili un tempo sottratto alla monotonia, ma la libertà, proprio come dovrebbe avvenire attraverso un rigoroso percorso carcerario, è un valore da conquistare con fatica e da ricercare attraverso il duro lavoro che comporta l’apprendimento di una pratica impegnativa come quella teatrale.

Oltre al Teatro Kismet OperA di Bari e alla sua attività svolta presso l’ipm Fornelli, vale la pena citare almeno altre tre importanti realtà teatrali che operano all’interno delle carceri e nelle cosiddette “aree penali esterne” (i luoghi di attuazione delle misure alternative al carcere come comunità e case famiglia) organizzando attività e spettacoli, ovviamente in collaborazione con il Ministero della giustizia - Dipartimento giustizia minorile. Si tratta di iniziative che raramente nascono a livello centrale (come nel caso del progetto nazionale I mestieri del teatro organizzato dall’Ente teatrale italiano e dal Ministero della giustizia) ma che hanno creato una sorta di “zona grigia” all’interno delle carceri minorili, luoghi per definizione chiusi ma che, proprio attraverso tali attività, si aprono verso l’esterno, accogliendo esperienze estranee alla reclusione e, al tempo stesso, offrendo l’occasione a chi sta fuori dalle quattro mura degli ipm di comprendere meglio quali siano i percorsi di entrata in tale realtà e, soprattutto, quelli di uscita. Il teatro, in quanto dimensione totalmente altra, simbolicamente condivisa e votata storicamente all’incontro tra esperienze diverse, si propone naturalmente in quanto spazio privilegiato di questa azione.

È proprio nella direzione del confronto tra le due dimensioni del carcere e dell’esterno che si muove il Teatro del Pratello di Bologna. Il Centro teatrale interculturale adolescenti e giustizia minorile con sede presso il Teatro stesso, è uno spazio dedicato all’adolescenza, a ragazze e ragazzi dai 15 ai 20 anni che desiderano cimentarsi in pratiche di teatro e artistiche (video e di scrittura) nell’incontro tra culture diverse, privilegiando occasioni di lavoro comune con minori sottoposti a procedimento penale, sperimentandosi in progetti di teatro civile. Le iniziative rivolte al mondo dei giovani reclusi sono essenzialmente tre: 1) il laboratorio sperimentale di pratiche teatrali presso l'ipm di Bologna, un progetto teatrale realizzato dal regista Paolo Billi, che cerca attraverso il comune lavoro tra ragazzi ospiti dell’ipm, ragazzi provenienti da comunità e studenti di istituti superiori, di dar vita a un teatro che possa fare da “ponte” tra il Pratello e la città, tra adolescenze dentro e fuori dal carcere; 2) i laboratori sperimentali per i ragazzi dell’area penale esterna nei quali giovani in carico ai servizi sociali e in uscita dal circuito penale, partecipano direttamente agli spettacoli come attori o come aiutotecnici; 3) l’area scuola e formazione che opera negli istituti superiori con il progetto Dialoghi – che ha coinvolto, nelle sue tre annualità, 9 istituti superiori di Bologna e provincia – e con il progetto Laboratorio sul pregiudizio, che ha coinvolto 3 istituti superiori. Tra le iniziative più interessanti promosse dal Teatro del Pratello c’è la produzione di materiale audiovisivo che documenta sia le attività interne all’area penale, sia quelle condotte con gli allievi degli istituti superiori e a questi ultimi rivolti con finalità di sensibilizzazione.

Più orientato a offrire concreti sbocchi lavorativi e ampi spazi di visibilità e sensibilizzazione nei confronti della realtà carceraria minorile è il Teatro Puntozero di Milano animato dal regista Beppe Scutellà. Il progetto realizza laboratori teatrali mirati al reinserimento sociale di soggetti in difficoltà e, in questo ambito, si segnalano i laboratori tenuti dall’associazione presso il carcere minorile Cesare Beccarla di Milano. Scenografie, costumi, trucchi e musiche vengono realizzati dai minori detenuti che hanno frequentato i laboratori teatrali all'interno dell'Istituto penale e nella sede di PuntozeroTeatro. Grazie al sostegno del Centro giustizia minorile per la Lombardia, del personale dell'Istituto penale Cesare Beccaria e del corpo di Polizia penitenziaria è stato possibile dare vita a una compagnia stabile, in cui i giovani detenuti si sono cimentati nella produzione di spettacoli tratti dai grandi classici del teatro come l’Antigone o il King Lear, recitando il duplice ruolo di tecnici e attori. «Prima valenza assoluta del progetto» – afferma Scutellà nella pagina di presentazione del progetto – «è l'aspetto relazionale che sfocia in una vera e propria collaborazione di squadra, in cui le competenze acquisite nei laboratori e gli sforzi dei singoli tendono alla realizzazione di un unico risultato finale che è al tempo stesso ludico e professionalizzante».

Officine Ouragan (Palermo) è un’associazione teatrale animata dal regista Claudio Collovà che organizza attività per i ragazzi dell’ipm Malspina e per i giovani a rischio dei quartieri degradati di Palermo. I laboratori di scenografia e scenotecnica, di sartoria teatrale, di multimedialità e immagine, di movimento e training fisico, musicali sono i canali attraverso cui si articola un progetto teso alla prevenzione sul campo, rivolta proprio a quei ragazzi che hanno maggiori possibilità di delinquere e finire tra le maglie della giustizia. Anche in questo caso il processo pedagogico e formativo è intimamente collegato al processo produttivo. I due piani – quello della formazione e quello della produzione di uno spettacolo teatrale – non sono separati e costituiscono entrambi parte essenziale dell’intero progetto.

 

 Fabrizio Colamartino

 

I film del percorso

  • Sciuscià, Vittorio De Sica, Italia, 1946*
  • La fine del gioco, Gianni Amelio, Italia, 1970
  • Pixote, la legge del più debole, Hector Babenco, Brasile, 1980*
  • Salaam Bombay!, Mira Nair, India, Francia, Gran Bretagna, 1988 *
  • Mery per sempre, Marco Risi, Italia, 1989*
  • Falsa testimonianza, Piergiorgio Gay, Italia, 1999
  • Vito e gli altri, Antonio Capuano, Italia, 1991
  • La guerra di Mario, Antonio Capuano, Italia, 2005
  • Jimmy della Collina, Enrico Pau, Italia, 2006
  • Juizo, Maria Augusta Ramos, Brasile, 2007

 [*] film contrassegnati con asterisco sono disponibili presso la Biblioteca Innocenty Library "Alfredo Carlo Moro"

 

  (Crediti foto)