Intervista a Piergiorgio Gay

16/07/2009 Tipo di risorsa Interviste Temi Minori detenuti

regista di Falsa testimonianza 

Milano, 27 novembre 2008 

(CAMeRA) Come sei venuto in contatto con l’attività della Sala prove del Kismet e come è nata la decisione di realizzare un film su Falsa testimonianza?

(Piergiorgio Gay) Molte volte la coincidenza detta le scelte più della volontà. È nato tutto da un convegno dove ci siamo trovati con alcuni esponenti del Teatro Kismet, un convegno su marginalità e racconto. In quell’occasione avevamo chiacchierato a lungo e ci eravamo ripromessi di fare qualche cosa insieme. Così, quando il Kismet ha attivato un laboratorio teatrale all’IPM di Bari, mi hanno chiamato e io ho accettato il loro invito molto volentieri.

(C) Quali sono state le principali difficoltà che hai dovuto affrontare dal punto di vista logistico per riuscire a effettuare le riprese?

(PG) Essendo un laboratorio teatrale già avviato e già concordato con la dirigenza del carcere non c’è stato alcun tipo di problema anche perché avevamo già previsto di realizzare delle riprese. Andavamo lì al mattino con tutto il materiale tecnico e poi ne uscivamo la sera. Direi che non ci sono stati particolari limiti o impedimenti di sorta. Quando abbiamo iniziato a lavorare ho solo fatto presente a quelli del Kismet che non valeva la pena registrare la piéce teatrale soltanto il giorno dello spettacolo al pubblico. Sono convinto che uno spettacolo teatrale sia bello se visto dal vivo, la sua registrazione invece è molto meno interessante. Lo scatto in più che volevo impartire al lavoro era quello di raccontare le prove e, all’interno delle prove, delineare i ritratti dei ragazzi che partecipavano al laboratorio e interpretavano i ruoli principali dello spettacolo.

(C) Quindi l’idea di montare insieme alle prove anche le interviste con i protagonisti dello spettacolo è nata nel momento dell’ideazione del lavoro?

(PG) Sì! Già in partenza, quando mi hanno chiamato, e ho accettato la proposta, sapevo che bisognava andare oltre la sola registrazione teatrale. L’idea da cui siamo partiti era quella di iniziare il film mostrando le prove, la recitazione dei ragazzi, in modo che lo spettatore in sala non sapesse esattamente chi fosse l’attore e pensasse di avere di fronte uno studente o un giovane attore alle prime armi. È soltanto andando avanti nel film che si inizia a capire che ogni attore ha un passato che non è proprio quello scolastico. Ritardare il momento in cui viene esplicitata la condizione detentiva dei protagonisti – anche se in un contesto già dichiarato come quello di Ora d’aria può sfuggire – serve ad allontanare alcuni stereotipi. Tanto quello buonista-pietista che commisera i ragazzi e li considera dei “poverini”, quanto quello opposto di pregiudizio totale. Con la soluzione scelta, lo spettatore si affeziona al personaggio e solo andando avanti scopre che ha un passato e un presente non proprio regolare. Non svelare la condizione dei ragazzi mi ha consentito, così, di raccontare delle persone senza incasellarle in griglie e pregiudizi già stabiliti dall’inizio.

(C) Uno degli aspetti più delicati della lavorazione è stato di certo il contatto, il confronto e la collaborazione con i ragazzi detenuti che hanno recitato nel film. Che relazione si è istituita con loro?

(PG) Ogni volta che realizzo un film parto sempre dalla convinzione che sono io quello che imparerà di più dall’esperienza e non viceversa. Ed, in effetti, succede sempre così. Ho imparato anche a comprendere che il miglior punto di contatto con gli altri è il proprio lavoro, la propria professionalità. Ad un certo punto del film si vede uno dei ragazzi che dà un giudizio del regista e dice una cosa come “è un tipo tutto rigido”, ovviamente il giudizio è condizionato dal fatto che siamo nella prima fase del processo di conoscenza reciproca. Però poi attraverso il lavoro nasce un dialogo comune e tu vieni rispettato per il lavoro che dai e che porti e solo così ti guadagni la fiducia da parte dei ragazzi necessaria affinché questi ultimi siano poi disponibili ad aprirsi e a dire delle cose molto franche, quegli squarci di vita personale che sono inframmezzati alle prove dello spettacolo.

(C) Da un certo punto di vista si può dire che il percorso di conoscenza e di superamento dei pregiudizi dello spettatore è lo stesso che è avvenuto tra te e i ragazzi nel rapporto quotidiano.

(PG) Sì, certo. All’inizio è normale che ci sia una sorta di pregiudizio o barriera iniziale, però da tutte e due le parti. Penso al mio imbarazzo nell’entrare in una realtà di questo genere e, da parte loro, penso alla convinzione di avere di fronte a sé una “persona delle istituzioni”.

(C) In che modo la messinscena teatrale e le testimonianze dei ragazzi si completano, non solo a livello tematico ma anche e soprattutto in quanto testi. Il primo estremamente costruito, l’altro decisamente più immediato?

(PG) È stato tutto un lavoro che abbiamo realizzato in post-produzione e montaggio. Ovviamente sapevo qual’era il testo teatrale, ma nessuno di noi durante le riprese poteva prevedere che cosa i ragazzi ci avrebbero raccontato di sé. Abbiamo creato questo rapporto e alla fine delle riprese, in base a quello che ci avevano rivelato i ragazzi, abbiamo trovato durante il montaggio quello che ci sembrava uno spazio naturale proprio per questi momenti di vita privata.

(C) Il testo teatrale da cui è nato il film era stato in qualche misura condiviso con i ragazzi o era stata una scrittura pensata a monte da Lello Tedeschi, il regista teatrale, e solo in un secondo momento adattato alle capacità dei ragazzi?

(PG) Questo secondo caso. Il testo era stato scritto precedentemente, poi nel laboratorio teatrale era stato un po’ adattato.

(C) La doppia “recitazione” – teatrale e cinematografica – così come la presenza di una videocamera potevano, quindi, essere fattori di confusione. È stato così?

(PG) Il mio lavoro non è stato di chiedere ai ragazzi un registro attoriale diverso. Le mie riprese delle prove sono quasi una sorta di documentario e non una nuova recitazione. Poi chiaramente per esigenze di riprese e cambi di angolazione della macchina dovevano ripetere talvolta quello che avevano appena fatto. Ma comunque, in linea di massima, ero una specie di occhio invisibile che registrava il loro lavoro quotidiano. Non c’è stata confusione di ruoli o difficoltà di sorta.

(C) Cos’hai appreso da questa esperienza cinematografica, non solo a livello umano ma anche e soprattutto per il tuo lavoro di regista, per la tua visione del cinema e del documentario?

(PG) La bellezza nel fare il regista è che ogni progetto che affronti rappresenta sempre un contatto con una umanità. È questa la cosa più bella. Ad esempio, nel caso di Falsa testimonianza, ho scoperto in alcuni dei ragazzi delle intelligenze incredibili che ti spingono a porti delle domande veramente dolorose sul fatto che, comunque, alcuni di loro sai che probabilmente diventeranno dei criminali, dei boss, sia per il tipo di contesto in cui sono inseriti e da cui è difficile uscire, sia soprattutto perché sono veramente intelligenti. La loro strada è quella lì. Le faccio un esempio: c’erano due o tre di quei ragazzi che avevano capito dopo due giorni tutti i trucchi che utilizzano gli attori quando sono in palcoscenico (il modo di recitare, di attivarsi quando è il proprio momento, ecc…), trucchi che a volte molti attori di professioni dopo diversi anni di lavoro non hanno ancora capito.

(C) ...sono quasi diventati degli attori professionisti...

(PG) ...in un certo modo si, anche se nessuno di loro ha mai pensato all’esperienza teatrale come ad una prospettiva per il futuro. La loro intelligenza però è indubbia e se ci si pensa non si può che rammaricarsi per come probabilmente la useranno.

 

a cura di Marco Dalla Gassa e Fabrizio Colamartino