Identità, cinema e new media. Un paesaggio in continuo cambiamento

Coinvolgere gli spettatori

Il cinema è stata una delle avventure della modernità più eccitanti del Novecento: sintesi di molteplici processi storici (culturali, tecnologici, economici e sociali) si è imposto come un’innovazione capace di parlare all’immaginario delle persone e di imporsi a ogni latitudine. Di più: il cinema è stato forse la prima vera e propria esperienza globale e di massa, collettiva e interclassista, capace di unire – metaforicamente – nella stessa sala cinematografica, persone di ogni estrazione sociale, area geografica, orientamento religioso, sessuale, politico, età anagrafica e così via, diventando un rito collettivo e assumendo il ruolo che aveva il mito nelle società premoderne. Essere fruitori di immagini in movimento non era poca cosa per uno spettatore del “secolo breve”: significava spaventarsi innanzi all’arrivo di un treno alla fine dell’Ottocento, innamorarsi dei primi divi del cinema come Rodolfo Valentino negli anni Venti, convincersi della bontà delle politiche dei propri Paesi o della malvagità dei nemici grazie alla propaganda degli anni Trenta, sognare i mondi fantastici dei musical o palpitare davanti ai melodrammi degli anni Quaranta, partecipare alle vicissitudini quotidiane dei personaggi del secondo dopoguerra, spaventarsi di fronte agli horror e ai film di fantascienza degli anni Cinquanta. Significava, soprattutto, identificarsi, riconoscersi, crescere nel confronto con un mondo verosimile, con eroi e modelli rispetto ai quali confrontare il proprio essere nel mondo.

Il meccanismo stesso del cinematografo, basato fin dalle origini su un sistema automatico di proiezione delle immagini all'interno di una sala buia e su strategie narrative tese a presentare il mondo sullo schermo come inaccessibile allo spettatore, come una “realtà” a se stante, indipendente da quella della sala ma la cui esistenza, tuttavia, dipendeva necessariamente dalla presenza stessa dello spettatore in sala, favoriva una fruizione delle immagini in movimento volta, pur con tutte le implicazioni psicoanalitiche a essa connesse (anzi, proprio in virtù di queste), all'identificazione con il sistema di proiezione delle immagini, con il regista e il suo punto di vista, con il personaggio e le sue imprese. Anche per queste ragioni, la sala cinematografica era, in definitiva, una sorta di cattedrale al cui interno si celebrava il culto laico delle immagini in movimento, con lo spettatore relegato in una condizione di «sottomotricità e sovrapercezione»[1], quella di chi può soltanto limitarsi a seguire la narrazione nel suo svolgersi univoco, lasciandosi coinvolgere il più possibile e, come già detto, identificandosi con il flusso delle immagini e con le figure che le popolano.

Difficile rintracciare nelle attuali fruizioni audiovisive quanto appena descritto: le modalità di costruzione del racconto filmico, ma soprattutto il processo di ri-locazione delle immagini in movimento all'interno di altri medium, iniziato alla fine degli anni Cinquanta con l’avvento della televisione, ma portato a maturazione a partire dall’entrata in campo del dvd e del digitale nel corso degli anni Novanta, ha determinato una lenta metamorfosi dell’esperienza filmica e dell’identità spettatoriale, sempre più migrante, fluida e poliedrica. Un'identità che è tanto più facile rintracciare negli spettatori più giovani, i cosiddetti “nativi digitali” cresciuti in una condizione di totale immersione nella galassia multimediale al cui interno le immagini sono diventate parte decisiva della quotidianità: non si esce più dalla realtà per entrare più o meno occasionalmente nella sala cinematografica, unico varco verso uno spazio uterino, sospeso tra realtà e sogno, capace di schiudere per un tempo limitato una dimensione altra, ma si vive immersi in un brodo di coltura multimediale (Laurent Jullier parla di «bagno di sensazioni»[2]), nel quale i confini tra realtà e rappresentazione sono sempre più labili.

La distanza tra la dimensione della sala e quella dello schermo precedentemente evocata a proposito dell'attitudine eminentemente narrativa del cinema (il film come momento a se stante, ermeticamente chiuso rispetto alla realtà se non per il ruolo che essa ha in quanto referente dell'immagine proiettata) si è ridotta sempre di più con il passare del tempo attraverso una serie di strategie tese ad accerchiare lo spettatore, a renderlo il più possibile partecipe, attraverso procedimenti di “straniamento intellettivo” prodotti da nuove forme del racconto e, allo stesso tempo, di coinvolgimento sensoriale grazie a un massiccio impiego delle nuove tecnologie.

Partendo da un primo livello – quello delle forme della narrazione la cui natura è inevitabilmente mutata nel tempo – è possibile notare come il film, sempre più di frequente, apra dei varchi verso lo spettatore attraverso forme narrative ipertrofiche che non si preoccupano più di presentare la situazione sullo schermo come una “realtà a sé”, separata dal mondo della sala, ma piuttosto come una dimensione metanarrativa da esplorare in più direzioni. Solo alcuni esempi: il film ritorna più volte sullo stesso segmento di storia e arricchendolo di particolari passati inosservati (si pensi a film “di culto” di autori pur diversissimi come Strade perdute e Mulholland Drive di David Lynch, Il seme della follia di John Carpenter, Le iene di Quentin Tarantino, Se mi lasci ti cancello di Michel Gondry, Elephant di Gus Van Sant), apre prospettive inattese, inizialmente estranee alla linea principale del racconto (Pulp Fiction di Quentin Tarantino, Memento di Christopher Nolan, Le avventure acquatiche di Steve Zissou, Il treno per Darjieling di Wes Anderson) fa ricorso a escamotage come spacciare il film per un documentario, un home-movie, comunque per qualcosa non concepito espressamente per il cinema, qualcosa che il cinema, per così dire, recupera e ricicla (The Blair Witch Project di Daniel Myrick e Eduardo Sanchez, Cloverfield di Matt Reeves, District 9 di Neil Blokamp).

Il film, dunque, gioca sulle “scollature” della narrazione, non pretende più di presentare la messa in scena come qualcosa di concluso in se stesso e autosufficiente, ma ammicca allo spettatore e fa appello alle competenze che implica il suo ruolo, riveduto e corretto all'insegna delle tendenze postmoderne. Inoltre, sempre più spesso, anche all'interno di produzioni che si rivolgono in maniera privilegiata a bambini e adolescenti, sono presenti citazioni prese di peso dall'immaginario cinematografico, elementi che infrangono quell'implicita proibizione a “parlare di cinema all'interno di un film” e che, in qualche modo, “rompono l'incantesimo” ricordando allo spettatore che si trova al cinema, che quelle immagini sullo schermo sono lì apposta per lui, costruite a suo uso e consumo. È il caso di film d'animazione come Shrek, Shrek 2 e Shrek terzo che uniscono al prodigio di un'animazione interamente digitale un vortice di citazioni dissacranti dei cartoons Disney ispirati alle fiabe classiche, come Mostri contro alieni, vero e proprio vortice di citazioni parodistiche di B-movie di culto tra catastrofico, fantascienza e horror (moltissime delle quali incomprensibili anche al pubblico adulto non appassionato al genere), come Wall-e che per tutta la prima metà del film declina in uno scenario futuribile e catastrofico le avventure dal sapore decisamente chapliniano di un piccolo robot addetto alla compattazione dei rifiuti. Il tentativo è quello di coinvolgere il (giovane) pubblico in un vero e proprio gioco che esige consapevolezza del proprio ruolo, un'attenzione ai meccanismi di costruzione del racconto (sempre più complessi), una forte complicità con il narratore.

Se i film diventano sempre più ironici e autoironici, una serie di categorie vengono rimesse in discussione anche sul piano del senso da attribuire a determinate narrazioni: non si tratta soltanto della proposizione di antieroi o di eroi negativi tout-court (si pensi, soltanto per fare un esempio, ai personaggi dei film di Tarantino), figure che non possono ovviamente fungere da modelli positivi, ma piuttosto dell'offerta di narrazioni capaci di mettere in discussione continuamente il significato del racconto, di riportare lo spettatore al punto di partenza o verso un indefinito altrove. Si pensi, a tal proposito, a un film seminale come Donnie Darko che, non a caso, mette al centro della narrazione un adolescente alle prese con la difficile definizione della propria identità rispetto al mondo. È ciò che Frederic Jameson definisce come la “logica culturale del tardo capitalismo”, quel declino della storicità e della temporalità che si abbatte sulle narrazioni contemporanee, spesso schiacciate su un presente privo di profondità e che trova nelle categorie spaziali (abbiamo non per niente parlato poco innanzi di “punto di partenza” e di “altrove”) l'unico appiglio per una qualche superstite forma di analisi[3].

Un "cinema" da abitare
L'opzione spaziale, dunque, è quella che sembra dominare l'immaginario contemporaneo anche quando si parla (e non a caso) di ri-locazione delle immagini: quell’innocenza, quella capacità di immersione, quella fedeltà al grande schermo così ben idealizzata in Nuovo cinema paradiso di Giuseppe Tornatore è andata via via scemando e lo spettatore si è trovato a convivere e ad adeguarsi a un contesto iconico radicalmente mutato. Le immagini sono, infatti, diventate parte decisiva della quotidianità, del tempo lavorativo o dello studio, oltre che di quello libero, occupando contesti, situazioni e, soprattutto, luoghi diversi, muovendosi su più canali di diffusione e più supporti, proponendosi in un numero teoricamente infinito di volte.

Nella fruizione in sala ciò che – ancora oggi – conta è il fattore tempo: si può soltanto restare seduti e guardare il film nel suo svolgersi cronologico, condividendo con altri spettatori un evento spettacolare nel quale l'hic et nunc conta certamente meno che per una performance teatrale ma comunque continua a giocare un certo ruolo (assistere a un film all'interno della programmazione di un festival è certamente diverso che guardarlo in un cinema di prima visione, piuttosto che in un cinema d'essai o in un'arena estiva). Nella logica dei new media, invece, è la dominante spaziale a governare la fruizione dello spettatore. Prendiamo il dvd (solo per citare quello che potremmo definire il “grado zero” della digitalizzazione delle immagini) che, a partire dal menu interattivo fino a giungere alle possibilità di fruizione del film (muoversi non solo avanti e indietro rispetto alla linea del racconto, funzione già presente nel vhs, ma anche e soprattutto saltare interi capitoli per andare dritti al punto desiderato) si basa sulla possibilità di spostarsi virtualmente all'interno di un prodotto che si avvicina sempre più a quell'idea di film in quanto testo che ha attraversato gli studi sul cinema nel secondo Novecento. È infatti un maggiore gradiente di testualità quella offerta dal dvd[4], con i suoi extra, i commenti degli autori, le interviste ai protagonisti, la possibilità di fruire del film in maniera personalizzata, magari usufruendo del sonoro originale filologicamente più corretto, a fronte della perdita di quell'immediatezza (estetica e percettiva) che caratterizza la fruizione in sala.

Non più costretto entro i limiti della fruizione in sala, lo spettatore non sottostà più alla dittatura della linea narrativa (della sceneggiatura, della storia raccontata) ma entra in un campo da esplorare in più direzioni, secondo la modalità che preferisce, concentrando l'attenzione ora su questo ora su quell'elemento particolare. Di più: il dvd sembra addirittura mettere in discussione l'idea di film in quanto testo concluso, dato che non è difficile trovare tra i vari contenuti speciali i finali alternativi a quello scelto per il montaggio definitivo, oppure sequenze eliminate perché meno funzionali alla progressione del racconto ma spesso rivelatrici di particolari utili per lo spettatore a riorganizzare il senso del film. L'attitudine contemplativa dello spettatore tradizionale sembra venire definitivamente meno, avvicinandosi sempre più alle prerogative del fruitore dell'arte interattiva che ha la possibilità (anzi, il “dovere”) di intervenire sull'opera, entrando in maniera attiva nella costruzione dell'esperienza artistica e determinando non più soltanto il senso ma la stessa forma significante dell'opera.

Vivere le emozioni in comunità
Se è pur vero che lo spettatore, specie quello adolescente, si sente sempre meno partecipe di una comunità che si ritrova riunita per celebrare il miracolo – sempre uguale e sempre diverso – della visione cinematografica, che con crescente difficoltà (ma questo anche a causa dell'incapacità del cinema di farsi realmente specchio di una società che, ricorrendo a un'espressione coniata da Zygmut Bauman, possiamo definire sempre più “liquida”) si riconosce nelle vicende narrate dal film, la sinergia tra i vari media e soprattutto lo sviluppo del web, gli consentono di far parte di un'altra comunità di spettatori estremamente competenti con i quali condividere impressioni, riflessioni, pareri su ciò che ha visto. Guardare un film (o un serie tv, un videoclip, eccetera) è, in linea con l'attitudine metadiscorsiva del panorama postmoderno, sempre più raccontarlo e raccontarselo. Si mettono in gioco componenti emozionali e passionali, connesse a una buona dose di narcisismo: vedere un film diventa mettersi nelle condizioni di stupirsi e di commuoversi ma non in un contesto ritualizzato, diffuso e condiviso, come ancora capitava agli spettatori del secolo scorso, bensì all'interno di una dimensione più personale, autoreferenziale, all'interno di un ristretto circolo di adepti, in una chiave elitaria, connotata soprattutto dalla tendenza a fare proprio il film attraverso un'interiorizzazione delle sue forme (molto meno dei contenuti) certamente superiore rispetto al passato. L'attitudine di questo “nuovo spettatore” è essenzialmente tattile o, per meglio dire, prensile: del resto, a fronte di immagini sempre più migranti, capaci di passare dal cinema al video domestico, dal computer all’ipod, dal telefonino agli schermi delle sale d’aspetto, dalle gallerie d’arte ai mezzi di trasporto, l'unica alternativa possibile è tentare di afferrarle o, meglio ancora, di performarle[5].

Il mutamento di quadro storico, tecnologico, culturale e antropologico che stiamo tentando di delimitare è essenzialmente quello relativo al passaggio dai mass media ai personal media e ha determinato, come anticipato, la diffusione di modalità molto diverse di spettatorialità, diversi gradi di partecipazione emotiva all’immagine, diverse possibilità di manipolazioni delle stesse, facendo emergere due bisogni sociali intrecciati: un bisogno di espressività e un bisogno di relazione. I nativi digitali fanno dipendere la propria identità dal modo in cui riescono a metterla in scena autonomamente e all’interno di reti sociali ampie, diffuse, crossmediali. Per questo personalizzano l’esperienza filmica, arrivando in taluni casi a manipolare, gestire e iconicizzare la propria presenza nel paesaggio mediale. È qui che si radica l’attività espressiva: lo spettatore, soprattutto quello più giovane, non assiste più semplicemente a uno spettacolo ma inizia a intervenire direttamente sulle immagini, dato che (proprio come abbiamo visto nel caso del dvd) le potenzialità della fruizione digitale risiedono nella possibilità di lavorare sul testo filmico. Si pensi soltanto ai programmi per il file-sharing usati per scambiare velocemente file digitali, innanzitutto brani musicali e filmati, che trasformano ogni singolo utente in una sorta di editore capace di mettere a disposizione di altri utenti i "propri" materiali, magari dopo averli sottoposti a una qualche forma di manipolazione più o meno pesante, più o meno legittima, più o meno intelligente, oppure aggiungendo commenti in merito che trovano immediata risposta (magari attraverso altri video “caricati” per l'occasione) da parte della community di utenti. Le risonorizzazioni dei film, i rimontaggi, le playlist di You Tube o di MySpace di propri e/o altrui filmati, l’autonarrazione (talvolta pericolosa, altre volte appassionante) attraverso i videofonini sono solo alcuni esempi di un'attitudine sempre più diffusa specie tra adolescenti e giovani a performare l'immagine sia mettendo in scena i propri vissuti, sia facendo proprie le immagini cinematografiche o televisive attraverso una manipolazione tesa a personalizzarle attraverso una più o meno marcata manipolazione.

 Universi videoludici e il nuovo statuto dei personaggi
Tutto ciò è il risultato di quella che è stata da più parti definita come “convergenza mediale”, un fenomeno che oltre a riguardare le tecnologie, i supporti, l'hardware (che per ora tendono a confluire in contenitori ibridi, multifunzione come le videostation o le consolle di ultima generazione), interessa anche i contenuti, ovvero storie, personaggi, ambientazioni, atmosfere che migrano da un media all'altro, da un supporto all'altro. Si va dagli esempi più banali, come i gadget che, a ridosso dell'uscita di ogni film d'animazione prodotto dalle majors (Disney e Pixar), invadono gli scaffali dei negozi di giocattoli e non solo, a quelli più interessanti come l'interscambio ormai incessante e reciproco tra film e videogioco.

L'esempio cinematografico più eclatante di permeabilità tra le varie dimensioni mediali lo si deve a uno dei padri del nuovo modo di guardare all'entertainment in quanto industria globale, Steven Spielberg, che nel suo kolossal Jurassic Park metteva in bocca a uno dei protagonisti (lo scienziato-miliardario un po' folle, inventore di un parco a tema con dei veri dinosauri) la frase fatidica “Le nostre attrazioni faranno impazzire i bambini”. Ciò che fece letteralmente impazzire i bambini di tutto il mondo all’epoca dell’uscita del film nelle sale non fu tanto lo spettacolo cinematografico in sé (strabiliante in quanto a effetti speciali), quanto ciò che gli si muoveva attorno: il merchandising collegato all’evento cinematografico (pupazzi a forma di dinosauro, magliette e gadget di ogni tipo, i videogiochi ispirati al film) ha lasciato un segno più profondo nell’immaginario collettivo di quanto non abbia fatto la stessa pellicola. Nulla di strano, dunque, se la promozione pubblicitaria di quanto stava per essere immesso sul mercato fosse già contenuta nelle sequenze del film ambientate all'interno del centro visitatori del parco, dove sugli scaffali facevano bella mostra di sé i medesimi oggetti che gli spettatori, una volta usciti dalla sala, si sarebbero precipitati ad acquistare.

La dinamica cinema-videogiochi è da circa un paio di decenni al centro di un interessante dibattito scientifico teso a stabilire quali siano gli elementi del linguaggio cinematografico mutuati dai game per la parte relativa alle scelte visive sulla scena del gioco (in alcuni videogiochi è possibile scegliere se giocare in soggettiva pura, in semisoggettiva, in oggettiva classica e così via) o per riferimenti più o meno marcati a forme della narrazione tipicamente cinematografiche (si pensi al debito che un videogame come Tomb Raider ha nei confronti della struttura narrativa di I predatori dell'Arca perduta, non a caso un film di Steven Spielberg) e, di contro, come le strutture dei videogiochi (basati sulla logica del superamento di un livello per accedere al successivo e sulla necessità di scelta da parte del giocatore tra più opzioni che implicano scenari di volta in volta diversi) e il ritmo dell'azione abbiano influito sulle forme della narrazione cinematografica.

È evidente come, in uno scenario dominato soprattutto da forti interessi economici, sia perfino superfluo sottolineare come le due dimensioni siano intrecciate e permeabili, anche se finora la bilancia pende fortemente dalla parte dei game: riprendendo l'esempio di Tomb Raider è evidente come la trasposizione in film delle avventure di Lara Croft abbia offerto ben poco al cinema sia in termini di forme della narrazione sia quanto a contenuti. Ciò che è interessante notare è come tale osmosi continua produca, ancora una volta, un pubblico che si muove a suo agio da un media all'altro, senza soluzione di continuità e uno spettatore in grado di relativizzare, attraverso l'interattività del videogame (sorta di protesi che amplifica virtualmente le sue capacità), ciò che al cinema appariva irraggiungibile e ineguagliabile. Uno spettatore al quale, proprio come nel caso delle narrazioni postmoderne (o metanarrazioni che dir si voglia), viene data una possibilità in più: quella di partecipare direttamente alla costruzione della storia, di determinarne (sia pure, è ovvio, all'interno di un sentiero già tracciato) le svolte narrative (attraverso le scelte compiute nel corso del gioco), di mettersi letteralmente nei panni dell'eroe facendo in modo che sopravviva il più a lungo possibile, dunque proteggendolo dai pericoli, sentendosi persino un po' in colpa quando per un errore (da attribuire unicamente, com'è ovvio, al giocatore) egli dovesse perdere la vita, sia pure soltanto provvisoriamente. Ecco il motivo del fallimento di quasi tutte le trasposizioni cinematografiche dei game: se il passaggio da cinema a videogioco costituisce un “salire di grado” quanto a possibilità di interagire con una determinata dimensione narrativa (dall'assistere impotenti si passa all'azione vera e propria), il movimento inverso implica una riduzione delle stesse possibilità e, di conseguenza, una frustrazione delle aspettative dello spettatore.

Sempre ammesso che si possa parlare ancora di competizione tra due media che collaborano alla costruzione di un immaginario iconico così diffuso e pervasivo come quello che si è tentato di descrivere, qual è la risposta del cinema nei confronti del videogioco, ovvero con quali mezzi il cinema tenta di adeguarsi a questa nuova attitudine partecipativa dello spettatore? Come abbiamo visto il travaso dei personaggi e degli ambienti tratti dai videogiochi all'interno dei film non funziona, mentre un nuovo filone, quello dei film tratti da (o ispirati a) celebri graphic novel (300, Sin City, V per vendetta, Spider Man), sembra spingere il cinema verso un livello di astrazione grafica che lo allontana sempre di più dalle istanze di un realismo che ormai appare insufficiente per coinvolgere il pubblico, specialmente quello adolescenziale. Come s'è visto, una maggior efficacia sembra possedere la costruzione di metanarrazioni che spingono lo spettatore verso una sia pur elementare forma di analisi del testo filmico e lo mettono su un livello di elaborazione dell'esperienza cinematografica molto più consapevole e smaliziata che in passato.

Con l'entrata in campo del 3D sembrerebbe dispiegarsi una nuova possibilità per il film, ovvero quella di un accerchiamento sensoriale dello spettatore che, invece di entrare nel videogame vede il film venirgli incontro, presentificarsi con un gradiente di realtà molto maggiore che in passato. Se il videogioco permette allo spettatore/giocatore di entrare in uno “spazio virtuale” performandolo, nel cinema in 3D è lo spazio dello schermo a espandersi virtualmente verso la sala, in un incontro con lo spettatore che tende a coinvolgerlo in un'esperienza “totale” la cui matrice è possibile rintracciare più che nei tentativi di cinema in 3D degli anni Sessanta, nell'evoluzione degli effetti sonori presenti nelle sale (Dolby Surround, Thx, ecc.) avvenuti a cavallo tra anni Ottanta e Novanta. Un'innovazione, quella del 3D che può fungere da cartina di tornasole della situazione multimediale, almeno per quanto riguarda il rapporto che si instaura tra spettatore e consumo delle nuove tecnologie. Un consumo che si basa sul mito dell'innovazione tecnologica che, a sua volta, è alla base dell'evoluzione del cinema, con l'integrazione progressiva dell'immagine cinematografica di “grado zero” (le prime riprese di pochissimi minuti con camera fissa dei Lumiére) con sempre nuovi elementi caratterizzanti (i movimenti di macchina, il sonoro, il colore, lo schermo panoramico). Se il 3D aumenta la sensazione di presenza del film nei confronti dello spettatore, il processo si inscrive in un contesto più generale che vede ribaltarsi l'approccio all'immagine da uno statuto “oculocentrico” in un'altro decisamente tattile, sensoriale nell'accezione più originaria del termine. Un “sentire” (toccare, spostare, interagire) al quale i “nativi digitali” sono molto più preparati di quanto non si immagini: si pensi all'uso quotidiano da parte degli adolescenti (e non) di interfacce touch-screen (nei telefoni cellulari e non solo), di dispositivi come le più recenti consolle per giochi interattivi che permettono al giocatore di simulare movimenti e azioni attraverso appositi apparati osservandone i risultati sullo schermo del televisore domestico[6].

Conclusioni
In conclusione, che identità dare al nuovo spettatore prodotto dai new media? Proprio il cinema può venirci in aiuto attraverso un personaggio di adolescente protagonista di un film che tratta del rapporto ambiguo tra schermo e realtà, tra rappresentazione e percezione. Il tredicenne Danny, protagonista dell'anomalo film d'azione Last Action Hero di John McTiernan potrebbe essere il prototipo dello spettatore adolescente del quale abbiamo tentato di tracciare il profilo. Grande appassionato di cinema, grazie alla complicità di un biglietto magico donatogli dal proiezionista della sala nella quale passa intere giornate, Danny riesce ad attraversare la barriera tra finzione e realtà (tra lo schermo e la sala) e a materializzarsi in una delle sequenze dell'ultimo film del suo eroe preferito, il muscoloso detective Jack Slater (interpretato da un autoironico Arnold Schvarzenegger). Danny, sfegatato fan di Slater, conosce a menadito le avventure del poliziotto e ciò gli permette di poter affiancare nel film il suo eroe che, a sua volta, trova nel ragazzino una sorta di depositario della memoria storica delle proprie gesta. Il biglietto, tuttavia, non consente solo agli abitanti del mondo reale di passare nei film, ma anche ai personaggi del cinema di fare il percorso inverso. Così, quando Slater passa nel mondo reale per inseguire un criminale che è riuscito a sottrarre il biglietto a Danny, quest'ultimo dovrà aiutarlo a orientarsi in un universo nel quale le esperienze sono molto più banali ma anche più pericolose che in un film.

Last Action Hero è un action-movie ironico e autoriflessivo, capace di proporsi come momento di rispecchiamento della passione per il cinema di un adolescente particolare come Danny, il protagonista, ma anche in quanto riflessione più generale sul rapporto tra il cinema e gli altri media contemporanei. La struttura del racconto si basa su quella che è possibile definire una mise en abyme, una narrazione stratificata, a più livelli, ognuno dei quali contiene il successivo: in questo modo la dimensione della sala reale dove si trova lo spettatore è riprodotta da quella della finzione di primo grado nella quale si trova Danny che, a sua volta, assiste a una finzione di secondo grado (il film di cui è protagonista Jack Slater) dai toni iperbolici, decisamente poco credibili se ricondotti a un livello di realtà “normale”, ma pienamente funzionali tenendo conto che si tratta di una finzione all'interno di un'altra finzione (per di più segnata da una forte ironia e da elementi magico/fantastici). Una struttura a scatole cinesi che allude a un modo di concepire il cinema in quanto strumento capace di coinvolgere lo spettatore diversamente da ciò che avveniva in passato: catapultato nella finzione scenica più in virtù della sua passione per il cinema che grazie al magico biglietto, Danny entra nel mondo della fiction come in un iper realistico spettacolo in 3D. Di più: Danny non è soltanto uno spettatore “immerso nel film”, sospeso in una dimensione molto più reale di quella che solitamente appare sullo schermo, ma si ritaglia un ruolo da protagonista accanto al suo eroe, come in un videogame nel quale il giocatore possa non solo vedere e agire attraverso il personaggio ma anche confrontarsi con lui su quali siano le scelte più giuste da compiere.

Tuttavia, Last Action Hero mostra – ben al di là del suo valore intrinseco di opera cinematografica – le sue qualità paradigmatiche non solo in relazione al ruolo dello spettatore in quanto istanza percettiva di immagini più o meno realistiche, ma anche e soprattutto in quanto soggetto in grado di attivare delle competenze specifiche e intervenire sul testo modificandolo. Danny riesce ad affiancare Slater non solo in virtù di un coinvolgimento sensoriale ed emozionale ma anche facendo appello alle sue facoltà intellettive e alla sua cultura. È infatti sciorinando il proprio bagaglio di citazioni tratte dai film precedenti dell'eroe e la sua competenza specifica di cinefilo accanito, che Danny conquista la fiducia di Slater: ciò che il film mobilita nel ragazzino, dopo un primo comprensibile momento di smarrimento e di “euforia percettiva”, è la capacità di calarsi al suo interno cercando di comprenderne e di prevederne il senso, facendo leva sulla propria esperienza di spettatore capace di collegare momenti cronologicamente molto distanti della narrazione (facendo riferimento in continuazione agli episodi precedenti delle avventure di Slater) e, in taluni casi, colmando con l'immaginazione una serie di ellissi del racconto, di sottintesi della narrazione, ovvero decostruendo il testo filmico in virtù di esigenze diverse da quelle per cui sembrava concepito. Il film, in questo caso, mostra la sua vera natura, quella di apparato discontinuo di segni retto da un patto implicito con lo spettatore che accetta di completare con la propria intelligenza il racconto così strutturato: la comparsa del ragazzino all'interno della finzione, infatti, impone all'andamento della storia dei cambiamenti che mettono in evidenza la natura fittizia del film. Ciò che a Danny appariva del tutto plausibile finché ricopriva il ruolo di comune spettatore, bloccato in quanto semplice istanza percipiente sulla poltroncina del cinema, ora che è a tu per tu con la finzione appare assurdo: dalla velocità con cui Slater si riprende dopo un corpo a corpo con un nemico all'avvenenza di tutti i personaggi femminili presenti nel film, molti sono gli elementi che Danny porta all'attenzione del proprio eroe per convincerlo che esiste un'altra realtà al di là della dimensione dorata della finzione. Il cambio di statuto del giovane spettatore implica, quindi, un minor grado di coinvolgimento emotivo a vantaggio di una maggiore consapevolezza nel distinguere la realtà dalla rappresentazione. Danny, inoltre, dimostra non solo di padroneggiare i film di Slater, ma anche di possedere una cultura cinematografica a tutto tondo, proprio come si addice a un “cinefilo onnivoro”, profilo che si attaglia bene a una generazione di spettatori abituati a incrociare generi e autori anche molto lontani senza falsi timori reverenziali: il personaggio della Morte, che si materializza al termine della pellicola suggerendo a Slater, ferito gravemente, la possibilità di salvarsi rientrando nella dimensione del film di cui è protagonista (dove anche la ferita più grave è poco più di un graffio), proviene da Il settimo sigillo di Ingmar Bergman, il film proiettato nel piccolo cinema che funge da varco spazio-temporale tra le due dimensioni. Una capacità di ibridazione tra generi e livelli differenti che emerge anche quando vediamo Danny immaginare, nel corso di una lezione scolastica sull'“Amleto” di Shakespeare il suo idolo nei panni del principe danese, con risultati, ovviamente, tanto improbabili quanto divertenti.

Un adolescente capace di andare e tornare da una dimensione all'altra, di provare ancora emozioni ma senza lasciarsene travolgere, capace di credere ancora romanticamente nelle gesta del proprio eroe cinematografico preferito ma anche di metterne in dubbio lo statuto in un dialogo alla pari, un ragazzino abbastanza sveglio da riuscire ad analizzare l'universo della finzione attraverso il filtro della realtà e di agire nel mondo reale anche grazie a ciò che ha appreso all'interno della finzione. È un ritratto, quello del Danny protagonista di Last Action Hero, che ben coincide con quello dei giovani “spett-attori” del XXI secolo sempre più “accerchiati” dalle immagini in movimento ma anche sempre più capaci di guardare a esse con distacco, frapponendo la “giusta distanza” fra se stessi e il film, sempre più consapevoli e smaliziati rispetto alle dinamiche interne al sistema dei media, come dimostra la risposta di Danny a Slater, preoccupato per la sua incolumità: «Impossibile, non puoi morire. Almeno fino a quando gli incassi dei tuoi film non caleranno!». Anche quando, al termine del film, Danny è tentato di restare nello spazio al di là dello schermo (nel film) per continuare a seguire le gesta del proprio eroe preferito, Slater lo ammonisce affermando che i rispettivi ruoli vanno ristabiliti perché se gli spettatori hanno bisogno di uno spazio immaginario nel quale credere, anche l'universo fittizio del film ha bisogno di spettatori capaci di sognare, ma a occhi ben aperti.

Contrariamente a quanto affermato da voci anche autorevoli (che tornano puntualmente a levarsi ogni volta che un nuovo media si affaccia sulla scena della comunicazione), l'immersione nell'universo videoludico più che stordire e distrarre le nuove generazioni sembrerebbe favorire quella comprensione critica della realtà della quale i new media sono soltanto lo specchio (magari deformante) e non lo schermo, incominciando dal riciclaggio di tutto ciò che è depositato nel nostro immaginario in un mix di citazioni (più o meno colte) all'interno dei nuovi “contenitori” approntati dal mercato dell'entertainment. Quale sia il ruolo – magari sempre più defilato ma non per questo meno importante – giocato dal cinema in questo panorama lo ha sintetizzato forse meglio di chiunque altro Paul Virilio alcuni anni fa in una sua intervista ai Cahiers du cinéma affermando che: «Se, come dice Cézanne, il disegno è la virtù della pittura, allora il cinema sarà la virtù dei media e, a maggior ragione, della multimedialità»[7].

 Marco Dalla Gassa e Fabrizio Colamartino

 

[Cfr. I nuovi media, «Rassegna bibliografica infanzia e adolescenza», Vol. 9, n. 4, Ottobre-Dicembre 2009, pp. 25-36]

 

 I film del percorso

  • 300, Zack Snyder, USA, 2006
  • Cloverfield, Matt Reeves, USA, 2008
  • District 9, Neil Blokamp, USA / Nuova Zelanda, 2009
  • Donnie Darko, Richard Kelly, USA, 2001*
  • Elephant, Gus Van Sant, USA, 2003*
  • I predatori dell'Arca perduta, Steven Spielberg, USA, 1981
  • Il seme della follia, John Carpenter, USA 1994
  • Il treno per Darjieling, Wes Anderson, USA, 2007
  • Jurassic Park, Steven Spielberg, USA, 1993*
  • Lara Croft - Tomb Raider, Simon West, USA, 2001
  • Last Action Hero – L’ultimo grande eroe, John McTiernan, USA, 1993*
  • Le avventure acquatiche di Steve Zissou, Wes Anderson, USA, 2004
  • Le iene, Quentin Tarantino, USA, 1992
  • Memento, Christopher Nolan, USA, 2000
  • Mostri contro alieni, Rob Letterman, Conrad Vernon, USA, 2009
  • Mulholland Drive di David Lynch, Francia, USA, 2001
  • Nuovo cinema paradiso, Giuseppe Tornatore, Italia/Francia,1988*
  • Pulp Fiction, Quentin Tarantino, U USA, 1994
  • Se mi lasci ti cancello, Michel Gondry, USA, 2004
  • Shrek 2, Andrew Adamson, Kelly Asbury, Conrad Vernon, USA, 2004
  • Shrek terzo, Raman Hui, Chris Miller, USA, 2007
  • Shrek, Andrew Adamson, Vicky Jenson, USA, 2001
  • Sin City, Robert Rodriguez, Frank Miller, Quentin Tarantino, USA, 2005
  • Spider Man, Sam Raimi, USA, 2002*
  • Strade perdute, David Lynch, USA /Francia 1997
  • The Blair Witch Project, Daniel Myrick e Eduardo Sanchez, USA, 1999
  • V per vendetta, James McTeigue, USA, 2005
  • Wall-e, Andrew Stanton, Pete Docter, USA, 2008

 

*I film contrassegnati con asterisco sono disponibili presso la Biblioteca Innocenti Library – Alfredo Carlo Moro e a disposizione per il prestito.

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[1] Così definisce la condizione dello spettatore Christian Metz in Cinema e psicanalisi. Il significante immaginario, Venezia, Marsilio, 1980.
[2] Jullier, L., Il cinema postmoderno, Torino, Kaplan, 2006.
[3] Jameson, F., Postmodernismo. Ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, Roma, Fazi, 2007.
[4] Quaresima, L., Re, V. (a cura di), Play the movie. Il dvd e le nuove forme dell’esperienza audiovisiva, Torino, Kaplan, 2010.
[5] Si veda a proposito: De Giusti, L. (a cura di), Immagini migranti. Forme intermediali del cinema nell'era digitale, Venezia, Marsilio, 2008; Mariagrazia Fanchi, Spettatore, Milano, Il castoro, 2005; Francesco Casetti, Filmic experience, «Screen», 2009, n. 50, pp. 56-66.
[6] Si veda anche in proposito Girlanda, E., I 3D(oni) del cinema tecnologico, in «Il ragazzo selvaggio», n. 76, luglio-agosto 2009.
[7] Limosin, J.P., Roth, L., Le bombardement de Nantes, entretien avec Paul Virilio, in «Cahiers du cinéma», n. 503, p. 78.