Il figlio

17/07/2009 Tipo di risorsa Schede film Temi Giustizia penale minorile Titoli Rassegne filmografiche

di Jean Pierre e Luc Dardenne

(Belgio/Francia, 2002)

Sinossi

Olivier è un esperto falegname, insegna in una scuola di formazione-lavoro. Da quando il proprio figlio è stato ucciso da un ragazzino undicenne intento a rubare un’autoradio e la moglie – dopo la tragedia – lo ha lasciato, Olivier si è buttato sul lavoro, unica sua prospettiva di vita. Un giorno, al centro scolastico, si presenta l’assassino del figlio, uscito dal carcere dopo alcuni anni di reclusione e inserito in un programma di collocamento giovanile. Dapprima riluttante nell’accettare quel particolare allievo, Olivier chiede, improvvisamente, di averlo in classe. Il rapporto con Francis (questo il nome del ragazzo) diventa giorno dopo giorno, sempre più stretto: il falegname insegna al suo aiutante tutti i segreti della professione. Tuttavia Francis non sa chi è realmente il suo istruttore, mentre Olivier non esprime mai ciò che gli passa dalla mente. Una domenica, durante un viaggio verso un magazzino di legname fuori città, l’uomo decide di comunicare a Francis la propria identità. Il ragazzo scappa, l’uomo lo riacciuffa. In silenzio, dopo una lotta più psicologica che fisica, i due riprendono il loro lavoro e caricano il camion di legna.

Analisi

La fisica della metafisica

Il cinema dei fratelli Dardenne mette in scena la fisicità della morale, la materialità delle problematiche ontologiche. Tener fede ad una promessa fatta ad uno sconosciuto sul punto di morte anche se questo significa far arrestare il proprio padre (La promesse), rifiutare l’elemosina o i soldi dell’assistenza sociale per orgoglio anche se si versa in condizioni economiche disperate, denunciare l’unico amico che si possiede, anche se ciò determina un’inevitabile solitudine, per rubargli il posto di lavoro (entrambi gli esempi da Rosetta), accettare come apprendista nel proprio laboratorio di falegnameria il ragazzo che ha ucciso tuo figlio anche se ciò riapre ferite non ancora rimarginate (Il figlio): le situazioni in cui si trovano – nolenti e non volenti – i personaggi dei Dardenne non sono mai sfumate, leggere, impalpabili, richiedono decisioni drastiche, etiche, che stravolgono la vita e spesso sono veicolate dagli eventi, dalla necessità di sopravvivere, dal poco tempo a disposizione per fare e per pensare. Di fronte a scelte così drammatiche e lancinanti, il cinema di questi due registi rifiuta il melodramma, lo scavo nella psiche dei personaggi, il coinvolgimento emotivo dello spettatore per imporgli un punto di vista o trasmettergli un messaggio, ma diventa fisico, faticoso, alienante, disturbante nella sua semplice registrazione dell’esistente. Macchina a spalla, montaggio a-ritmico, a scatti, lunghi silenzi e assenza di musica, corse, fatiche, ansimi e pensieri che rimbombano dentro le teste dei protagonisti senza che una sola espressione del loro volto ne lasci trasparire il senso. Ne Il figlio, la fisicità delle emozioni si concretizza nelle tante piccole azioni che avvengono all’interno della falegnameria: piallare, misurare, levigare, segare, trasportare, intagliare non sono solo gesti di banale apprendimento di un mestiere, ma diventano il campo di battaglia o di possibile conciliazione tra un padre cui è stato ucciso un figlio anni addietro e il suo assassino, il campo dove forse si realizzerà la vendetta del primo sul secondo. Dietro i rumori del martello o del trapano, dietro al seghettare rude si nascondono – senza essere mai espressi in maniera esplicita – rancori, domande, paure, voglia di perdonare. La cornice di genere all’interno della quale si sviluppa il racconto cambia, si trasforma da un giallo (per una lunga parte della storia non sappiamo chi sia quel ragazzo che Olivier tratta con tanta cura e attenzione) ad un thriller (Olivier ucciderà o perdonerà il ragazzo? Gli dirà che è il padre del coetaneo che ha ucciso o manterrà il segreto?) per diventare infine un road movie in quel lungo viaggio verso la campagna francese che preannuncia un finale drammatico o positivo che solo in parte sopraggiunge. Eppure il film sembra non procedere, ancorato ad un presente permanente che cristallizza e irrigidisce le posizioni. I Dardenne incollano la macchina da presa addosso alla nuca di Olivier e lo pedinano, ma in un senso completamente diverso da quello del neorealismo zavattiniano che prevedeva un’emblematicità dei gesti delle persone, quel loro parlare solo attraverso le loro facce e le loro espressioni stupite. Qui, al contrario, Olivier non parla, ma fa, l’unica cosa rimastagli dopo aver perso il figlio e essersi separato dalla moglie.

Misurare le distanze tra le persone

Il cinema fisico dei Dardenne ben si adatta alle caratteristiche dell’adolescenza. Come Igor e Rosetta, anche Francis – in quest’ultimo caso non più protagonista di un film ma oggetto dell’osservazione del protagonista Oliver e di conseguenza anche del pubblico – è un ragazzo disorientato di fronte al proprio futuro, cerca un inserimento nella società che è lento, faticoso, reso difficile dalla solitudine e dall’errore commesso. Nulla si sa dei motivi per cui ha ammazzato un coetaneo e, infatti, il tema del film non è riflettere sulle ragioni o le pulsioni che inducono i minori al crimine. Il baricentro del film è il rapporto tra Fancis e Oliver, ovvero tra un figlio che non ha genitori e un genitore che non ha più figli e che compie uno dei pochi lavori – l’educatore – che si avvicina a quello di padre. La relazione genitori-figli sembra interessare particolarmente in due registi belgi, i quali individuano in questo rapporto l’elemento centrale nella crescita e nella maturazione degli adolescenti. Se in Rosetta e in La promesse i genitori dei protagonisti sono ubriachi o violenti, menefreghisti o criminali, in Il figlio ci troviamo di fronte ad una figura che – nel suo silenzio e nella sua ombrosità – può essere considerata positiva. Il più grande merito di Oliver è saper misurare la giusta distanza che esiste tra sé e gli oggetti, una qualità che egli mette in mostra in una delle sequenze più importanti del film, quella ambientata di notte in un parcheggio. Quella che sembra una sfida o un gioco (Francis che non crede alla precisione dei calcoli di Oliver e lo invita a dimostrargli la sua bravura, l’uomo che, con estrema umiltà e naturalezza, gli mostra di saper calcolare a occhio ma con estrema precisione le distanze tra le cose e tra le persone) in realtà è uno dei momenti più altamente pedagogici, dove l’insegnamento meramente tecnico di Oliver trascende e diventa insegnamento di vita. Egli dimostra non solo in pratica, ma soprattutto in teoria di saper fare il genitore, di saper mantenere le giuste distanze tra chi ha bisogno contemporaneamente di affetto e protezione e di libertà e fiducia. È l’adulto che protegge il ragazzo quando sale su scale a pioli pericolose, che gli insegna a costruirsi le cose e poi gli lascia il tempo per imparare anche sbagliando. È l’adulto che lo bracca, lo punisce (nell’ultima scena ambientata nel magazzino di legname), gli dimostra che gli errori vanno in qualche modo pagati affinché si possa far valere un'etica della giustizia, ma che poi perdona (addirittura l’assassinio del figlio) e dimentica. La punizione lava ogni colpa e dona ad ogni oggetto la sua misura e la sua forma. È questo l’insegnamento maggiore che Francis apprende nel suo percorso di catarsi. 

Marco Dalla Gassa

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