Il lavoro dello psicologo in quattro film sull’adolescenza

Premessa: l’importanza del significante

Qual è il contributo che lo studio del linguaggio cinematografico può dare a una ricognizione sul ruolo della psicologia in campo sociosanitario, scolastico, giudiziario?Un’analisi meramente quantitativa delle rappresentazioni che il cinema fornisce delle diverse situazioni e delle varie figure coinvolte nella cura e nell’assistenza ai minori in difficoltà non potrebbe andare al di là della semplice illustrazione di casi particolari che ben poco aggiungerebbero alla conoscenza di una pratica già ampiamente studiata attraverso strumenti ben più efficaci sotto il profilo scientifico.

 L’apporto più interessante che il cinema può offrire a uno studio sulla materia non è tanto nel campo della descrizione delle sue applicazioni e della loro validità e diffusione nella nostra società, quanto nel fornire una serie di spunti di riflessione, probabilmente frammentari e di scarso valore sotto il profilo esclusivamente dimostrativo, ma di certo stimolanti da un punto di vista speculativo, soprattutto per coloro che operano sul campo applicando giorno per giorno le proprie competenze alla vita di tutti i giorni. Ciò che tenteremo di fare attraverso questo breve contributo, dunque, è provare, a partire da un numero ridotto di film estremamente significativi, ad articolare un’analisi delle forme e dello stile adoperati dal cinema per descrivere il rapporto tra terapeuta e paziente. Protagonista sarà più il linguaggio delle immagini, dei gesti, dei simboli che quello delle parole (che, tuttavia, non verranno relegate in un ruolo secondario, tutt’altro), in un tentativo uguale e contrario a quello dello psicologo che, proprio a partire dalle parole, dall’uso della comunicazione verbale con il paziente, tenta di risalire alle immagini e ai simboli che spesso sono alla base del comportamento a rischio, del disagio, della nevrosi che hanno reso necessario il suo intervento.

È infatti da questo punto di vista che, pensiamo, un film possa dare il contributo più importante alla discussione sul tema, ovvero mettendo in relazione linguaggi diversi, individuando attraverso le caratteristiche particolari della messa in scena cinematografica i punti di tangenza tra discipline diversissime che, pure, hanno delle basi comuni[1]. Insomma, proprio come ci insegna la psicologia (e ancor di più la psicoanalisi) è una lettura del significante, ovvero della forma e dello stile cinematografico (le inquadrature, la loro organizzazione interna e la loro concatenazione) messa in relazione (e spesso in contraddizione) con il significato espresso, con il contenuto (la storia narrata, le vicende particolari raccontate) il modo migliore per far emergere quale sia l’immagine che, anche attraverso il cinema, la società produce di una scienza applicata alla soluzione dei piccoli e grandi problemi che caratterizzano la vita interiore e sociale dell’uomo.

Dalla parola al simbolo: andata e ritorno

Il colloquio con lo psicologo (ma anche, ovviamente, la seduta psicoanalitica o l’incontro con lo psichiatra) sono situazioni canoniche, momenti topici, “luoghi comuni” della narrazione filmica: probabilmente non sono tra quelli in cui ci si imbatte più di frequente, ma di sicuro, laddove siano presenti, ricoprono un ruolo centrale nella dinamica del racconto. A tali momenti della rappresentazione viene delegato il compito di introdurre lo spettatore nella mente del protagonista, per fargli condividere le ansie, le paure, i motivi nascosti di comportamenti apparentemente inspiegabili, tutto ciò che, in qualche modo, costituisce la chiave di lettura della vicenda narrata, ciò che consente di comprendere il perché di un certo modo di agire, di un particolare atteggiamento, di determinate scelte. Se ciò è vero per ogni film, probabilmente lo è ancor di più per quelli che hanno per protagonisti bambini e adolescenti, dal momento che integrazione e marginalità sono i due poli tra i quali l’animo infantile, e ancor più quello adolescenziale, si dibattono nell’impasse tra il desiderio di essere simili agli altri e la spinta a distinguersi, a differenziarsi. Lo psicologo entra in scena quasi sempre per tentare di comprendere quali siano le cause di tale dissociazione e per mediare tra i due estremi del conformarsi a un’immagine che sembra prodotta dagli altri (la famiglia, gli amici, le istituzioni) e quella che invece rispecchia più intimamente le aspirazioni e i desideri del protagonista. L’intervento è determinante e (quasi) sempre risolutivo, soprattutto per sciogliere l’intreccio e trovare la chiave giusta per dare vita a quel delicato equilibrio tra immagine di se stesso e immagine sociale del giovane protagonista. Tuttavia, come accennato poc’anzi, il film parla soprattutto per immagini, attraverso l’articolazione degli elementi interni alle inquadrature e delle inquadrature tra loro, elementi che, tuttavia, spesso agiscono a livello subliminale, senza che se ne avverta consapevolmente il senso. I significanti (le immagini e i singoli elementi che le compongono) vengono ricondotti a un significato che, inevitabilmente, coincide con la guarigione del paziente, lo smascheramento del disagio, la cura della nevrosi che lo affliggeva. Ma, come ogni buon terapeuta insegna, più che far risalire l’origine del disagio a un unico elemento scatenante, è importante compiere con il paziente un tragitto che ripercorra l’evoluzione del disagio stesso.  Vediamo, dunque, attraverso quattro film di altrettanti registi caratterizzati dalla capacità di esprimersi attraverso uno stile molto personale, quali siano i momenti significanti della relazione tra terapeuta e paziente, al di là del significato ultimo che è possibile attribuire al racconto. Si tratta di testi molto diversi: si va da un capolavoro del cinema quale I quattrocento colpi di François Truffaut (Francia, 1959) a uno dei lavori più commerciali di un grande autore contemporaneo come Will Hunting - Genio ribelle e di Gus Van Sant (USA, 1997), da un film caratterizzato dal taglio semidocumentaristico quale Family Life di Ken Loach (Gran Bretagna, 1971) a un’accurata ricostruzione d’autore di un vero caso clinico come Diario di una schizofrenica di Nelo Risi (Italia, 1968).

I quattrocento colpi: meglio una madre invisibile di una cattiva madre

Una delle rappresentazioni cinematografiche più emblematiche per la figura dello psicologo in un film che ha per protagonista un adolescente è quella proposta da François Truffaut nel suo lungometraggio d’esordio, I quattrocento colpi (Francia, 1959) pellicola di eccezionale importanza tanto per la storia della settima arte, trattandosi di uno dei film-manifesto della Nouvelle Vague, quanto per la rappresentazione dell’infanzia nel cinema, finalmente proposta fuori dalla visione stereotipata che l’aveva caratterizzata fino a quel momento. La celebre sequenza è ambientata in un riformatorio dove Antoine Doinel, il protagonista tredicenne, è stato rinchiuso a causa di un piccolo furto, ultimo di una lunga serie di atti di ribellione nei confronti della famiglia, della scuola, delle istituzioni in generale. Nel corso del colloquio emergono le ragioni profonde che hanno portato il ragazzino a mentire, marinare la scuola, fuggire di casa, rubare: figlio indesiderato dalla madre che l’aveva avuto quando era poco più di una ragazzina, adottato e a mala pena tollerato dall’uomo che in seguito ha sposato sua madre, Antoine parla del rapporto con i genitori, dei suoi problemi, delle sue aspettative.

Ciò che è significativo nella sequenza è l’essere articolata non secondo il classico schema del campo-controcampo[2], bensì attraverso un’unica lunga ripresa del volto di Antoine, relegando la psicologa nello spazio fuoricampo, trasformandola in una presenza esclusivamente acustica, la fonte di una serie di domande tese a indagare la condizione del giovane internato. Truffaut spiegò, in seguito, che la scelta di lasciare fuoricampo questo personaggio era dovuta essenzialmente alla necessità di cogliere nello sguardo del protagonista le sfumature emotive che derivavano dal dover rispondere a una serie di domande poste a sorpresa (spesso, nel corso della lavorazione del film, il giovanissimo Jean-Pierre Léaud era stato tenuto all’oscuro, fino all’ultimo momento, delle scene che avrebbe dovuto interpretare), per dare al colloquio un’atmosfera intima e allo stesso tempo inquisitoria.

Di certo, operando in questo modo, Truffaut infrangeva nel suo film l’ennesima regola del linguaggio cinematografico (un personaggio inquadrato in primo piano mentre è impegnato in un dialogo esige che gli si alterni il primo piano di colui con cui sta parlando, pena l’inintelligibilità della sequenza e lo spiazzamento dello spettatore), ponendo il pubblico di fronte a qualcosa di completamente nuovo, ovvero a un’immagine (quella del protagonista) che non trovava un’altra figura nella quale riflettersi, rispecchiarsi, ovvero rispetto alla quale instaurare quello scambio dialogico che, pure, doveva essere il fine ultimo dello stesso colloquio. Ulteriore obiettivo di questa precisa scelta stilistica (quello che lo stesso Truffaut avrebbe definito un “partito preso formale”) era probabilmente la volontà di indicare allo spettatore l’inutilità sul piano pratico – ma non su quello simbolico, come s’è visto – del colloquio, ultima tappa di una serie di incontri del ragazzo con figure istituzionali (insegnanti, poliziotti) e non (gli adulti) che non erano riuscite a instaurare con lui quel genere di rapporto che forse avrebbe potuto aiutarlo.

In particolare, è proprio la madre a non essere riuscita a dare ad Antoine l’affetto e la fiducia necessari per il suo sviluppo, proponendo un’immagine di se stessa ambigua (quando il figlio la scopre con l’amante lo corrompe affinché non riveli il tradimento al marito) se non addirittura connotata da una sessualità provocante, perfino aggressiva. Come ha intuito Anne Gillain nel suo studio fondamentale sul cinema di Truffaut François Truffaut: il segreto perduto [3]: «Quando [la madre di Antoine] arriverà a casa, non degnerà il figlio di uno sguardo ma, con supremo disprezzo per la sua incipiente sessualità, esibirà le gambe fasciate nelle calze di seta». Uno sguardo assente, una voce disincarnata e l’immagine delle gambe della madre: sono proprio  gli elementi che tornano sottoforma di tabù, di divieto, di impedimento, nella sequenza della psicologa, ovvero nello sguardo e nel volto negati alla visione dello spettatore attraverso l’adozione di una tecnica di ripresa insolita e, poco prima del colloquio, sotto forma di raccomandazione maliziosa da parte di uno dei ragazzi rinchiusi in riformatorio insieme ad Antoine che afferma: «se le cade la matita, raccoglila, ma non guardarle le gambe, sennò lo scrive sulla tua scheda». Come afferma ancora la Gillain «[la scena della psicologa] lascia pochi dubbi sulla capacità di Antoine di comunicare con una figura materna positiva, a patto che questa sia sconosciuta, idealizzata e inaccessibile».

Diario di una schizofrenica: identificazione di una madre

Il tema dell’individuazione di un genitore assente o affettivamente carente nella figura dello psicologo è un archetipo cinematografico diffuso che, in I quattrocento colpi, trova una conferma in negativo, attraverso l’assenza dallo schermo della psicologa, condizione necessaria per far emergere una “madre neutra” (o neutralizzata, almeno nelle sue caratteristiche più aggressive) e, dunque, più accettabile per il ragazzino. Nel caso di Diario di una schizofrenica di Nelo Risi, l’unico film italiano che prenderemo in considerazione, l’individuazione della madre nella figura della psicoterapeuta, il contatto fisico con tale figura, il materializzarsi di un ideale materno che nella realtà è stato “tradito”, è una delle caratteristiche della terapia messa in campo per curare la schizofrenia di una giovane paziente.

Anna è la primogenita di una ricchissima famiglia e, al contrario di Antoine, che attraverso i suoi ripetuti atti di ribellione sembra lanciare segnali di soccorso sempre più eclatanti verso coloro che lo circondano, si è rinchiusa progressivamente in se stessa, fino a che i medici non le hanno diagnosticato una grave forma di schizofrenia. Dopo vari tentativi in costose cliniche, Anna, ormai sempre più dissociata e refrattaria al mondo esterno, viene affidata alle cure di M.me Blanche, una psicoterapeuta che svolge la sua professione fuori dai consessi accademici, seguendo metodi originali, spesso riuscendo lì dove altri hanno fallito. Blanche riuscirà a capire che il trauma alla base della malattia di Anna si è originato a partire dal rifiuto della madre di allattare la neonata subito dopo la nascita. Il film segue la forma-diario del libro dal quale è tratta la sceneggiatura (scritta a quattro mani dal regista e da Fabio Carpi, con la consulenza scientifica di Franco Fornari), ovvero Le journal d’une schizophrène redatto dalla psicoanalista svizzera Marguerite Andrée Sechehaye in collaborazione con la stessa paziente, Renée, all’indomani della guarigione, e si pone lo scopo esplicito di raccontare attraverso un film (e con la semplicità che deve avere un prodotto indirizzato a un pubblico il più vasto possibile) una storia che illustri, con il necessario rigore scientifico, un percorso terapeutico condotto secondo metodi non convenzionali. La caratteristica che colpisce maggiormente è la delicatezza del linguaggio adottato da Risi che, non per questo, risulta meno incisivo e capace di trasmettere tutto il disagio e la disperazione di ognuno dei personaggi, anche di quelli più “negativi” come la madre e, sia pur in misura minore, il padre della protagonista.

Se, come detto, per la sequenza de I quattrocento colpi era necessario “smaterializzare” la psicologa, negarne la presenza, in Diario di una schizofrenica ciò che viene reso mirabilmente dalla regia di Nelo Risi è il rapporto di natura essenzialmente fisica che si instaura da subito tra terapeuta e paziente. Del resto, Anna è totalmente incapace di comunicare razionalmente e verbalmente le proprie emozioni, essendo regredita a uno stadio infantile, quasi neonatale: quando la ragazza arriva per la prima volta a casa della terapeuta accompagnata da un’infermiera per la prima seduta, M.me Blanche la prende quasi in braccio, l’accompagna sostenendola nella stanza che fungerà da scenario principale del suo rapporto con la paziente. È in questa seduta che si statuiscono non solo i termini della terapia ma anche quelli dello stile di ripresa che sottolineerà i momenti cruciali della vicenda: a un piano totale delle due protagoniste sedute l’una di fronte all’altra, che fissa con chiarezza il rapporto diretto e sincero alla base della seduta, seguono una serie di inquadrature alternate del volto dell’una e dell’altra e, nel momento in cui la terapeuta tenta di parlare ad Anna, di comunicare con lei, al primo piano della ragazza si alternano i particolari della bocca e degli occhi di M.me Blanche. Mettendo in risalto gli occhi e la bocca, Risi compie un’operazione volta a concentrare l’attenzione dello spettatore su dei particolari fisici ben precisi della terapeuta che possiedono altresì un valore simbolico fortissimo: gli occhi sono lo “specchio dell’anima” (evidenziano la sincerità della donna), la bocca è il punto d’origine delle parole dolci che Anna sta ascoltando ma è anche, come si vedrà in seguito, la fonte dell’affetto, del nutrimento, della vita. Infatti, già al termine della prima seduta, M.me Blanche ottiene uno sguardo da parte della paziente che trova l’inquadratura corrispondente ancora nel particolare della bocca della donna.

Nel secondo incontro la distanza fisica tra paziente e terapeuta si annulla: M.me Blanche, di fronte all’irrequietezza di Anna decide di farle ascoltare un brano di musica classica, ma la ragazza, approfittando della sua distrazione tenta di dare fuoco ai propri vestiti. Da qui si sviluppa una colluttazione durante la quale la terapeuta tenta di spegnere le fiamme e di calmare la paziente. Una colluttazione che, grazie alla musica in sottofondo, assume le movenze di una danza. La sequenza è inquadrata inizialmente dalla consueta posizione rialzata del piano di ripresa (che siamo portati a interpretare come una forma di pudore e un tentativo di distacco da parte dell’autore rispetto alle vicende narrate) per poi avvicinarsi alle due donne, con una serie di inquadrature estremamente mosse che mettono in evidenza più che la violenza della colluttazione, la tenerezza di un abbraccio, forse cercato inconsapevolmente della stessa  Anna. Quando ormai quest’ultima e M.me Blanche si trovano distese a terra, la terapeuta abbraccia da dietro la paziente, avvicina il suo volto a quello di Anna e pronuncia la frase «E adesso cominciamo».

Rispetto alle sequenze precedenti, nella terza seduta la posizione della macchina da presa è cambiata: la situazione terapeutica, infatti, viene ripresa dall’angolazione opposta alle precedenti. Inoltre, per la prima volta, il regista adotta un punto di vista frontale per riprendere il primo piano di Anna e, allorquando la ragazza pronuncia le prime parole di senso compiuto (l’analista le offre qualcosa da bere e lei pronuncia la frase «No, è proibito») lo alterna a un’inquadratura a mezzo busto di M.me Blanche, suggerendo la coincidenza dell’occhio della camera con lo sguardo della ragazza. Non si tratta del classico campo-controcampo che, nella sua forma canonica, suggerisce la situazione frontale tra due interlocutori incrociando i loro sguardi[4], bensì, di un vero e proprio “riconoscimento” della paziente nella figura della terapeuta. Poco dopo questa scena incontriamo quella in cui M.me Blanche si reca dalla madre di Anna (che, fin da principio s’era opposta a che la donna prendesse in cura la figlia). Il brano si apre, significativamente, con l’inquadratura di una fotografia della famiglia: Anna, bambina di pochi anni osserva, un po’ discosta, i genitori con in braccio la sorella minore. Durante l’incontro emerge che Anna non era stata desiderata dai genitori che l’avevano accolta come un peso, un impedimento. Sul piano del linguaggio cinematografico, al contrario della sequenza precedente, M.me Blanche viene inquadrata dall’alto, con la madre di Anna che incombe su di lei, quasi a suggerire un senso di oppressione fisica, nonché una sorta di immedesimazione della terapeuta con la condizione della sua paziente.

Il brano successivo, cruciale dal punto di vista simbolico e per comprendere l’origine della malattia di Anna, ci mostra la ragazza che tenta di raccogliere delle mele da un albero nel giardino della clinica. La terapeuta individua nelle mele ancora attaccate all’albero, l’oggetto del vero desiderio di Anna, il simbolo di quel latte materno che la ragazza non aveva mai potuto avere dalla madre. Quando, infatti, M.me Blanche, per convincerla a mangiare, invita la paziente ad assaggiare delle mele acquistate, quest’ultima le rifiuta. Le accetterà solo quando la donna la imboccherà, dopo aver staccato a morsi dei pezzi, porgendoglieli dolcemente, ricostruendo un ideale materno negato e compensando, in questo modo, il desiderio frustrato della paziente: «Ora la mamma darà da mangiare alla sua piccola Anna» – dice M.me Blanche compiendo l’operazione – «È il momento di bere il buon latte della mamma». Siamo di fronte a una realizzazione simbolica, ovvero alla ri-proposizione di situazioni dolorose (o, al contrario, piacevoli come può esserlo l’allattamento per un neonato) attraverso una forma attenuata, più accettabile per il paziente, nonché di fronte alla ricostruzione di un ideale materno negato che si incarna letteralmente nella figura della terapeuta. Nel film di Risi tale circostanza è resa mirabilmente attraverso una serie di immagini che colpiscono per la loro forza e la toccante delicatezza che le caratterizza, per il loro valore simbolico immediato e, al tempo stesso, per la capacità di realizzarsi, per il tramite del linguaggio cinematografico, attraverso il rapporto effettivo tra le due protagoniste. In una frase, ancora pronunciata da M.me Blanche durante un colloquio con il direttore della clinica dove la giovane è ricoverata: «È Anna che mi ci ha guidato. È lei che ha avuto il coraggio di impormi il linguaggio dei simboli e dei fantasmi di bene e male che stanno dietro le gioie e le angosce di un bambino molto piccolo».

Family Life: un film “antipsichiatrico”

La situazione terapeutica descritta in Diario di una schizofrenica è una fedele esposizione di alcune tra le più importanti teorie psicoanalitiche, e il caso di Anna ha un valore simbolico altissimo che, travalicando il contenuto esclusivamente scientifico, si fa metafora della condizione umana, rendendo comprensibili a tutti i delicati meccanismi che sono alla base del bisogno d’affetto di ognuno. Ma la condizione dell’uomo non si articola esclusivamente attraverso la vita affettiva e all’interno della sfera familiare, si allarga al rapporto dell’individuo con la società che lo circonda, all’immagine che ognuno sente di poter e dover dare di se stesso all’esterno. Se nel caso del film di Risi ci siamo soffermati soprattutto sugli elementi formali che potremmo chiamare di “primo livello” (la composizione delle inquadrature, la loro articolazione interna, il loro concatenarsi) e sull’analisi di una serie di fattori simbolici (il rapporto tra i personaggi, la loro relazione con gli oggetti), nel caso di Family Life di Ken Loach ci concentreremo anche su alcuni tratti del film che non concernono strettamente la relazione terapeuta-paziente, ma si estendono al rapporto del soggetto (ovvero della protagonista) con la società e l’ambiente circostante. Questo per la carica profondamente polemica nei confronti della società stessa di questo film in particolare, così come di tutta l’opera del regista inglese, da sempre a fianco dei deboli e degli oppressi, contro la presenza oppressiva delle istituzioni nella vita degli individui. Non solo, Family Life nasce sotto l’influenza diretta delle teorie di R. D. Laing (il caso di Janice, descritto nel film è, tra l’altro, analogo a quello di Julie descritto in L’io diviso) basate sulla cosiddetta “antipsichiatria”, che trovarono una vasta eco anche al di fuori dei contesti specialistici (all’interno della più generale ondata contestatrice che nella seconda metà degli anni Sessanta avrebbe investito tutti i campi del sapere) e dall’esperienza diretta delle strutture “antistituzionali” e antiautoritarie, come ad esempio quella di Kingsley Hall nell’East End londinese, un tentativo di autogestione in cui erano coinvolti, ovviamente, anche i pazienti. Logico, dunque, che il discorso si estenda a un ambito che coinvolge la struttura della società, i ruoli delle istituzioni, la vita comunitaria degli individui.

La vicenda narrata è quella della giovane Janice Baildon e dei suoi tormentati rapporti con la famiglia, di mentalità poco aperta e schiava delle apparenze. Quando Janice rimane incinta la madre insiste affinché abortisca, nonostante la ragazza mostri di voler tenere il bambino. Convinti che la figlia sia preda di un forte disagio psichico, i genitori mandano Janice in cura da uno psichiatra – il dottor Donaldson – che tenta di guarirla scavando nella vita e nelle abitudini di tutti i componenti del nucleo familiare. Lo psicologo comprende ben presto che Janice è un autentico campo di battaglia sul quale i genitori cercano di ovviare alle loro inconsce insoddisfazioni. Tuttavia, i metodi all’avanguardia di Donaldson trovano un fermo ostacolo nei suoi superiori: Janice viene sottratta alle cure del giovane dottore (che aveva organizzato il proprio reparto secondo il metodo dell’autogestione), internata e curata con sedativi ed elettroshock. Dopo un breve periodo trascorso in famiglia la ragazza peggiora ulteriormente, viene nuovamente ricoverata e sottoposta a cure drastiche e a una sorveglianza asfissiante. Fuggita insieme a Tim, un suo vecchio amico, Janice viene ripresa e riportata nell’ospedale, diventando un caso da esporre agli studenti universitari. Il suo percorso di “istituzionalizzazione” sembra compiuto ma, a tutto ciò, Janice decide di reagire, opponendo l’afasia totale alla cecità di un mondo che non vuole comprendere.

I titoli di testa del film scorrono sulle riprese della periferia di Londra, una distesa grigia e uniforme di case della piccola borghesia, tutte più o meno dignitose ma prive di caratteristiche spiccate: è una chiara metafora che il regista rende esplicita poco dopo, attraverso le parole di Tim – l’amico di Janice – che, indicando il panorama fuori dalla finestra, pregherà la ragazza di non arrendersi alla visione conformista che i genitori vogliono inculcarle. Per tutto il film Loach continuerà a suggerire questo parallelo tra il conformismo dei più e il disagio di Janice, alternando con abilità alle riprese documentaristiche della città e dei suoi abitanti, girate nella metropolitana, per le strade, nei grandi magazzini, a volte facendo ricorso alla macchina da presa nascosta, alla descrizione della condizione interiore della protagonista, assediata dalle continue richieste di spiegazioni dei genitori sui suoi comportamenti solo un po’ più bizzarri rispetto alla media. Il conformismo, del resto, è l’ossessione dei genitori di Janice e Loach è abile nel dipingere non una famiglia disfunzionale, magari povera e appartenente al sottoproletariato, bensì un tipico nucleo familiare borghese, di quelli che abitano in una delle casette poc’anzi descritte.

La “discesa agli inferi” della ragazza viene mostrata nel corso del film dapprima attraverso la rappresentazione della normalità che la circonda (fino a far credere che sia proprio Janice la causa del suo stesso disagio) per poi immergere la visione in una dimensione sempre più paranoica e oppressiva, in quella che potremmo definire come una “ritualizzazione clinica” attuata a opera delle strutture repressive, vero e proprio prolungamento di quella famiglia opprimente che Donaldson individua subito come origine del disagio di Janice. Sul piano del linguaggio utilizzato, per rendere tale “escalation”, Loach passa dalla sequenza successiva ai titoli di testa, in cui la ragazza è a colloquio con lo psicologo, a quelle con i genitori, durante le quali emergono – con la stessa sconcertante normalità cui si accennava poc’anzi – le cause scatenanti la schizofrenia nell’anello più debole della catena. Sedute di gruppo e individuali che differiscono notevolmente per stile di ripresa e spiccate scelte formali, ben mascherate dal regista attraverso un’apparente spontaneità nell’uso della macchina da presa. Mentre nelle sedute con Janice spesso Donaldson condivide lo spazio dell’inquadratura con la paziente, in quella con entrambi i genitori questi ultimi sono ripresi sempre frontalmente, quasi schiacciati sulla parete di fondo, e mai con lo psicologo. Inoltre, se la seduta con la madre di Janice, è filmata attraverso un’inquadratura stretta sulla sua rigida figura (a sottolinearne l’atteggiamento severo, chiuso, ottusamente puritano), in quella con il padre vengono utilizzate inquadrature che lo ritraggono di scorcio, obliquamente (a evidenziare l’ambiguità, l’insicurezza dell’uomo, sostanzialmente succube della moglie). Attraverso ben precise scelte di “messa in quadro”, Loach sembra voler addirittura suggerire l’eziologia della malattia di Janice: una madre bloccata nella propria visione tetragona della realtà, capace di proiettare sulla figlia soltanto le proprie paure verso i cambiamenti sociali in atto, un padre sfuggente, mediocre e insoddisfatto che è riuscito a trovare nella violenza di un ottuso autoritarismo l’unico ruolo all’interno della propria famiglia. Ma a contrastare maggiormente con le riprese di tali situazioni terapeutiche, tutte connotate da un uso della macchina da presa fissa, sono quelle delle sedute di gruppo cui partecipa Janice su invito di Donaldson: anche in questo caso Loach segue il metodo documentaristico, da cinéma verité, ovvero riprendendo con la macchina da presa a spalla, pronta a seguire la traccia più interessante tra le molte possibili, dimostrandosi disponibile, al pari dello psicologo seguace dell’antipsichiatria, a lavorare con i pazienti attraverso un dialogo costante e sempre aperto.

Confrontando tali sequenze con quelle successive all’espulsione di Donaldson dallo staff della clinica, si resta colpiti da come Loach sia riuscito a trasmettere quel senso di oppressione provato dalla stessa protagonista attraverso un numero ridotto di elementi visivi: ad esempio, le inquadrature del volto in primo piano di Janice sono sempre occupate per metà dalla sagoma dello psichiatra ripreso di spalle, che incombe con la sua figura sulla giovane, ormai destinata ai trattamenti sanitari tipici della psichiatria tradizionale come l’elettroshock e gli psicofarmaci.

Will Hunting - Genio ribelle e… figlio di due padri

Insieme a Diario di una schizofrenica (che, tuttavia, lo ricordiamo, è tratto da un libro scritto da una psicoanalista) Will Hunting - Genio ribelle di Gus Van Sant è certamente il film, tra quelli qui considerati, in cui la dinamica terapeuta-paziente è sviluppata con maggior intensità, anche se non con il medesimo rigore, ovvero concedendo probabilmente più del necessario a quello spirito romanzesco che, in fondo, costituisce il compromesso necessario per arrivare a quel “grande pubblico” che Hollywood sempre ricerca.

Orfano e di umili origini, l’adolescente Will Hunting lavora come inserviente al Massachusetts Institue of Technology di Boston e trascorre il suo tempo libero con gli amici, tra risse di strada e grandi bevute. Il ragazzo, tuttavia, è un vero e proprio genio: se la matematica è il campo nel quale si destreggia meglio, ha una cultura enciclopedica che spazia dalla storia dell’arte all’economia. Il suo carattere irascibile e il disinteresse per il successo, tuttavia, lo hanno portato a confrontarsi spesso con la legge. Sottoposto a un periodo di carcerazione a causa di piccoli precedenti penali, Will viene rilasciato sulla parola grazie all’interessamento del professor Lambeau, un luminare della matematica che, colpito dalle sue incredibili doti, non vuole lasciarsi sfuggire l’occasione di coltivarne il talento. Il provvedimento del giudice, tuttavia, impone al ragazzo di sottoporsi a un ciclo di sedute psicoanalitiche che lo aiutino a ritrovare l’equilibrio e, soprattutto, a evitare quegli scatti di ira che spesso lo hanno messo nei guai. Dopo essersi rivolto a molti colleghi psicologi, nei confronti dei quali Will mostra disprezzo e sfiducia, non perdendo occasione di ridicolizzarli, Lambeau decide di affidarlo alle cure di Sean McGuire, uno psicologo uscito dal grande giro degli accademici perché vocato alla marginalità e all’indipendenza, due caratteristiche del suo animo inasprite dalla morte della moglie per una grave malattia. Il rapporto tra lo psicologo e Will non inizia positivamente: abituato a prendersi beffe di chiunque senza alcun timore reverenziale, il ragazzo pensa di poter ridicolizzare anche McGuire. Nel frattempo Will conosce Skylar, una ragazza abbiente che frequenta l’università e si innamora di lui: il giovane fuggirà da lei e interromperà bruscamente il rapporto per timore di impegnarsi troppo. Nonostante le iniziali difficoltà, le sedute di Will con McGuire procedono: lo psicologo, con estrema perseveranza e trasmettendo al ragazzo quel calore umano di cui ha sempre avuto bisogno, riesce progressivamente a far emergere il trauma rimosso dovuto ai maltrattamenti ricevuti dal padre durante l’infanzia. Will rinuncerà – almeno momentaneamente – a una brillante carriera universitaria per raggiungere Skylar, nel frattempo trasferitasi a Los Angeles.

In Will Hunting - Genio ribelle torna il tema dell’immagine dell’individuo di fronte alla società (specie se questi si trova in quella condizione delicata, di passaggio dall’adolescenza all’età adulta) che già era presente in Family Life, ma declinato in senso tutto statunitense (il successo deve realizzarsi  e sfociare pragmaticamente nell’affermazione individuale) e, in qualche modo, rovesciato: Will non ha una famiglia castrante alle spalle, non l’ha mai avuta perché è orfano e, soprattutto, non ha mai avuto un padre accanto a sé, solo patrigni violenti che hanno abusato di lui in tutti i modi. Van Sant è “generoso” con il suo personaggio e, in un colpo solo, gliene fornirà due (Lambeau e McGuire), provvedendo da un lato a realizzare quelle doti geniali che il ragazzo ha utilizzato fino a quel momento solo per mettersi in mostra con le ragazze, senza mai farle fruttare realmente, dall’altro compensando quel bagaglio affettivo che ha sempre dovuto reprimere dentro di sé.

Qual è, dunque, il vero problema di Will? Sean McGuire lo chiarisce all’inizio della seconda seduta (che, prudentemente, decide di svolgere sulla panchina di un parco, dopo che Will, nel chiuso dello studio, aveva colto ogni pretesto per umiliarlo, così come aveva fatto in precedenza con gli altri psicologi proposti da Lambeau) allorquando afferma che il suo giovane paziente è «solo un ragazzo». Lo psicologo spiega il perché di questa affermazione in un lungo monologo ripreso in primo piano durante il quale Will (del quale sarebbe stato facile per Van Sant far trasparire le emozioni attraverso l’inserimento di alcuni brevi primi piani) ascolta in silenzio. La sua è una presenza fuori campo, letteralmente tangibile e non soltanto perché il terapeuta parla di lui, ma anche perché, la lunga inquadratura sul primo piano di McGuire in realtà consiste in una lentissima panoramica che pian piano porta a scoprire il profilo di Will, fino a sovrapporlo parzialmente al volto dello stesso psicologo. Il profilo del giovane è fuori fuoco, per indicare l’incompletezza della sua personalità, l’irresolutezza dei suoi sentimenti, al di là della sua genialità Will è «solo un ragazzo» che, come suggerisce lo psicologo, non ha mai davvero provato a vivere, rifugiandosi nella routine (magari anche rischiosa e violenta, ma comunque prevedibile) dei piccoli reati, delle risse di strada e delle bevute con gli amici, senza mai uscire da Boston, senza mai rischiare davvero qualcosa, né in campo professionale, né tanto meno in campo sentimentale. La sequenza si chiude con McGuire che abbandona la scena uscendo dall’inquadratura dopo aver lanciato la sua sfida a Will, ovvero chiedendogli se sia davvero pronto a mettere in discussione se stesso attraverso la terapia. Il protagonista resta da solo in riva al lago e l’ultima inquadratura lo vede di spalle, seduto a meditare su ciò che ha ascoltato. Inizia a delinearsi il rapporto che si instaurerà tra terapeuta e paziente: un rapporto di complementarità e reciprocità che vedrà i due protagonisti completarsi a vicenda.

La terza seduta incomincia in un clima diverso: Will è già seduto nella poltrona destinata al paziente, ha accettato la dimensione dell’analisi, anche se poi rinuncia a parlare, facendo trascorrere inutilmente il tempo. Non è così nell’incontro seguente, quando il ragazzo “rompe il ghiaccio” raccontando una barzelletta sconcia che, tuttavia, apre il campo alla riflessione sul suo rapporto sentimentale con Skylar dal quale emerge, ancora una volta, la paura di rischiare. La scena è strutturata attraverso l’uso del campo-controcampo più classico, a indicare che finalmente terapeuta e paziente sono entrati in contatto. Ancora una volta, poi, è una breve panoramica, un lento movimento della macchina da presa, a sancire il definitivo avvio del loro rapporto umano e professionale, allorché McGuire riesce a convincere Will che soltanto facendosi coinvolgere – e rischiando – nel rapporto con Skylar potrà capire se tiene davvero a lei. La sequenza si chiude con un capovolgimento delle parti, ovvero con Will che rende pan per focaccia a Sean, riconoscendo nella sua ostinazione a non volersi risposare la medesima paura che lo psicologo aveva riscontrato poco prima in lui, timoroso di impegnarsi sentimentalmente.

L’incipit della seduta successiva è caratterizzato da un’inquadratura verticale dello studio di McGuire: la situazione terapeutica ha assunto a questo punto i connotati di una prassi consolidata, che si conferma, infatti, nell’approccio sempre più amichevole e complice tra i due che, ormai, possono condividere ricordi ed emozioni. È nella sesta seduta che abbiamo la “soluzione” del caso Will Hunting: insieme alla prima è la più tesa emotivamente, preceduta da una durissima discussione tra Lambeau e McGuire sul futuro del ragazzo, conteso ormai tra i due padri, il primo razionale e pragmatico, l’altro sentimentale e idealista. Lambeau accusa lo psicologo di voler fare di Will un fallito (McGuire aveva sconsigliato al ragazzo di partecipare a un prestigioso concorso in un altro Stato, dato che non lo riteneva emotivamente pronto) e, proprio quando i due uomini si fronteggiano minacciosi, ripresi di profilo in una stretta inquadratura, dal fondo dell’immagine appare il ragazzo che, aperta la porta dello studio, si colloca proprio al centro del quadro, “conteso” dai due uomini. Nel corso della seduta, non a caso, si parlerà dei “padri” violenti di Will che, ancora una volta, scoprirà la sua vicinanza a McGuire (vittima anch’egli in gioventù di un genitore alcolizzato e violento) e che, proprio per questo, potrà convincere Will a superare quelli che, poco prima, aveva freddamente descritto come “disturbi della sfera affettiva” caratterizzati da “paura dell’abbandono”.

L’ultima inquadratura, che vede finalmente uniti psicologo e paziente unirsi in un pianto liberatorio, è l’unica dello studio di McGuire che (attraverso un lento carrello all’indietro) abbraccia l’intero ambiente, del quale lo spettatore aveva avuto finora una visione parziale e frammentaria. In particolare, nella sequenza della prima seduta durante la quale la stanzetta era stata analizzata nelle sue singole componenti (arredamento, libri, fotografie, dipinti) con superficialità e sufficienza da uno sprezzante Will. Il ragazzo, a partire da elementi sparsi e sconnessi, aveva dato la sua personale diagnosi sull’analista, ovvero quella di un fallito che aveva rinunciato a vivere a causa della morte della moglie.

È un processo che si conclude coerentemente e che va di pari passo con la guarigione: da una percezione sconnessa e disarticolata dell’ambiente circostante (corrispondente allo scollamento tra le mirabolanti capacità intellettive del ragazzo e la capacità di confrontarsi con i propri sentimenti) si passa a una visione di insieme, finalmente coerente, capace di abbracciare ogni aspetto della situazione. E non è un caso se utilizziamo il termine abbraccio, dal momento che proprio questo è il gesto di commiato tra i due uomini e che, seguendo la traccia interpretativa finora adottata (la complementarietà di terapeuta e paziente) si tratta per entrambi di una riconciliazione con se stessi, avvenuta, tuttavia, attraverso l’incontro con l’altro.

La frase: «Mi ha fregato la battuta», pronunciata dallo psicologo dopo aver letto il messaggio di addio lasciatogli da Will – «Se la chiama il professor Lambeau per quell’incarico gli dica: – spiacente, dovevo occuparmi di una ragazza» – partito alla volta di Los Angeles alla ricerca di Skylar, chiude il film ironicamente, riferendosi a quanto lui stesso, anni prima, aveva detto agli amici il giorno in cui aveva rinunciato ad assistere a una finale di baseball per conoscere meglio colei che poi sarebbe diventata sua moglie e sancisce definitivamente lo scambio dei ruoli tra psicologo e paziente, ovvero quel rapporto di reciproca intesa che ha innervato il film.

 

Fabrizio Colamartino

 

I film del percorso

  •  I quattrocento colpi, François Truffaut, Francia, 1959 
  • Diario di una schizofrenica, Nelo Risi, Italia, 1968 
  • Family Life,  Ken Loach, Gran Bretagna, 1971 
  • Will Hunting - Genio ribelle, Gus Van Sant, USA,1997 

I film sopra elencati sono disponibili presso la Biblioteca Innocenty Library "Alfredo Carlo Moro"

 

[1] Per un rapido ma esaustivo excursus sugli studi a cavallo tra cinema, psicologia e psicoanalisi si veda Albano, L., Lo schermo dei sogni: chiavi psicoanalitiche del cinema, Venezia, Marsilio, 2004, in particolare, p. 15-36.

[2] La tecnica di ripresa e montaggio che pone in relazione due inquadrature successive (nelle quali di solito vi sono due personaggi che dialogano) e che dà, conseguentemente, l’illusione allo spettatore che essi siano posti frontalmente uno all’altro e che i loro sguardi si incrocino.

[3] Gillain, A., François Truffaut: il segreto perduto, Recco, Le mani, 1995.

[4] «Nel caso in cui vi siano due personaggi che dialogano, occorre riprenderli nel medesimo (o simile) piano e orientare la macchina da presa in maniera da ottenere che i loro sguardi “si incrocino”: se, ad esempio, nella prima inquadratura il personaggio in primo piano guarda a sinistra, nella seconda l’altro personaggio, anch’egli in primo piano, deve guardare verso destra». Di Giammatteo, F., Dizionario universale del cinema, Roma, Editori riuniti, 1985, voce “campo-controcampo”, p. 7.

 

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