Laboratori e feste per l'inclusione dei minori rom

07/07/2014 Tipo di risorsa: Temi: Titoli:

Il viaggio nelle 13 città riservatarie coinvolte nel Progetto nazionale per l'inclusione e l'integrazione dei bambini rom, sinti e caminanti fa tappa a Torino. A raccontare l'esperienza della sperimentazione nella realtà torinese è Maria Riso, referente del progetto nel capoluogo piemontese.

Il progetto - promosso dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali con la collaborazione del Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca e la partecipazione dell'Istituto degli Innocenti di Firenze – ha coinvolto le 13 città (oltre a Torino, Bari, Bologna, Cagliari, Catania, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Palermo, Reggio Calabria, Roma e Venezia) in varie attività realizzate nelle scuole e nei campi, con l'obiettivo di favorire l'integrazione scolastica e l'inclusione sociale dei bambini e degli adolescenti rom, sinti e caminanti. Per approfondimenti sui suoi contenuti si rinvia alla sezione dedicata di questo sito.

Qual è la condizione abitativa e sociale delle famiglie rom che vivono a Torino?

La maggioranza delle famiglie vive in quattro campi autorizzati, altre famiglie vivono in una decina di campi spontanei e altre ancora in abitazioni. Nei campi spontanei ci sono tre tipologie di nuclei: le famiglie alla ricerca di lavoro che vogliono inserirsi in abitazioni e integrarsi nella nostra città; quelle che hanno un progetto a termine e vogliono lavorare per cercare di migliorare la loro situazione in Romania e mantenere i figli; le famiglie che cercano di sopravvivere. Tutti hanno alle spalle un'esperienza di emarginazione di molti anni. Alcune famiglie coinvolte nel progetto vivono nei campi autorizzati, altre in quelli spontanei e altre ancora in abitazioni.

Il progetto ha previsto, fra le altre cose, laboratori e altre attività nelle scuole incentrate sul cooperative learning. Lavori di gruppo che hanno coinvolto tutti gli studenti, rom e non rom. C'è  integrazione fra i bambini in classe?

Premesso che qualsiasi generalizzazione non descrive la realtà, in alcune classi non abbiamo rilevato grandi problemi nell'evolversi del progetto; in altre, invece, ci sono state delle difficoltà. Varie attività basate sul cooperative learning hanno funzionato, ma alcuni ragazzi rom avevano grandi problemi a livello individuale, derivanti dalla loro storia personale. In questi casi la storia individuale dei ragazzi ha segnato negativamente un'esperienza che aveva tutte le caratteristiche necessarie per funzionare bene. Il problema è che questi bambini e adolescenti vivono in contesti di grande emarginazione.

Qual è l'atteggiamento degli alunni verso gli stereotipi?

Non sono solo i bambini ad avere dei pregiudizi, anche gli adulti li hanno. Ho riscontrato l'esistenza di pregiudizi anche nei bambini rom, che li hanno nei confronti dei gadjé. La questione è delicata e c'è un grande lavoro da fare. Accade che i rom non siano ben disposti nei nostri confronti, a causa del livello ma soprattutto degli anni di emarginazione sociale e abitativa; noi, d'altro canto, non siamo informati e non conosciamo le loro problematiche. I pregiudizi, in realtà, non ci sono nei bambini, soprattutto più piccoli, ma nei preadolescenti e negli adolescenti. L'ambito su cui occorre lavorare di più è proprio quello della scuola coinvolta nel progetto a Torino, la secondaria di primo grado.

Quali attività hanno svolto i ragazzi in classe e nei contesti abitativi?

Per quanto riguarda le attività in classe, gli studenti hanno seguito laboratori di lettura e scrittura e laboratori che li hanno invitati a riflettere su vari temi. Nei contesti abitativi sono stati organizzati laboratori, feste e molte altre attività. L'operatrice campo ha lavorato molto bene sia con le sedici famiglie coinvolte nel progetto, cercando di farle partecipare, sia con i ragazzi, attivando percorsi individualizzati.

Com'è il rapporto tra le famiglie rom e le altre famiglie?

Non si possono fare generalizzazioni: in alcuni contesti il rapporto è buono, in altri è molto più conflittuale.

Il progetto ha coinvolto figure professionali diverse: operatori, insegnanti, dirigenti scolastici, docenti e altri esperti. Com'è andato il lavoro di rete tra tutti questi soggetti?

Il lavoro di rete che si è espresso attraverso l'équipe multidisciplinare è andato benissimo. È stato molto utile partecipare tutti insieme ai momenti formativi, occasioni importanti per farci conoscere e farci capire che stavamo lavorando tutti con lo stesso obiettivo: realizzare il progetto e portarlo avanti nel modo migliore. Ha funzionato meno il tavolo locale. I servizi sanitari, per varie ragioni contingenti, seppure invitati, non hanno quasi mai partecipato; alcuni servizi sociali sono molto attivi, mentre altri sono più “osservatori”.

Quali sono i principali punti di forza e le criticità della sperimentazione?

Un punto di forza sono le pratiche di convergenza: la formazione comune, il sostegno alle progettualità a livello locale con i contributi metodologici e organizzativi condivisi, la costituzione della rete nazionale e locale. L'altro è rappresentato dal fatto di aver realizzato attività e interventi sulle pratiche di accoglienza e di sensibilizzazione. Una criticità, invece, è il tempo della durata del progetto: un progetto di questo tipo, su una popolazione così fragile, non può terminare qui. Abbiamo chiesto, quindi, di poter dare continuità a questa iniziativa. Un'altra criticità è questa: le progettualità devono tener conto delle variabili individuali e devono prevedere, quindi, interventi personalizzati.

(Barbara Guastella)