West Beyrouth

di Ziad Doueiri

(Libano, 1998)

Sinossi

Beirut, 1975. Tarek e Omar sono due adolescenti mussulmani che frequentano il liceo. La loro principale preoccupazione è sbeffeggiarsi delle insegnanti francesi oppure, durante il pomeriggio, girare filmini con una videocamera. Ma il 13 aprile, giorno dell’inizio della guerra civile, è alle porte e se ne sente l’arrivo dai litigi tra i vicini, dalle manifestazioni nelle piazze, dalla presenza sempre più ingombrante di uomini armati. Quando scoppiano le prime sommosse, la città viene divisa in due. Ad ovest, nella parte mussulmana, ci sono le case dei due ragazzi, ad est, in quella cristiana, c’è la scuola e soprattutto l’unico fotografo che sviluppa la pellicola utilizzata dai due adolescenti. Costretti a passare le giornate lontano da scuola, con i genitori di Tarek senza più un soldo e indecisi se rimanere in città o emigrare, i due ragazzi cercano in più di un’occasione di attraversare il confine per andare dal fotografo. Ma la presenza dei cecchini li induce a più miti propositi. Ben presto fanno amicizia anche con Mary, una ragazza cristiana che vive in un appartamento vicino a quello di Tarek. Durante una manifestazione, a cui i due giovani partecipano solo per gioco, scoppiano dei tumulti. Mentre Omar scappa a casa, Tarek si nasconde in una macchina. L’automobile parte con ancora il ragazzo dentro. Quando finisce la sua corsa, Tarek si accorge di essere dalla parte est della città e più precisamente nella dimora di una famosa maîtresse. Riportato a casa, Tarek decide di voler tornare nel bordello a tutti i costi per convincere la tenutaria a organizzare, all’interno dei suoi alloggi, luogo dove convogliano cittadini di ogni religione, una conferenza di pace per il Libano. Sfidando la mira dei cecchini, egli arriverà, con Omar e Mary, nella casa. L’avventura darà a Tarek una nuova consapevolezza, pur sempre in bilico tra la paura di rimanere da solo e l’affetto provato per i suoi genitori in difficoltà.

Presentazione critica

Sono tanti i film che raccontano la guerra, la vita dei bambini o degli adolescenti in tragiche situazioni belliche, la loro capacità di divertirsi e fare esperienze ricche di significato anche in momenti storici particolarmente bui. E’ il caso, ad esempio di Anni ’40 di John Boorman, di Arrivederci ragazzidi Louis Malle, di Il cielo cade di Antonio e Andrea Frazzi, oppure di L’isola in via degli uccelli di Sören Kragh-Jacobsen. Il perché dell’elenco di questi film (e c’è ne sarebbero molti altri), molto diversi tra loro, è presto detto: una forte componente autobiografica, con una buona aggiunta di nostalgia per un periodo della vita che non c’è più, accomuna i film citati. E il film di Ziad Doueiri, buon ultimo, non è da meno. West Beyrouth è firmato, infatti, da un regista dalla formazione cinematografica occidentale – avendo frequentato una scuola americana di cinema – ma natio di Beirut, testimone anch’egli della guerra civile. Come per altre pellicole, il film di Doueiri si muove tra i fatti di cronaca e le esperienze di vita di Tarek, non a caso interpretato dal fratello minore del regista. Ed è su questo binomio che si sviluppa il racconto. Lo si capisce quasi subito, quando Tarek, in una delle prime scene del film, viene punito dall’insegnante di francese per il suo atteggiamento strafottente con una momentanea espulsione dalla classe che gli permetterà di vedere – unico e privilegiato testimone – l’assalto ad un bus di linea che segnò l’inizio ufficiale della guerra civile in Libano. Era il 13 aprile 1975, e quel giorno tutti i telegiornali del mondo posero i loro occhi e la loro attenzione su quel fatto. Parallelamente anche lo sguardo innocente di un ragazzo si rivolgeva in quella direzione. Come a dire che vita e Storia si trovavano nei medesimi posti e nel medesimo tempo, ma avevano una prospettiva diversa sull’avvenimento: se la Storia, affrontata prima dai mezzi di comunicazione e poi successivamente dagli storici, rappresentava l’episodio sempre e comunque a posteriori, la settima arte, capace di ricostruire la vita, poteva invece far vivere all’eroe gli eventi in prima persona. Una sorta di trasformazione del passato in presente che ben si accorda con il carattere autobiografico del film, visto che il regista, in buona fine, attraverso la riproduzione scenica della sua adolescenza, rende odierno quello che non è più. La dialettica tra Storia e esperienze di Tarek è ben evidenziata anche dalle sequenze di passaggio narrativo dove materiali di repertorio giornalistico vengono montati accanto ai piccoli filmini girati dai ragazzi. In questo modo il cineasta evidenzia il legame tra gli accadimenti storici ma mette la guerra civile in secondo piano. Anzi il carattere grottesco di alcune situazioni come quella della maîtresse, il finale intimista racchiuso nella stanza dei genitori di Tarek, la presenza di figure caricaturali di contorno (come la vicina di casa obesa) fanno sì che il contesto ambientale in cui si muove Tarek funzioni più come strumento esperienziale del ragazzo che non come elemento realista del racconto. In altre parole, la prospettiva scelta dal regista è quella di descrivere l’adolescenza come passaggio ‘storico’ della vita, come guerra dei sensi e dei sentimenti verso un nuovo equilibrio. Vista così si comprende maggiormente la rappresentazione di una guerra, tutto sommato, inoffensiva. E l’andirivieni dei protagonisti tra la parte est ed ovest della città, realisticamente poco credibile, diventa il varco tra l’adolescenza e l’età adulta – non è forse vero che il fotografo che sviluppa la pellicola dei ragazzi, simbolo del futuro mestiere di Doueiri appreso negli Stati Uniti, si trova oltre confine? – la prova che determina la crescita e la scoperta di un nuovo mondo, raffigurato, non a caso, dalla casa di appuntamenti, luogo che rinvia alle prime esperienze sessuali, vero spartiacque generazionale. L’ambientazione storica ‘superficiale’ ha anche un ulteriore merito. L’odio religioso, l’atavica repulsione per l’altro, perde completamente di significato. A dividere le persone non è tanto la differenza di cultura, quanto il comportamento nel quotidiano. Mary, cristiana, è un angelo custode dei due protagonisti. Li accompagna, ci gioca insieme, li lascia soli quando la sua presenza è di troppo. E’ scontato dunque che Omar, – tra i due quello che vive in una famiglia maggiormente ortodossa e ha più paura di girare con una cristiana – alla fine metta al collo la catenina di Mary con il crocifisso insieme alla sua che raffigura la mezza luna. I soldati, invece, pur essendo ‘dalla stessa parte della barricata’, pretendono in malo modo il pane ad un panettiere che vorrebbe sfamare i suoi concittadini, si prendono gioco dei ragazzi, quando tentano di passare il posto di blocco. La diversità, per un regista che ha vissuto all’estero da straniero e che è riuscito ad integrarsi, appare così più una questione di comportamento che non di cultura o religione. Il finale, in un contesto astorico e intimista, con i genitori di Tarek che si abbracciano in segno di ritrovata unione, conferma il messaggio e la sua natura universale. Marco Dalla Gassa