Welcome

di Philippe Lioret

Spesso il cinema si prende carico di dare forma (codificata) ai processi sociali, arricchendo le definizioni asettiche con cui si descrivono volti, luoghi, sentimenti, trasformandoli così in esperienze comprensibili e/o immaginabili anche per chi non le vive in prima persona.

Si prenda il caso dei “minori stranieri non accompagnati”: fenomeno invisibile eppure sempre più esteso, pervasivo e irrisolto - questione purtroppo spesso assente dalle agende della politica, sebbene interroghi alla radice la questione dei diritti dei minori -  è solo grazie a una corposa filmografia che ha guadagnato a fatica una certa attenzione dell’opinione pubblica e si è radicato, almeno un poco, nel nostro immaginario.

 
In Italia, ad esempio, sono pellicole come Il mondo addosso di Costanza Quatriglio, Quando sei nato non puoi più nasconderti di Marco Tullio Giordana o Lettere dal Sahara di Vittorio De Seta a narrare storie di emigrazioni e accoglienze, attraversamenti di confini e respingimenti. Oggi a questo nutrito battaglione di film – tra cui va segnalato per efficacia narrativa anche Cose di questo mondo di Michael Winterbottom – si va ad aggiungere Welcome di Philippe Lioret, da pochi giorni nelle sale italiane e uno dei casi cinematografici dell’anno transalpino perché racconta le ricadute che ha avuto la durissima legge sull’immigrazione varata da Sarkozy nel 2008 sugli immigrati irregolari (minori compresi) e su coloro (associazioni di volontariato e singoli cittadini) che cercano di aiutarli.
 
Il film narra la storia di Bilal, un ragazzo diciassettenne iracheno (ma di origini curde) che cerca in tutti i modi di andare a Londra per raggiungere Mina, la sua ragazza. Giunto sulle coste di Calais dopo tre mesi di viaggio, e accortosi di non riuscire a raggiungere la Gran Bretagna nascosto nelle pance dei camion per via dei rigidi controlli della polizia di frontiera, decide di attraversare la lingua di mare a nuoto, non prima di aver imparato a nuotare e aver fatto un po’ di allenamento in piscina. È per via di questa risoluzione che Bilal ha modo di conoscere Simon, un istruttore di nuoto triste e burbero che sta per divorziare da Marion, docente d’inglese e volontaria di un’associazione umanitaria, e che acconsente a dargli qualche lezione solo per cercare di riconquistare l’ex moglie grazie ad un gesto filantropico. Iniziato nel segno dell’indifferenza, il rapporto tra i due si consolida quando Simon viene a conoscenza della storia di Bilal, dei suoi propositi e delle ragioni del suo viaggio. In un primo tempo l’uomo cerca di dissuadere il giovane amico da un’impresa che pare proibitiva, ma giorno dopo giorno, consapevole dell’assenza di alternative, si prende a cuore la sua causa e decide di aiutarlo intensificando gli allenamenti e ospitandolo in casa. Così facendo, però, si attira le attenzioni non amichevoli della Gendarmeria, intenzionata a stroncare sul nascere qualsiasi collaborazione tra cittadini francesi e migranti sans papier, peraltro facilitata nell’attività investigativa e repressiva dall’intervento di diversi “collaborazionisti” che non esitano a denunciare i vicini di casa anche al minimo sospetto. Fatto sta che nel breve volgere di poco tempo l’amicizia tra Simon e Bilal, in un quadro sociale opprimente e inumano, invece di portare buoni frutti, ne matura di cattivi, a cominciare da quelli di natura penale che coinvolgono inevitabilmente l’allenatore di nuoto, accusato di favorire l’immigrazione clandestina.
 
Con Welcome Philippe Lioret confeziona un film intenso, pungente, acre, per certi versi tenace e orgoglioso come lo sono i suoi due protagonisti. La tesi che lo supporta è priva di mezze misure: la Francia sarkoziana tratta gli immigrati come quella di Vichy trattava gli ebrei, ovvero con leggi “razziali” che favoriscono la concentrazione (o l’espulsione) degli stranieri e la delazione dei francesi. Il modo con cui viene declinata tale convinzione però non ha nulla a che fare con i toni della denuncia. Al contrario: il regista sembra soprattutto preoccupato di costruire un racconto credibile, denso, fondato su assonanze, equilibri, pesi e contrappesi. Si prenda, ad esempio, la situazione sentimentale di Bilal e Simon, così simile e così diversa: l’uno è intenzionato ad attraversare il mare per riprendersi ciò che il destino gli ha tolto, l’altro, per sua stessa ammissione, è incapace di attraversare la strada per riprendersi una donna che non ha saputo amare abbastanza; entrambi si ritrovano innanzi a soglie, frontiere, varchi invalicabili, guidati nelle loro azioni da urgenze emotive che li rende complici, alleati e sordi al mondo circostante.  Si pensi alla relazione che si instaura tra i riferimenti al bisogno di pulizia provato dai migranti (la piscina, il cloro, le docce, l’odore che emanano i corpi e che tradisce Bilal nel suo primo tentativo di attraversamento del confine) e l’opera di pulizia realizzata dalla pubblica autorità in un caso e – in una direzione opposta, quasi catartica – da Simon nell’altro. Anche il tratteggio di Calais, con il suo porto industriale, le sue spiagge deserte, i centri di permanenza temporanei, un tessuto urbano indifferenziato e anodino, risponde all’esigenza di una narrazione fredda e asciutta come il vento della Normandia, priva di sussulti drammatici o di prese di posizione estetiche, capace di meglio isolare sia la sofferenza muta e sorda dei personaggi (si veda ad esempio il sottointreccio relativo all’anello di Marion ritrovato da Simon), sia la brutalità e l’insensibilità di un sistema di repressione non degno di un paese civile (narrato perfettamente nella sequenza in cui Bilal e altri compaesani cercano di attraversare il canale dentro un tir).
 

Basta, insomma, un’ironica e amara parola di benvenuto, come il welcome impresso sul tappetino posto sulla soglia di casa del vicino di Simon, per registrare la cesura che sussiste tra le parole e i fatti, le leggi e le persone, l’apparenza pubblica e la sostanza privata di una società che sembra aver perso qualsiasi reticolo di condivisione e di comunità per affogare in un mare d’indifferenza e ipocrisia. E allora i vissuti e le emozioni dei due protagonisti da strumento cinematografico diventano strumento conoscitivo per capire non i contorni freddi di un processo sociale o di una legislazione, ma le loro “calde” ripercussioni sulla vita quotidiana delle persone. Diremmo anzi “scottanti” quando investono, come in questo caso, ragazzi soli, privi di famiglia o di tutori che ne sappiano salvaguardare i diritti.  

Marco Dalla Gassa