Voci lontane... sempre presenti

di Terence Davies (Gran Bretagna, 1988)

Sinossi

Liverpool. Seconda guerra mondiale. La vita per i piccoli Tony, Eileen e Maisie è particolarmente dura, non solo a causa della guerra. È la crudeltà e la violenza che il padre indirizza verso i tre fratelli e verso la madre a farli crescere ossessionati e infelici.

Il genitore non esita a picchiare la moglie, a costringere le figlie a lavare il pavimento della cantina prima di poter uscire con gli amici, a gridargli contro nonostante abbiano rischiato di finire sotto un bombardamento nazista. Una volta cresciuti, le grandi celebrazioni famigliari – il funerale del padre, i loro tre matrimoni, il battesimo dei figli – tengono insieme i fratelli e la madre, permettono loro di ricordare e avere nostalgia del tempo passato, anche del padre violento che sul letto di morte ha riconosciuto i suoi errori. Durante queste feste possono raccontarsi le loro infelicità, i matrimoni piatti, le vite degli amici che si allontanano inesorabilmente, confessioni che si alternano agli unici momenti di spensieratezza, ovvero quando intorno ad una tavola cantano canzoni popolari. Sono le voci lontane (ma sempre presenti) del passato che permettono loro di andare avanti, in una vita che non ha certo irriso alle loro aspettative.

Presentazione Critica

Voci lontane… sempre presenti è il secondo capitolo, insieme a Terence Davies Trilogy (1976-1983) e Il lungo giorno finisce (1992), di una trilogia autobiografica che il regista Terence Davies ha dedicato a se stesso, alla sua famiglia, al ceto sociale, operaio e proletario, di appartenenza. Un racconto autobiografico, ma che ben rispecchia una fetta consistente della società inglese vista nella sua più radicale essenza: forza del nucleo familiare, patriarcato violento, cieco e bigotto clericalismo, discriminazione del diverso, ruolo della memoria come radice dell’esistenza. Di questi tre film, Voci lontane… sempre presenti è forse quello che meno si occupa di infanzia e adolescenza. Ne parla molto di più Trilogy (nella prima parte dedicata all’infanzia del regista) e soprattutto Il lungo giorno finisce, dove protagonista, Bud, è un piccolo ragazzino di undici anni. Tuttavia, questo film è senz’altro la pellicola che con maggior puntualità tiene legate l’una all’altra le età della vita e mostra quanto il periodo formativo di una persona influenzi e determini i pensieri, le scelte, i giudizi da adulto. Il titolo ci segnala il primo elemento di riflessione: pur lontane nel tempo, le voci del passato – gli episodi tremendi della vita, i piccoli momenti di quotidiana serenità, gli scontri, le fughe, i ritorni, gli odi e gli amori – sono sempre attuali e vive, non solo perché rappresentano il bagaglio esistenziale delle persone, ma perché danno senso alle scelte e soprattutto agli stati d’animo del presente. Eileen, Maisie e Tony, nonostante il rapporto conflittuale con il padre, piangono lacrime di nostalgia ai loro rispettivi matrimoni perché vorrebbero che lui fosse con loro. Poco importa se li ha picchiati da piccoli, se ha maltrattato la madre, se non ha mai dimostrato amore. Anche quando il proprio padre è violento, egoista e prepotente – questo sembra l’assunto del regista – esiste una relazione ancestrale e atavica che fa sì che nei momenti più importanti della vita dell’individuo lo si vorrebbe al proprio fianco. Non a caso, madre, figli e amici si incontrano (e si scontrano) solo in occasioni celebrative, dove è la famiglia come nucleo istituzionale a doversi presentare con il vestito buono: matrimoni, funerali, battesimi si alternano per permettere ai protagonisti di ricordare a voce – perché la struttura del film non è costruita su flash back e quindi non sono i protagonisti a rammentare gli eventi – i pochi momenti sereni della vita con il genitore. Nella funzione mnemonica si palesa l'influenza dell’infanzia: ricordata dagli adulti a distanza di troppo tempo, essa è rivestita dei colori tenui della nostalgia e quindi sembra ricevere una mansione che le è propria, ma che raramente è apertamente manifestata: quella di migliorare il passato, di edulcorarlo, per superare i dolori dell’esistenza. Ecco allora che alla scena dell’albero di Natale, in cui il padre in un raro momento di dolcezza fa in modo che la famiglia passi una serena festività, è attribuita molta più importanza di quelle di ordinaria violenza. In altre parole, i pochi momenti felici dell’infanzia – verso la quale gli adulti vedono con lenti deformanti – sembrano essere molto più importanti grazie alla loro funzione consolatoria. Il congiungimento e lo stretto legame delle età, dicevamo, non è basato su flash back, ma su una costruzione narrativa unitemporale, su una dimensione che lo spettatore percepisce come unica. L’alternarsi di scene dell’infanzia (la notte di Natale, i bombardamenti) a quelle della giovinezza dei tre ragazzi (le uscite per andare a ballare, il servizio militare di Tony) passando attraverso le scene di maltrattamenti del padre oppure quelle della sua malattia non è guidato da logiche cronologiche. Sembra di assistere piuttosto all’accumulo di episodi disordinati che non è importante saper collocare in un punto preciso della cronistoria famigliare. Terence Davies dà voce così all’idea di un destino segnato e immutabile che opprime i personaggi. Gli incontri collettivi attorno ad una celebrazione della vita e l’insieme corale delle canzoni sono l’unica valvola di sfogo dell’individuo, l’unico modo per trovare la forza della sopravvivenza: la spensieratezza delle canzoni spezza le infelicità dei singoli, la loro consapevolezza che nulla può cambiare e che, lungi da qualsiasi Dio consolatore, nulla cambierà. Il regista, anche grazie ad una splendida fotografia, dà sfogo ad una visione della vita cupa e malinconica dove neanche il recupero dell’infanzia (come nel successivo Il lungo giorno finisce) può alleviare una condizione di vita, quella dei proletari inglesi, che mai come in questo caso è stata rappresentata così lucidamente. Con pochi tratti, ma efficaci. Marco Dalla Gassa