Per De Sica, ma soprattutto per Zavattini, i bambini erano vittime innocenti della crudeltà e dell'ingiustizia del mondo adulto. Tale prospettiva, non particolarmente originale, è già rintracciabile (a partire dal titolo) in I bambini ci guardano, prima produzione che vede lavorare fianco a fianco regista e sceneggiatore. Qui il bambino di turno, Pricò – per interpretare il quale, il piccolo Luciano De Ambrosis non si discosta da una certa artificialità recitativa tipica del cinema italiano del Ventennio – è vittima dello sfaldamento di una famiglia della piccola borghesia ligure. Sarà, tuttavia, dopo la fine della guerra e con l'inizio del neorealismo, che tale visione dell'infanzia andrà di volta in volta sedimentandosi: Bruno, il bambino protagonista di Ladri di biciclette è vittima di una famiglia povera e – soprattutto – di una condizione sociale che lo costringe a lavorare presso una pompa di benzina per portare a casa le quattro lire necessarie alla sopravvivenza dei genitori; Pasquale e Giuseppe, i due Sciuscià dell'omonimo film, finiscono in un vortice di ingiustizie e prevaricazioni messo in piedi, senza differenze di sorta, da criminali, poliziotti, giudici, guardie del carcere, avvocati e genitori; nei due episodi dedicati all'infanzia del film a episodi L'oro di Napoli , in un caso il bambino è già morto (si racconta infatti la storia di una madre che ha perso il figlio in fasce), nell'altro Gennarino, il figlioletto di un portinaio, è costretto a giocare a carte con un nobile decaduto interpretato dallo stesso De Sica: in questo caso il bambino accetta, quasi con rassegnato fatalismo, gli infantilismi dell'adulto. È proprio l'immaturità degli adulti, controbilanciata da una precoce e consapevole saggezza di bambini e adolescenti, a caratterizzare l'altro aspetto – certamente più originale – della rappresentazione cinematografica desichiana. Rispetto ai soliti bambini prodigio dello schermo – per intenderci quelli del cinema classico americano degli anni trenta – Bruno, Pasquale, Antonio e Gennarino non possiedono qualità eccezionali, non sono né buoni, né belli, né bravi, ma sono dotati in compenso di un equilibrio invidiabile, di un senso della misura maggiore e più radicato rispetto a quello degli adulti. Si pensi alla calma di Bruno, al suo pianto appena accennato con cui convince la folla a non denunciare il padre, alla sua dignità anche dopo essere stato ingiustamente rimproverato dal padre; oppure al senso della misura e alla cura amorevole verso il loro cavallo bianco di Antonio e Pasquale o, come già affermato poc'anzi, alla maturità del bambino protagonista di L'oro di Napoli e alla sua accondiscendenza verso le bizze del suo interlocutore. In una visione dell'infanzia e dell'adolescenza così seria e pessimista, spicca – per dissonanza – la caratterizzazione di Totò, protagonista del film Miracolo a Milano, un giovane barbone pieno di senso dell'umorismo, ottimismo e felicità, sentimenti certamente assenti negli altri personaggi desichiani del periodo. L'inversione di tendenza, in realtà, è solo apparente: il registro fiabesco del film, l'educazione materna al fantastico (si pensi alla scena iniziale del latte) e il carattere extrasociale della comunità di barboni che vivono in una baraccopoli fuori della città, rendono lo sguardo ottimistico di Totò una specie di eccezione alla regola. Non a caso, quando il “dio denaro” corrompe il piccolo e felice convivio di barboni, la spensierata ed infantile vitalità di Totò non saprà evitare il disastro, anzi per certi versi lo favorirà. Non resta altro da fare, a questo punto, che cavalcare una scopa e volare via, sopra il Duomo di Milano: il “miracolo” dimostra che, insieme al diritto al fantastico, è purtroppo impossibile vivere in un luogo che sia estraneo alle dinamiche capitalistiche e, per quanto riguarda i bambini, nel quale poter crescere tutelati da forme eccessivamente precoci di responsabilizzazione e forme di sfruttamento più o meno gravi.
Marco Dalla Gassa