L’idea di cittadinanza tra i giovani figli di immigrati
Colombo, Domaneschi, Marchetti Milano, Franco Angeli, 2009 Lo sviluppo dei processi migratori e la presenza sempre più numerosa dei figli di immigrati nati in Italia o qui giunti da piccoli impongono un ripensamento dell’idea di cittadinanza e delle modalità giuridiche della sua concessione a chi non discende da italiani per nascita. Da questa constatazione muove la ricerca di cui si dà conto nel volume
scritto da Enzo Colombo, Lorenzo Domaneschi e Chiara Marchetti, nel cui ambito è stato intervistato un campione di giovani figli di immigrati e per la cui realizzazione si è fatto riferimento anche a dati raccolti in precedenti indagini. Una volta delineato in modo sintetico il ventaglio delle posizioni teoriche che animano il dibattito attuale su cittadinanza e multiculturalismo, l’attenzione si concentra sul nodo che lega seconde generazioni e cittadinanza. Scartata l’opzione assimilazionista, secondo la quale la cittadinanza rappresenta uno status il cui mancato riconoscimento può rallentare o impedire il processo di assimilazione, nel testo si opta per una prospettiva che valorizzi le dimensioni pratiche e culturali della cittadinanza. Ciò consente di rilevare il ruolo attivo delle seconde generazioni di fronte alla questione del riconoscimento e dell’appartenenza: esse a ben guardare non sono semplici riproduttori delle differenze di cui sono portatori i genitori oppure soggetti malleabili che si adeguano passivamente ai modelli culturali della maggioranza nazionale. A prima vista l’approccio al tema della cittadinanza da parte degli intervistati pare strumentale. La sua acquisizione è utile anzitutto per guadagnare una maggiore mobilità internazionale, consentendo viaggi più agevoli nel Paese d’origine dei genitori o altrove, per turismo e per esigenze formative. Grazie a essa vengono poi evitate le umilianti fatiche burocratiche connesse al rinnovo del permesso di soggiorno. A ciò si aggiunge l’accesso alle possibilità occupazionali riservate, soprattutto nell’amministrazione pubblica, ai nazionali. Ma, a ben vedere, questi aspetti coesistono nelle interviste con una valutazione sui requisiti necessari per la concessione della cittadinanza, che di fatto riproduce il discorso pubblico in corso. I giovani ritengono che la cittadinanza non debba esser concessa solo in base a una determinata durata della residenza in Italia: lo straniero dovrebbe pure conoscere sufficientemente la lingua e la cultura italiane, non avere precedenti penali e, secondo alcuni, avere una salda situazione lavorativa. La sofferenza per le discriminazioni subite si trasforma così nel rifiuto di politiche concessive, che premierebbero indebitamente anche chi non ha fatto, come questi ragazzi, la fatica di integrarsi, lottando giorno dopo giorno per guadagnarsi un’italianità culturale, prima ancora che giuridica, sui banchi di scuola come nel mondo del lavoro. Un’italianità dai contorni non così netti, dal momento che deve poter coesistere con il legame irrinunciabile con il Paese d’origine della famiglia, anche se conosciuto per interposta persona o in maniera limitata. L’acquisto della cittadinanza sancisce dunque il riconoscimento di una presenza stabile sul territorio e funge anche da titolo di inclusione in una comunità transnazionale a cui le nuove generazioni europee sentono di appartenere. Ciò non esclude la rivendicazione del diritto a partecipare pienamente alla vita civile e politica del Paese, anche se questa non è la motivazione prevalente nelle richieste di cittadinanza avanzate dagli intervistati. Consapevoli del fatto che l’acquisizione della cittadinanza da sola non sbaraglia i pregiudizi e gli stereotipi nei confronti di chi non è italiano di origine, i giovani delle seconde generazioni dell’immigrazione – come preferiscono essere chiamati – hanno dato vita a una serie di vivaci realtà associative, illustrate in chiusura del volume, cui il mondo politico ha da poco cominciato a dare segnali di ascolto.