regia di Debra Granik
(USA, 2010)
Sinossi
Ree ha diciassette anni e vive con la sua famiglia in una zona boschiva del Missouri. La ragazza accudisce due fratelli minori e una madre disabile mentale, riuscendo a stento a sfamarli grazie a quel poco che riesce a trarre dalla caccia e dalla raccolta di legna nei pochi acri di bosco di proprietà della famiglia. Quando suo padre Jessup, arrestato per produzione di stupefacenti, esce su cauzione impegnando casa e terreno per poi scomparire nel nulla, la famiglia rischia di perdere tutto. Per Ree, che ha già rinunciato alla sua adolescenza a causa delle responsabilità di cui s’è fatta carico, incomincia la ricerca del padre, coinvolto in un regolamento di conti tra i malavitosi del posto. La ragazza ricostruisce il percorso compiuto dal genitore parlando con i membri della piccola comunità montana i cui componenti, tuttavia, sono coinvolti allo stesso modo nel traffico di droga. I legami di sangue che uniscono Ree alla maggior parte di coloro che contatta per far luce sulla fine del padre non le semplificano il compito, dato che nella comunità vige diffidenza ed omertà. Per ottenere prima le informazioni sul luogo in cui si nasconderebbe il genitore e poi la prova della sua morte, la ragazza dovrà soffrire e rischiare non poco, aiutata da suo zio Teardrop, l’unico disposto a sostenerla.
Il ruolo del minore e la sua rappresentazione
Un film a cavallo tra fiaba nera e denuncia sociale
Quella che emerge da Un gelido inverno, il film di Debra Granik vincitore della 26° edizione del Sundance Film Festival e della 29° edizione del Torino Film Festival, è un’America pressoché sconosciuta, evitata dal cinema mainstream, lontana tanto dai panorami metropolitani quanto dai grandi paesaggi naturali che hanno fatto la fortuna dell’industria dello spettacolo più importante al mondo. Pur esitando a incasellare Un gelido inverno nel genere thriller (soprattutto per il taglio semidocumentaristico dato a talune parti del film e per l’incisività della rappresentazione di una comunità degradata e violenta), quella mostrata è un’America gotica, vicina a quella descritta in molti film horror statunitensi, popolata da enclave tribali, ancora legate all’istinto feroce dei pionieri.
Il film della Granik è, piuttosto, una fiaba nera – che il titolo originale, Winter’s Bone (t.l. “Le ossa dell’inverno”) rende molto meglio di quello italiano – raccontata attraverso un realismo dimesso, frutto dell’osservazione di una quotidianità misera ma in fondo dignitosa, pronto a squarciarsi in improvvisi scatti di violenza ogni volta che la protagonista tenta di forzare caparbiamente la legge non scritta del clan. In Un gelido inverno contano, infatti, più i volti consumati dalla droga e incattiviti dall’isolamento, i toni cupi scelti per la fotografia capace di svelarci un paesaggio bello e al tempo stesso ostile, le ambientazioni poverissime e la descrizione minuta della realtà in cui vivono i personaggi, la rappresentazione opaca, affidata più al non detto e al non visto, dei rapporti interni alla comunità, che non l’intreccio in sé. Il racconto, capace di alternare momenti di intensa intimità tra Ree e i fratelli e una vicenda che non offre colpi di scena sensazionali ma che nel finale – del tutto realisticamente – apre il film a un barlume di speranza in un futuro appena migliore per la protagonista e i suoi fratelli, è un miracolo di equilibrio tra realismo ed astrazione.
Il personaggio di Ree – splendidamente interpretato da Jennifer Lawrence – è una sorta di piccolo ingranaggio di quel sistema perverso basato su rapporti di forza e sospettosi silenzi, che decide di girare al contrario, a tutela di un’umanità e di una dignità che ne fanno una contraddizione vivente in seno ad un gruppo di adulti sordi a qualsiasi legge morale o principio etico, nessuno dei quali può quindi costituire per lei un punto di riferimento. L’unico personaggio cinematografico con il quale è possibile istituire un parallelo è quello, pur diversissimo e geograficamente distante, della protagonista di Rosetta dei fratelli Dardenne: in Ree distinguiamo la medesima disperazione e caparbietà, la stessa solitudine diffidente e orgogliosa, forse con in più la speranza, dettata dalla presenza al suo fianco dei fratelli minori e di una comunità di donne che, sia pur brutalmente, nel finale deciderà di aiutarla. È attraverso questo sguardo tutt’altro che ingenuo che il film ci consegna alcuni piccoli, illuminanti squarci sula realtà della provincia statunitense. Nel corso di una lunga e silenziosa sequenza, mentre aspetta l’uscita da scuola dei fratelli minori, Ree osserva i suoi coetanei più fortunati impegnati nello studio o in discipline sportive dalle quali lei, giovanissima madre-sorella, è esclusa, ma anche le ragazze, forse meno fortunate di lei, già madri e impegnate in corsi di avviamento al parto, oppure coinvolte in esercitazioni paramilitari. Poco dopo la vediamo fare richiesta di arruolamento nel contingente in Iraq per ottenere il compenso in denaro previsto per i volontari, in un tentativo disperato di risolvere così i problemi della sua famiglia e sottrarsi all’ambiente malsano che la circonda.
Attraverso poche inquadrature rapide il film descrive le perverse dinamiche sociali innescate da un sistema che colloca ai margini coloro che nascono all’interno di contesti degradati: abbandono scolastico, gravidanze precoci e precocissime (negli Stati Uniti sempre più emergenza sociale), l’arruolamento volontario come soluzione dei problemi economici sono aspetti di un mondo sul quale il cinema posa raramente il suo obiettivo. È proprio grazie a questa straordinaria capacità di declinare uno sguardo estremamente realistico sulla società statunitense all’interno dei paradigmi tipici della narrativa americana (l’horror attraverso l’ambientazione “gotica”, il western, ben rappresentato dal percorso di ricerca compiuto da Ree) che Un gelido inverno riesce a ricomporre simbolicamente la frattura prodotta nella famiglia di Ree dalla scomparsa del padre. Con il ritrovamento del corpo del padre, sorta di fantasma incombente per tutta la durata del film e il riavvicinamento allo zio Teardrop, unico capace di provare ancora sentimenti e intenerirsi, l’adolescente Ree può finalmente crescere riconciliandosi con un padre divenuto reale, sottratto al non visto, al non detto e al non dicibile che costituiscono, come detto, parte importante del fascino del film. Elaborando il lutto per la perdita del genitore, di fatto Ree diventerà capofamiglia, una figura di giovane donna incapace di accettare di vivere la propria vita all’ombra dei sotterfugi e delle umiliazioni a cui la sottopone il gruppo dominante ma probabilmente neanche disposta a cercare soluzioni tanto simili alla fuga attraverso l’arruolamento o un matrimonio precoce.
Riferimenti ad altre pellicole
Si è già detto della vicinanza della protagonista con il personaggio di Rosetta nel film omonimo dei fratelli Dardenne, tuttavia Ree può trovare una sua simile per determinazione e caparbietà nel perseguire i propri obiettivi all’interno di uno scenario ostile e selvaggio (questa volta pienamente western) nel personaggio di Mattie, la ragazzina che cerca giustizia a tutti i costi per il padre in Il Grinta (True Grit) nelle due versioni dei fratelli Coen (USA 2010) e di Henry Hathaway (USA 1969).
Un analogo carico di responsabilità da sopportare e di pericoli da correre lo ritroviamo nella figura di Liam, protagonista di Sweet Sixteen (Gran Bretagna, 2002) di Ken Loach, anche lui circondato da adulti coinvolti in loschi affari: in questo caso, al contrario di Ree, il ragazzino tenta di sistemare la situazione facendosi coinvolgere in un traffico di stupefacenti più grande di lui, il tutto in vista dell’uscita dal carcere della madre e nella speranza di una vita migliore per sé e per i suoi fratelli. Affiancato a tale pellicola e ad altre simili come, ad esempio, i molti film italiani che narrano vicende di mafia e di camorra (esemplari, a tal proposito, i film di Antonio Capuano Vito e gli altri e Luna rossa) o di comune criminalità (si pensi a Io non ho paura di Gabriele Salvatores), Un gelido inverno può costituire un utile strumento di riflessione sul rapporto tra giovani e legalità, in particolare quando è proprio il nucleo familiare a costituire il maggiore ostacolo al rispetto delle regole o, peggio, a instradare i giovani protagonisti verso una futura carriera criminale.
Un gelido inverno, dunque, si inserisce all’interno di una ipotetica galleria di film capaci di innescare una riflessione sulla possibilità di salvarsi da una condizione sociale che sembra non offrire possibilità di riuscita, ma anche, a questo punto, dal proprio nucleo famigliare, come in 8 Mile (Usa 2002) di Curtis Hanson, storia urbana di un giovane operaio la cui madre è alcolizzata o, sia pure con toni molto più leggeri e malinconici e all’interno di uno scenario di provincia, Buon compleanno M. Grape (What’s Eating Gilbert Grape, USA 1993) di Lasse Hallström nel quale il giovane protagonista decide alla fine di lasciare la propria famiglia disfunzionale.
Il tono complessivo della pellicola, la crudezza di alcune scene e il contenuto dei temi affrontati suggeriscono la visione di Un gelido inverno esclusivamente per gli studenti degli ultimi due anni della scuola secondaria di secondo grado.
Spunti didattici
Un gelido inverno è una “fiaba nera” ispirata al cinema di genere americano ma anche un film capace di dare, in alcune sue parti, una rappresentazione quasi documentaristica della realtà sociale statunitense e, in particolare, dei giovani che vivono in condizioni di arretratezza e degrado. Può essere interessante tentare un parallelo con la situazione italiana ed europea più in generale, ovvero individuare le cause sociali ed economiche di tali condizioni (nonché gli eventuali provvedimenti presi per migliorarle) al di qua e al di là dell’Atlantico.
Altro tema importante è quello dell’assunzione precoce di responsabilità da parte dei minori e la richiesta di ascolto da parte degli stessi spesso inesaudita dal mondo adulto. La visione del film può costituire un valido supporto per riflettere sulla costruzione dell’identità da parte dei ragazzi all’interno di contesti sociali e familiari difficili se non ostili.