regia di Romain Goupil
(Francia, 2011)
Romain Goupil è partito da una domanda semplice ma intelligente per mettere a punto la sceneggiatura di Tutti per uno: come guarderemo tra cinquant'anni alla situazione politica e sociale dei nostri giorni, in particolar modo alle scelte su questioni come l'immigrazione, l'integrazione degli stranieri nella nostra società, il multiculturalismo che tanta parte hanno all'interno dei dibattiti culturali, delle discussioni quotidiane, delle decisioni politiche in Europa e non solo? Il film rievoca il clima di questi anni (l'azione si svolge nel 2009) attraverso le parole dell'anziana Milana che, nelle prime sequenze collocate cronologicamente nel 2067, parla della sua condizione di bambina cecena immigrata illegalmente nella Francia di Sarkozy. È una prospettiva inversa, capace al tempo stesso di trasfigurare e relativizzare il presente, al punto che Milana può permettersi di affermare di sfuggita, rievocando i fatti della sua infanzia, "non ricordo chi fosse presidente all'epoca", a rafforzare la sensazione di transitorietà (e il velleitarismo) di certe decisioni politiche, per non dire delle personalità che le incarnano. Una prospettiva inversa anche perché, a parlare di immigrazione in questo film sono soprattutto i bambini, eterni protagonisti di un cinema francese che, a differenza di altre cinematografie, è sempre riuscito a raccontare la realtà del suo tempo narrando le vicende di bambini e adolescenti e, soprattutto, facendolo dal loro punto di vista.
Insieme al coetaneo Blaise, alla sorella minore di questi e ad altri compagni di scuola di diversa provenienza etnica, l'undicenne Milana vive con la famiglia a Parigi nel 18° arrondissement: la piccola banda gode della spensieratezza di quell'età che non è più infanzia ma non è ancora adolescenza, dei primi spazi di libertà concessi dalle famiglie, del piacere delle prime, innocenti trasgressioni, fino a quando la dura realtà degli adulti non irrompe sulla scena. Quando con il varo della politica dei rimpatri forzati uno dei membri del gruppo - il nordafricano Yussef - viene espulso dalla Francia insieme ai genitori, i ragazzini incominciano a pensare che la prossima vittima della legge voluta dal governo francese potrebbe essere la stessa Milana che, complici le vacanze estive, viene ospitata dalla famiglia di Blaise nella casa di campagna in Bretagna, lontano da Parigi e dal clima asfissiante che aleggia in città. Al rientro dalla villeggiatura, tuttavia, la situazione non è mutata, anzi: una donna immigrata si toglie la vita per non essere presa dalla polizia, i controlli si fanno sempre più stringenti, con incursioni degli agenti persino all'interno della scuola. La banda, allora, fa ricorso alla più classica ed estrema forma di protesta messa in atto dall'infanzia che, ben presto, dilaga in tutta la Francia sotto la spinta della notizia diffusa da tutti i media: fuggire di casa, nascondersi, privare gli adulti della loro presenza per far comprendere loro quanto assurda sia la vita quotidiana senza bambini.
A metà strada tra il film di denuncia e la fiaba, Tutti per uno sorprende soprattutto per la leggerezza del tocco con cui affronta il problema dell'immigrazione: il film non lascia fuori campo le azioni cruente della polizia, la disperazione dei migranti sfollati dalle loro abitazioni, la rabbia di quanti non condividono una politica fondata più sulla paura che sul buon senso, ma allo stesso tempo filtra questi momenti drammatici attraverso gli sguardi dei giovani protagonisti che, a differenza degli adulti (capaci di polemizzare anche se schierati dalla stessa parte) riescono sempre a trovare un terreno di condivisione e soprattutto di azione concreta. La forza del film sta nel proporre una dicotomia originaria in termini non banali: da una parte il mondo degli adulti con le loro utopie (positive come quella di Cendrine, la madre di Blaise, che difende a spada tratta la scelta dei bambini), la loro demagogia (quella razzista del governo francese), i loro mezzucci (il padre di Blaise che vorrebbe far regolarizzare Milana ricorrendo ad amicizie presso il Ministero degli interni), i loro pregiudizi (come quelli del fratello di Cendrine che accusa la sorella di strumentalizzare i bambini), dall'altra quello dei bambini capaci di atti di coraggio e solidarietà, tuttavia presentati come parte di un gioco - per altro serissimo - capace di estendersi ad ogni aspetto della quotidianità, come una seconda natura che non ha bisogno di commenti, legittimazioni o consacrazioni. La piccola resistenza messa in atto dai ragazzini si attua attraverso una serie di idee e strumenti che solo un immaginario fanciullesco è capace di concepire (e al quale Goupil aderisce con entusiasmo): le suonerie "a ultrasuoni" dei cellulari udibili solo dalle orecchie dei bambini per comunicare segretamente, i più tradizionali bigliettini passati di mano in mano durante le lezioni, un nascondiglio rifornito di provviste sui generis (patatine, cioccolata, succhi di frutta e poco altro) ma privo di servizi igienici, stratagemmi ingegnosi come il pepe sparso per nascondere le tracce della fuga all'olfatto dei cani poliziotto. Giochi fanciulleschi, apparentemente ingenui che, tuttavia, sono parte essenziale di un'educazione alla futura vita adulta.
A colpire, sul piano più strettamente cinematografico, è la grazia e la semplicità con cui i personaggi si muovono davanti alla macchina da presa, alternando momenti di spensieratezza e divertimento (come nelle sequenze della vacanza in Bretagna) ad altri di nostalgia e riflessione (come in quelle della permanenza nell'improbabile rifugio segreto), capaci di aprirci gli occhi su un mondo infantile che in poche altre occasioni è riuscito ad affacciarsi dallo schermo cinematografico con lo stesso convincente realismo. Anche in questo caso vengono alla mente, per tentare un paragone, per istituire un parallelo, soltanto titoli di film francesi: Stella di Sylvie Verheyde, La classe di Laurent Cantet per il recente passato, I quattrocento colpi e Gli anni in tasca di François Truffaut ma anche La guerra dei bottoni di Yves Robert nel secondo dopoguerra e, addirittura, Zero in condotta di Jean Vigo per il periodo tra le due guerre mondiali. Film capaci, ognuno a suo modo, di mettersi al servizio dell'infanzia, di fare cinema non sui bambini ma con i bambini, centrando su di loro, sulle loro esigenze e sui loro ritmi il racconto, l'inquadratura, la recitazione. Una scelta (o, come avrebbe detto Truffaut, un "partito preso formale") che emerge chiaramente dal ricorrere in più punti del film di una sequenza emblematica, quella in cui vediamo i genitori di Blaise accompagnare a scuola il figlio e la sua amica Milana. L'immagine è quella classica di una famiglia a passeggio per le strade della città, con padre e madre ai due lati dell'inquadratura e i bambini nel mezzo, con la macchina da presa che, indietreggiando, precede pazientemente il gruppetto registrando le espressioni dei volti e gli scambi di battute tra i personaggi. L'inquadratura, tuttavia, è significativamente spostata verso il basso, centrata sui volti dei bambini, a escludere dall'immagine i due genitori che restano fuori dal campo visivo, semplici presenze acustiche che fanno da spalla ai discorsi dei più piccoli, da rimando parziale alle espressioni dei loro volti.
Un'ultima notazione è doveroso dedicarla alla traduzione del titolo del film: quel Tutti per uno che alle orecchie dello spettatore italiano rimanda immediatamente alla Francia, ai moschettieri di Dumas e agli ideali di coraggio e lealtà da essi incarnati (del resto tutt'altro che estranei ai protagonisti del film) è un piccolo tradimento del senso del titolo originale, Les mains en l'air che, nel finale del film trova la sua motivazione. Terminata la loro protesta, uscendo dal loro rifugio i ragazzini vengono fuori con le mani in alto: è un segnale di resa rivolto ai poliziotti che li hanno perseguitati per tutta la durata del film, di protesta verso un sistema che criminalizza una condizione dell'individuo (la clandestinità) e non il suo agire più o meno conformemente alla legge, ma anche il segnale di una presenza che non si arrende, di una volontà di partecipazione alla vita civile di un Paese. Presenza e volontà di cui gli adulti spesso (quasi sempre) non vogliono ammettere la necessità e il bisogno ma che, anche grazie a film come questi, si dimostrano sempre più necessarie ed urgenti.
Fabrizio Colamartino
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