Etude sur la découverte de l'image de soi chez l'enfant
di René Zazzo
(Francia, 1973)
Sinossi
Il documentario, incentrato sulla scoperta dell’immagine riflessa nella prima infanzia, registra le reazioni di 14 coppie di gemelli (sette monozigoti e altrettanti eterozigoti) di età compresa tra i 10 e i 33 mesi poste di fronte ad un dispositivo grazie al quale in una prima fase ciascuna coppia si trova separata da un vetro e, successivamente, ognuno dei soggetti viene messo di fronte a uno specchio. La sperimentazione, messa a punto nel 1973 dall’equipe di René Zazzo, prevede anche prove come quella della macchia sul naso e della luce intermittente, divenute in seguito dei capisaldi nello studio dell’identificazione speculare nella prima infanzia, vere e proprie prove empiriche degli stadi che sottendono la cosiddetta “fase dello specchio”. Tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta del secolo scorso si affermò in Francia la filmologia, una teoria in campo cinematografico che, basandosi sulla convergenza di diverse discipline (psicologia, psicanalisi, estetica, linguistica, eccetera) si proponeva di analizzare il cinema soprattutto dal punto di vista del suo funzionamento in quanto dispositivo psicologico-percettivo, come meccanismo che, di volta in volta, coinvolge lo spettatore sul piano della percezione, della comprensione, della memorizzazione, della partecipazione empatica e così via. L’apporto della psicologia e della psicanalisi alla nuova disciplina fu determinante e maggioritario ma, ciò che qui importa notare, è che alcuni dei contributi più interessanti alla nuova disciplina vennero da studiosi di psicologia infantile tra i quali, per l’appunto, René Zazzo (1910-1995) che, insieme alla moglie Bianka, affrontò il problema della correlazione tra i diversi gradi di sviluppo mentale e le difficoltà di comprensione che presentano i vari elementi del linguaggio cinematografico[1]. Ma perché un così forte interesse da parte di studiosi di psicologia infantile nei confronti del cinema e dei suoi meccanismi? Molte delle situazioni con cui si confronta lo spettatore nel buio della sala cinematografica coincidono con le esperienze percettive che caratterizzano i primi anni della vita infantile. Al cinema ci si ritrova in uno stato di ridotta motricità e di accresciuta percezione visiva dovuto all’impossibilità (o quasi) di abbandonare la sala e all’incombere delle immagini che invadono totalmente il campo visivo saturandolo, proprio come accade ai bambini di pochi mesi posti di fronte ad uno specchio, ancora incapaci di muoversi ma capaci di reagire (con uno spettro di reazioni che vanno dal giubilo all’evitamento al riconoscimento più o meno consapevole) alla propria immagine. Si sperimenta, insomma, una condizione di identificazione con ciò che accade sullo schermo simile per molti versi alla “fase dello specchio” così come è stata descritta da Henry Wallon nei suoi studi sulla percezione del Sé nella prima infanzia e rielaborata criticamente da Jacques Lacan. Non è certamente un caso se ampi riferimenti alla “fase dello specchio” siano presenti nei testi di autori che, pur senza far capo direttamente alle teorie filmologiche, hanno incentrato i loro studi sulla profonda valenza psicologica e psicanalitica dell’esperienza cinematografica. Su tutti Christian Metz che, riassumendo molti dei contributi precedenti, ha elaborato una lucida riflessione sul rapporto che lo spettatore intrattiene con lo schermo, su come durante quest’esperienza ritrovi quell’Io ideale e immaginario incontrato nel suo primo confronto con lo specchio e che, con la crescita, aveva via via dimenticato. Lo schermo cinematografico, in fondo, è molto simile allo specchio, essendo una superficie riflettente che delimita l’immagine separandola dal continuum spaziale della normale percezione. Nello specchio il bambino individua per la prima volta un’immagine (quella del proprio volto e della totalità del proprio corpo, le uniche a proporsi originariamente e radicalmente in quanto immagini dato che, in condizioni normali, risultano invisibili all’osservatore) ed è portato a identificarsi con essa sentendosi per la prima volta separato da quel mondo rispetto al quale non percepiva alcuna discontinuità, assegnando al proprio Io una valenza immaginaria, allontanandosi da esso e relegandolo in una posizione di assenza. Lo spettatore, immerso nella visione in sala, in qualche modo rivive quella condizione: poco importa che sullo schermo non ci sia la sua immagine (quella del suo volto o del suo corpo), l’operazione che deve comunque compiere è confrontare un’immagine con cui è chiamato a identificarsi dai meccanismi narrativi e linguistici del film con quella mentale che ha di se stesso. I personaggi che agiscono sullo schermo sono sfuggenti quanto la sua immagine allo specchio, immedesimarsi con essi vuol dire, in fondo, guardarsi da un diverso punto di vista. Ma non solo: al di là dei meccanismi di identificazione secondaria (con questo o quel personaggio), anzi prima di essi, agisce un’identificazione primaria con il film in quanto dispositivo che lavora fin dal principio proprio su un meccanismo di presenza/assenza (l’oggettività irrecusabile delle immagini contrapposta all’altrettanto innegabile “latitanza” dei referenti reali) molto simile a quella provata la prima volta davanti allo specchio. La figura di René Zazzo è, tra tutte quelle che contribuiscono ad animare il dibattito filmologico, una delle più interessanti perché la sua significativa produzione saggistica (che, come abbiamo visto, “sconfina” proficuamente anche nel campo della teoria cinematografica) si affianca ad un’attività sperimentale orientata a determinare quando e soprattutto come si strutturi nel bambino la piena consapevolezza del sé in relazione alla visione della propria immagine riflessa in uno specchio. Allievo di Wallon – un altro grande studioso di psicologia che contribuisce significativamente al dibattito filmologico – tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta Zazzo analizza a fondo il tema dell’identità da un punto di vista molto particolare e complesso, quello dei gemelli (nei quali l’identità è resa problematica dall’identicità) e riprende il discorso sulla “fase dello specchio” incominciato dal suo maestro perfezionandolo attraverso l’individuazione di una serie di tappe che conducono gradualmente il bambino all’individuazione dell’immagine speculare in quanto riflessa, ovvero virtuale. Á travers le miroir - Etude sur la découverte de l'image de soi chez l'enfant (regia di Jean-Pierre Dalle) è la testimonianza filmata degli esperimenti che condussero all’individuazione delle tappe dello sviluppo del Sé condotti su alcune coppie di gemelli di età compresa tra i 10 e i 33 mesi e che lo stesso Zazzo descrive nel secondo capitolo del suo libro "Riflessi – Esperienze con i bambini allo specchio" come “dispositivo vetro-specchio”[2]. I bambini vengono posti prima davanti ad uno specchio e poi di fronte ad un vetro al di là del quale si trova il fratello gemello, successivamente sono sottoposti alla cosiddetta prova della macchia (viene applicato un segno colorato sul naso del bambino che, in seguito, è posto davanti ad uno specchio per capire quando scatti l’intuizione che la macchia si trova sul suo viso) ed ancora alla prova della luce intermittente (una luce lampeggia alle spalle del bambino posto di fronte allo specchio per osservare se riesce a comprendere che la fonte luminosa si trova alle sue spalle e non davanti a lui). Sul piano strettamente scientifico l’esperimento di Zazzo porta alla conclusione che la costruzione del Sé attraverso l’immagine speculare – la cosiddetta “fase dello specchio” – è un processo molto più graduale di quanto non si supponesse in precedenza, strutturato attraverso una serie di stadi successivi che sono comuni a tutti i soggetti osservati e, soprattutto, che “[…] il bambino identifica la propria immagine quando prende coscienza del sincronismo tra il proprio movimento e il movimento della propria immagine riflessa nello specchio.”[3]. Ma ciò che qui è interessare notare è come in Á travers le miroir la macchina da presa non sia soltanto un mezzo per illustrare la ricerca effettuata e farla conoscere anche ad un pubblico di profani, ma un vero e proprio strumento di studio usato scientificamente per documentare ogni singola fase degli esperimenti ed osservare e confrontare con precisione le reazioni dei bambini. Una delle prime sequenze del documentario è dedicata all’esposizione del dispositivo messo a punto dall’equipe di Zazzo, compreso il complesso sistema di macchine da presa (disposte da entrambi i lati del dispositivo vetro-specchio in modo tale da rimanere invisibili agli occhi dei bambini), una sorta di candid-camera al servizio della ricerca. Ancora in "Riflessi", Zazzo sottolinea: “Le successive elaborazioni, dopo il montaggio del film […] si riferivano alla totalità delle inquadrature: 470, di cui 68 erano state selezionate per il film. Anne-Marie Fontaine ha effettuato una descrizione fotogramma per fotogramma dopo che abbiamo compilato una lista il più possibile completa dei comportamenti in ciascuna delle quattro situazioni sperimentali.”[4]. L’immagine ripresa dalla camera, dunque, entra a far parte a tutti gli effetti della pratica scientifica, diventa uno degli elementi determinanti per la riuscita degli esperimenti e il documentario rappresenta uno dei diversi risultati della ricerca. Quale importanza abbia assunto successivamente l’immagine filmata negli studi compiuti da Zazzo emerge appieno con quella che, ancora in "Riflessi" (capitolo 5), lo studioso definisce come “operazione video”. Si tratta di una controprova dei risultati ottenuti grazie al “dispositivo vetro-specchio”, ovvero di un esperimento in cui alcuni bambini vengono posti prima di fronte ad uno specchio e successivamente davanti a uno schermo televisivo sul quale passa la loro immagine “in diretta” e poi “in differita”,ovvero ritardata di alcuni secondi. In questo caso siamo di fronte ad un uso del mezzo filmico che travalica sia la semplice documentazione a scopo didattico/divulgativo, sia l’utilizzo con finalità scientifica, ovvero di registrazione dell’esperimento e di osservazione meticolosa dei risultati. Anche l’“operazione video” sfocerà in un documentario dal titolo C’est moi quand même (1976) e sarà seguita, fino ai primi anni Ottanta, da altre sperimentazioni analoghe, tutte registrate dalla macchina da resa e riproposte in altri due documentari dai titoli emblematici: L’image qui devient un reflet (1981) e Un autre pas comme les autres (1983).