regia di Lee Unkrich
(USA, 2010)
L’incipit di Toy Story 3 - La grande fuga è sconcertante: una vera e propria fuga, ma dalla realtà (quella domestica, familiare, a misura di bambino così ben descritta nei precedenti episodi della serie) che sembra mettere da parte il processo innescato fin dal primo lungometraggio nel 1995, ovvero quell’analisi molto puntuale delle caratteristiche e soprattutto dell’evoluzione del rapporto che si instaura tra un bambino e i suoi giocattoli. Si tratta di una fantasmagoria avventurosa che, mescolando i generi cinematografici più diversi (western, fantascienza, action movie, catastrofico, eccetera) colloca i giochi protagonisti del film in uno scenario indefinito, astratto, dove i colpi di scena più improbabili si susseguono senza soluzione di continuità e in maniera demenziale. In realtà, dopo pochi minuti scopriamo come tutto ciò a cui abbiamo assistito non sia altro che il parto della fervida fantasia di Andy (il piccolo proprietario dei giocattoli) impegnato a coinvolgere i suoi balocchi preferiti (Woody, Buzz, Mr. Potato e tutti gli altri) in un gioco che, attingendo a piene mani dall’immaginario cinematografico tipico di un bambino dei giorni nostri, riesce a dar corpo alla sua creatività. Il “ritorno alla realtà” è sancito da un drastico cambio di prospettiva, di punto di vista: l’improbabile avventura vissuta dai giocattoli è inquadrata attraverso l’obiettivo di una piccola videocamera che ci rivela Andy intento a inventare nella sua cameretta scenari ed azioni per i suoi amici inanimati. Il filmino di famiglia è una vera e propria finestra sul passato recente di un bambino che, nell’hic et nunc del racconto, è ormai diventato un ragazzo che con i suoi giocattoli non gioca più da tempo. Si respira aria di smobilitazione tra i protagonisti: Andy è in partenza per il college e il destino dei giocattoli sembra proprio essere quello di finire in soffitta, aspettando di venire riscoperti da un’altra generazione di bambini, magari i figli del loro primo proprietario. Toy Story 3, dunque, giunge a un punto di svolta definitivo: se nel primo episodio il tema era quello della volubilità dei bambini di oggi che, bersagliati dalla pubblicità, sono protagonisti di un consumismo che rimpiazza i suoi miti con grande facilità (il cowboy Woody sostituito dall’astronauta Buzz nel suo rapporto privilegiato con Andy) e nel secondo capitolo si delineava la tendenza da parte degli adulti a regredire verso l’infanzia attraverso la museificazione della fantasia e dell’immaginazione (Woody veniva rubato da un collezionista che intendeva venderlo a un museo giapponese), in Toy Story 3 il tema è quello della messa in discussione definitiva del ruolo dei giocattoli. Amici del cuore del bambino al quale sono stati donati, dopo aver sofferto la solitudine e l’abbandono durante gli anni dell’adolescenza di Andy, Woody e gli altri si ritrovano di fronte alla scelta tra il restare fedeli al loro amico umano, oppure abbandonarlo per continuare a giocare con altri bambini. Il resto dell’avventura ha come scenario unico dell’azione una scuola per l’infanzia alla quale i protagonisti vengono donati per errore, con tutte le prevedibili conseguenze del caso (i piccoli ospiti della struttura mettono a dura prova l’integrità delle “parti mobili” dei giocattoli e non solo di quelle) ma anche con una serie di imprevisti che permettono alla sceneggiatura di virare decisamente verso il film d’azione. I toni si fanno più cupi, ovviamente sdrammatizzati dalla comicità intelligente a cui ci hanno abituato gli autori, a conferma della tendenza, ormai decennale da parte delle produzioni, a sfornare film d’animazione che si propongono come prodotti dal target “trans-generazionale”, e che, aprendosi a diversi livelli di lettura, nel nostro caso svelano il lato più inquietante della vita dei compagni di gioco dei bambini. Nel personaggio del cattivissimo peluche Lot-so si addensano i fantasmi di un cuore spezzato dall’abbandono e dalla sostituzione nell’affetto della piccola proprietaria da parte di un “doppio”, di una copia identica in vendita nel più vicino supermercato. Il problema dell’identità dei giocattoli, prodotti di serie ma capaci di legarsi a un bambino in una sorta di imprinting che li segna per sempre, si complica ulteriormente: se in Toy Story si manifestava attraverso la rivalità tra Woody (giocattolo cosciente di essere tale e capace di mettere tale consapevolezza al servizio dell’immaginazione del suo proprietario) e Buzz (convinto, fin quasi alla fine del film, di essere un vero ranger spaziale) e in Toy Story 2 tra l’unicità di Woody, divenuto un pezzo da collezione introvabile e ancora Buzz, alle prese per metà del film con un doppio inconsapevole della propria natura seriale di giocattolo, in Toy Story 3 è proprio la capacità di rendersi unici, rimanere tali, e dunque amati da un bambino, a tenere banco. Per tutta la seconda parte del film i protagonisti lottano per sopravvivere, in bilico tra la loro natura di oggetti destinati come ogni cosa a essere “consumati” e quella di amici speciali dei bambini ai quali vengono donati: una posizione scomoda che diviene esiziale nel paradigmatico pre-finale del film quando il gruppo di giocattoli sta per essere inghiottito dall’enorme fornace di un inceneritore. Oggetti, dunque, ma capaci di ricoprire una funzione essenziale nella vita dei bambini, non solo entro la sfera dello sviluppo psico-intellettivo, ma anche in quella delle passioni, dei sentimenti, degli affetti. Alla fine i nostri eroi saranno ricompensati di tanta fatica e dei pericoli affrontati, scoprendosi ancora capaci di catturare, magari solo per pochi minuti, il loro proprietario in partenza per il college in un gioco fantasioso che ha il sapore del passaggio del testimone da un “bambino” a un altro e, forse, anche da questo al prossimo capitolo di quella che è ormai una vera e propria saga, probabilmente la più “giocosa” dell’intera storia del cinema.
Fabrizio Colamartino
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