Ten Minutes Older

20/07/2009 Temi Psicologia

di Herz Frank

(Lettonia, 1978)

 

Rivisitare il mito della caverna.

Una platea tutta di bambini per uno spettacolo di burattini con musiche di Ludgard Gedravichus. Il volto dei piccoli si illumina e si rabbuia con la stessa rapidità con cui, sulla scena, si sviluppano le alterne vicende della fiaba.

Occhi meravigliati, sorrisi e lacrime, divertimento e spavento si avvicendano sul viso di un piccolo spettatore. Dieci minuti vissuti intensamente firmati da un grande maestro del cinema lettone.

Il mio modo di fare cinema consiste nel guardare l’animo umano attraverso la cinepresa e nel mostrare il valore artistico che scorre come una cascata nelle persone che riprendiamo. Per me un documentario è come una pagina di letteratura, che non offende nessuno e che aiuta a capire cosa capita all’uomo nella sua quotidianità. Già in passato ho avuto modo di riprendere particolari manifestazioni religiose, come i misteri di Procida. In Lettonia ho realizzato un documentario sul cattolicesimo in Unione Sovietica, dato che proprio la Lettonia era la Repubblica più cattolica dell’intera Unione. Il film, poi, fu boicottato dalle autorità perché si opponeva all’ateismo di stampo sovietico. Una volta ho anche girato a Gerusalemme, davanti al Muro del pianto, riprendendo i volti delle persone in preghiera e provando a scavare nei loro animi: e i volti in preghiera sono molto belli e richiedono riprese delicate”.

Herz Frank è uno dei più importanti registi lettoni di documentari. Negli anni sessanta ha animato il “cinema poetico di Riga” grazie ai suoi film, alle sue sceneggiature, ai suoi documentari, ma anche ai suoi testi teorici, tra cui spicca la raccolta Le carte di Tolomeo. È un artista poliedrico, eppure si può rintracciare nei suoi lavori (e nelle sue parole) un filo rosso. Egli si presenta come un’umanista, un entomologo del volto, dentro cui si condensano e si raccolgono tutte le esperienze umane. Attraverso il volto e lo sguardo degli uomini Frank sa di poter leggere quello che succede nel mondo. Se inquadrati correttamente – perché, da questo “punto di vista”, scelta delle inquadrature, posizione della cinecamera, distanza dal soggetto diventano le questioni capitali del suo cinema – i volti rappresentano un filtro, un’immagine riflessa, una cartina di tornasole, un paesaggio, un raddoppiamento dell’occhio e quindi dello sguardo, in altre parole, una esperienza totalizzante.In Starshe na 10 minut (conosciuto anche con il titolo Desmit minutes no dzives e quello internazionale Ten Minutes Older), Frank nasconde una macchina da presa sotto il palco di un teatrino di burattini e riprende in continuità, senza stacchi, i volti dei piccoli spettatori che assistono ad una rappresentazione coinvolgente, paurosa, sorprendente, divertente.

L’interesse principale del documentario risiede certamente nell’idea metalinguistica che giustifica e sorregge il lungo piano sequenza: in uno spiritoso ed intelligente gioco di specchi riflettenti e deformanti, lo spettatore cinematografico esperisce la propria essenza di spettatore “guardandosi” nel volto dei bambini (spettatori teatrali), senza rendersi conto (forse) che, contemporaneamente, gli viene impedita la possibilità di assistere direttamente allo spettacolo che si sta volgendo sulla scena; ancora una volta inconsapevolmente, chi assiste al film invecchia di dieci minuti osservando volti di bambini non solo giovani anagraficamente, ma anche destinati a restare immutabili nel tempo grazie alla capacità di cristallizzazione insita in ogni strumento foto-riproduttivo (il famoso “complesso della mummia” formulato dal teorico del cinema André Bazin); infine – costretto ad immaginare cosa realmente accada sul palco aiutandosi soltanto con le pittoresche espressioni dei volti dei bambini – intuisce il valore fondamentale dell’immaginazione e la soggettività che si nasconde dietro ogni fotogramma apparentemente oggettivo, nonché la friabilità di ogni simulacro, in realtà immagine fittizia, che nel testo di presentazione di questo speciale abbiamo già paragonato al mito platonico della caverna.

A ben vedere, il testo stratificato ha molto da comunicare anche rispetto al processo di costruzione del sé tanto nei bambini, quanto negli spettatori (e quindi ancor di più negli spettatori-bambini). Intanto mette in stretta relazione l’esperienza della fruizione spettatoriale con quella della costruzione identitaria che nei bambini deve passare, certamente, attraverso una presa in carico della propria soggettività, ma che non può prescindere dall’osservazione del mondo esterno. Come dimostrano in modo solare i bambini del documentario, non si tratta di un’osservazione passiva, nella quale nozioni e concetti sono inculcati glacialmente dall’esterno, ma di un’esplorazione attiva, seppur da fermi, del mondo della rappresentazione: coinvolgimento nel racconto, postura che continua a modificarsi, immaginazione, attesa, rifiuto, è una vera e propria avventura, sorprendente e imprevista, quella che trascina letteralmente questi giovani spettatori dentro lo spettacolo. In secondo luogo, il correre inesorabile del tempo – rimarcato dal titolo del film e dal ricorso alla tecnica del piano sequenza – contribuisce a considerare il processo di acquisizione di un’identità come un moto infinito, continuo, inarrestabile.

Parallelamente e paradossalmente, però, più cresce la consapevolezza del sé meno tempo rimane a disposizione del singolo per viverla con consapevolezza. Sembrerà un gioco di parole ma non è così: la briciola di identità acquisita nel corso dello spettacolo da uno qualsiasi dei piccoli spettatori di Ten minutes older meriterebbe di essere utilizzata nel corso dello stesso spettacolo, in modo da consentire al bambino – ora un po’ più consapevole grazie a certi insegnamenti e certe convinzioni depositate nel corso della prima fruizione – di godersi maggiormente ciò che accade sul palco. Privo di una macchina del tempo, lo spettatore non può che rimuovere o vivere con frustrazione un desiderio destinato a non realizzarsi. Eppure, forse, c’è un modo per circuire il limite imposto dalla spietatezza dello scorrere di chronos: registrare e documentare, con una candid camera, il proprio volto e rivedere le proprie espressioni, con un distacco che solo la macchina cinema può garantire. Chissà quei bambini cos’hanno pensato quando si sono rivisti nel film. Hanno pensato di essere invecchiati di altri dieci minuti? E chi legge sa che è “incanutito” di altri dieci? Che i giochi di specchi continuino all’infinito...

Marco Dalla Gassa