Svyato

20/07/2009 Temi Psicologia

di Victor Kossakovsky

(Russia, 2005)

 
Alla scoperta della quarta dimensione

A due anni Svyatoslav non ha ancora visto uno specchio. La prima volta che se ne trova uno davanti nella sua cameretta dei giochi, probabilmente pensa che si tratti di un vetro al di là del quale c’è un altro bambino con il quale giocare.

Durante il suo percorso alla scoperta del nuovo amico, Svyato attraversa tutte le tappe della prima esperienza di riconoscimento del sé: dall’evitamento al contatto fisico, dall’esitazione all’entusiasmo, il bambino sperimenta in solitudine il primo, traumatico e allo stesso tempo necessario contatto con la propria immagine.

 Commovente e spietato allo stesso tempo, così potremmo definire Svyato, il film-esperimento che Victor Kossakovsky, uno dei più importanti documentaristi russi, ha condotto con suo figlio Svyato di due anni che, fino al momento delle riprese, non si era mai trovato faccia a faccia con la sua immagine riflessa da uno specchio o da un’altra superficie. Il film, infatti, associa all’afflato poetico e malinconico tipico della cultura russa più autentica l’impassibilità e il rigore scientifico propri del razionalismo occidentale, fondendoli in un risultato unico sotto molti punti di vista.
Di questa ambivalenza dello sguardo Kossakovsky ha fatto una sorta di metodo utilizzato più volte nelle sue opere, sempre segnate da uno spirito di ricerca lontano dall’autocompiacimento di tanto sperimentalismo cinematografico: per un anno ha filmato dalla finestra del suo studio una tranquilla strada di San Pietroburgo, registrando i gesti delle persone, i cambiamenti atmosferici, gli eventi, anche i più insignificanti (Tiše!, t.l.: Shhht!); un altro anno lo ha dedicato a portare a termine Sreda 19.7.1961 (Mercoledì 19.7.1961), un documentario nel quale cercava di rintracciare e dare un volto a cento persone nate come lui il 19 marzo del 1961; in Na dnjach (L’altro giorno), riprende con la camera fissa il cadavere di un uomo morto assiderato, abbandonato nella neve per giorni in una piazza di San Pietroburgo. La registrazione (quasi una misurazione) del tempo, unita a una fissità ostinata dello sguardo che scava tra le pieghe del reale per sottrarre le immagini alla banalità della significazione immediata e riproporle, in questo modo, all’interno di una dimensione significante di inedita profondità, sono i connotati più originali del suo cinema: non a caso spesso nelle sue interviste ritorna il nome del più grande cineasta russo del secondo dopoguerra, Andrei Tarkovskij che amava definire il lavoro del e nel cinema come uno “scolpire il tempo”.

Con Svyato il regista sembra voler risalire alla genesi del rapporto tra l’uomo e l’immagine, radicalizzare questa ricerca, ponendo per la prima volta di fronte al riflesso di uno specchio un bambino al quale fino ad allora è stato impedito di conoscere la propria immagine. È una vera e propria iniziazione al mondo delle immagini quella di Svyato perché, in fondo, quelle del volto e del corpo nella sua interezza sono le uniche immagini a proporsi originariamente e radicalmente in quanto tali: in condizioni normali risultano invisibili a chi osserva, dunque sono le sole a rivelarci qualcosa che, altrimenti, non sarebbe possibile guardare e, anche per questo, il loro valore è forse diverso da quello di tutte le altre. La scoperta della presenza del grande specchio a parete nella sua cameretta è un’esperienza doppiamente originaria per Svyato: per la prima volta si trova di fronte a se stesso, alla propria immagine (ancora non sa di cosa si tratta ma, forse, sospetta fin dal primo istante) ed è anche costretto a confrontarsi con la parete che, improvvisamente “sfondata”, gli rivela uno spazio in tutto e per tutto simile a quello che lui considera familiare e accogliente ma che, tuttavia, adesso si presenta come irraggiungibile, impenetrabile, misterioso. Inizia, così, a svilupparsi non solo quella virtualizzazione della propria immagine che, secondo la teoria psicoanalitica dello “specchio”, è all’origine dell’insorgere del meccanismo identitario, ma anche quel processo altrettanto fondamentale di separazione dell’io dal mondo che è alla base della capacità di osservarsi e analizzarsi in relazione agli altri e alla realtà circostante (non a caso è essenziale il ruolo attribuito nell’indagine psicoanalitica al “narcisismo”, al piacere di osservarsi). Al termine della sua esperienza, quando il padre gli si siederà accanto dando l’ultima, definitiva conferma ai suoi sospetti (quel bambino nello specchio è proprio lui) Svyato imparerà ad osservarsi, a identificarsi con l’immagine, ovvero a dis-identificarsi, ad osservarsi in quanto oggetto per meglio individuarsi in quanto soggetto delle proprie azioni. Svyato, infatti si ritrova improvvisamente di fronte a un compagno di giochi dal quale è separato da una superficie liscia e fredda, invalicabile ma con il quale cerca a tutti i costi di entrare in contatto: alternando la diffidenza alla socievolezza, la gioia alla rabbia, la prossimità alla distanza, il bambino sperimenta questo confronto che, malgrado lo scioglimento finale con l’entrata in campo del padre – spogliatosi del proprio ruolo demiurgico e finalmente vicino al figlio – è il primo passo verso quel sentimento di consapevole solitudine che l’accompagnerà per tutta la sua vita, il primo atto di quel continuo processo di autocoscienza che, volente o nolente, guiderà le sue scelte.

Un’esperienza alla quale, a questo punto, possiamo attribuire un valore mitico nel senso più profondo del termine, ovvero capace di dare un senso (un tempo e un luogo concreti, reali) a un “discorso che non prevede dimostrazione”, ovvero di ripescare dal profondo della natura umana le origini del rapporto che ognuno stabilisce tra l’io e il sé, tra il sé e il mondo. Kossakovsky è quanto mai abile nell’orchestrare questa rappresentazione capace di offrire allo spettatore spunti di riflessione che vanno al di là del valore oggettivo e scientifico dell’“esperimento”. Svyato ripercorre con sorprendente rapidità, presumibilmente nell’arco di alcune ore, tutti gli stadi della fase dello specchio (esitazione, evitamento, avvicinamento e contatto fisico con l’immagine, riconoscimento) ma tutto questo accade all’interno di una dimensione costellata da una serie di oggetti, situazioni, gesti dal valore fortemente simbolico. Si tratta di elementi dello spazio nel quale Svyato agisce nel corso del film e, non a caso, proposto allo spettatore in quanto riflesso, mitico o fiabesco che dir si voglia, dell’esperimento. Quanto di casuale c’è nella scelta di inquadrare il bambino intento a giocare al centro di un corridoio, spazio di transito che allude all’imminente cambiamento, o davanti a una tenda mossa dal vento, schermo ondeggiante al di là del quale si intravedono delle ombre che ricordano forme primordiali della rappresentazione, o in compagnia della statua di un folletto che regge una lanterna e della voce della madre che gli parla da uno spazio fuori campo, indici di una nuova capacità da parte del bambino di percepire se stesso e la realtà isolandola grazie alla ri-quadratura dello specchio, ovvero a uno sguardo indipendente, ormai forte della scoperta di un’identità appena acquisita? Ben poco ci sembra sia stato lasciato al caso dal regista e, anche la presenza apparentemente fortuita davanti allo specchio di un giocattolo che si attiva grazie ai rumori dell’ambiente circostante, pur assomigliando a uno degli espedienti utilizzati da René Zazzo per permettere ai giovanissimi soggetti dei suoi esperimenti di percepire lo spazio riflesso nello specchio in quanto spazio virtuale, allo stesso tempo contribuisce ad animare il luogo dell’incontro con la presenza di un testimone, sia pure di natura esclusivamente meccanica.

Ma questo spazio è connotato da un’ambivalenza di fondo: è, come sempre accade nel cinema, lo spazio dell’inquadratura, mobile e cangiante, e allo stesso tempo un luogo concreto fatto di elementi tangibili che, tuttavia, possono assumere una valenza ideale. Il sistema macchina da presa-specchio, creato all’uopo dal regista, ricalca questo rapporto per riproporlo allo spettatore moltiplicato in quello che è del tutto pleonastico definire come un “gioco di specchi”. Fin dalla prima inquadratura veniamo spiazzati dalla rivelazione che ciò che abbiamo finora osservato è l’immagine di un’immagine: nello stesso momento in cui Svyato si avvicina allo specchio per scoprire che c’è qualcun altro nella sua stanzetta (l’altro bambino, il suo doppio, la sua immagine), noi capiamo quanto possano essere fallaci le nostre certezze su ciò che è reale e su ciò che è immagine. Fin da principio abbiamo osservato giocare non il soggetto del filmato ma il suo riflesso in quello specchio che ora, grazie ad un movimento della macchina da presa, ci si rivela in quanto tale. Lo spazio dell’inquadratura scopre realmente una dimensione “altra” rispetto a quella data per scontata in quanto reale: si tratta della materializzazione attraverso mezzi squisitamente cinematografici di ciò che sta accadendo davanti allo specchio, ovvero la scoperta di uno spazio, di un luogo, più mentale che concreto, al cui interno è possibile per il bambino incominciare ad elaborare una riflessione su se stesso. Allo stesso tempo, questo è ciò che accade allo spettatore ogni volta che si siede davanti allo schermo cinematografico, quando è chiamato a riconoscersi nelle immagini che vede, a identificarsi con esse per meglio conoscere se stesso, i propri desideri, le proprie emozioni.

Non è un caso che, al termine del film e dell’incredibile avventura vissuta nell’arco di un tempo brevissimo, Svyato decida di riconciliarsi con le diverse dimensioni che sono emerse da questa vera e propria rivelazione baciando prima il suo riflesso, ovvero l’altro se stesso che vive nello spazio virtuale dello specchio, poi il padre, cioè l’altro che incontra quotidianamente nella realtà e infine la macchina da presa ovvero lo spazio davvero “altro”, quello del cinema, che tenta di riassumere le due dimensioni e le proietta verso la visione dello spettatore.

Fabrizio Colamartino