Sugarland Express

20/07/2009 Tipo di risorsa Schede film Temi Relazioni familiari Adozione Titoli Rassegne filmografiche

di Steven Spielberg

(Usa, 1974)

Sinossi

Texas, 1969: in visita al giovane marito Clovis che sta scontando gli ultimi quattro mesi per scippo in un centro di pre-rilascio, Lou Jean lo convince ad evadere per tentare di recuperare il loro bambino adottato da una famiglia di Sugarland. Il loro viaggio si trasforma in un lunghissimo inseguimento quando la macchina cui hanno chiesto un passaggio viene fermata da un poliziotto e i due, presi dal panico, decidono di rapirlo e tenerlo come ostaggio. Mentre la coda di macchine della polizia alle loro spalle diventa sempre più lunga e le trattative con l’umano capitano Tanner quasi amichevoli, il viaggio dei tre passa attraverso momenti comici, come quando la moglie si ferma a fare pipì in mezzo ad un campo, e drammatici, come quando vengono presi di mira da cacciatori in cerca di gloria. Man mano che attraversano paesi e che si diffonde la notizia del motivo del loro viaggio, vengono accolti da folle sempre maggiori di persone che esprimono condivisione, vicinanza e affetto. Giunti finalmente alla casa dei genitori adottivi del bambino però trovano dei cecchini ben addestrati ad attenderli i quali colpiscono Clovis. La fuga verso il Messico è ormai una disperata corsa contro il tempo. Quando la macchina si ferma sulla sponda del fiume che segna il confine, Clovis è morto a causa dell’emorragia, Lou Jean è impietrita dal dolore e il poliziotto Maxwell rimane a pensare se la vicenda si sarebbe potuta risolvere senza spargimenti di sangue.

Introduzione al film

Segua (lentamente) quella macchina!

Sugarland Express è il primo film di Steven Spielberg prodotto per il grande schermo, dal momento che i due precedenti, Duel (1971) e Qualcosa di diabolico (1972), nascevano come prodotti televisivi e furono distribuiti nelle sale solo dopo il grande successo del regista con Lo squalo (1975). Come opera prima, Sugarland Express denota una padronanza del mezzo straordinaria, una consapevolezza dell’inquadratura ed una conoscenza dei meccanismi spettacolari che l’autore ha ampiamente dimostrato, con risultati a volte discutibili ma sempre di altissima qualità, in tutta la sua lunga carriera. La storia abbandona ben presto i territori usuali e scontati del film di genere ad inseguimento indugiando molto sui risvolti ironici della vicenda, con uno sguardo divertito sull’umanità che assiste al passaggio, sia esso veloce o rallentato, della macchina dei protagonisti. L’occhio della cinepresa assume così una dimensione antropologica e sociologica, incuriosito dalla realtà della provincia del profondo sud degli Stati Uniti al punto da trasformare il passaggio dell’assurda carovana in motivo di festa e di aggregazione. Partendo da un fatto di cronaca realmente accaduto, Spielberg e gli sceneggiatori procedono portando lo spettatore ad un’immedesimazione graduale e inevitabile. Il racconto dei piccoli fatti quotidiani, dei delicati equilibri sempre in bilico tra la prova di forza e la dimostrazione di onestà, dell’ingombrante umanità dei protagonisti trasforma progressivamente il film in un discorso sui miti, sulla giustizia, sul sistema. E proprio il sistema dimostra tutta la sua inumanità di meccanismo rigido nell’inevitabile e tragica fine, solo lievemente attenuata dalle didascalie che sui titoli di coda rassicurano sulla salute di madre e figlio dichiarando che vissero felici e contenti. La giovane coppia che cerca inutilmente di recuperare il proprio figlio si scontra con la sordità delle istituzioni e si trova a non avere scelta. Il precipitare degli eventi ed il progressivo aggravarsi della loro situazione non è, in fondo, che una conclusione logica proprio nella sua assoluta assurdità. Prigionieri di un destino immutabile proprio come gli uomini della giustizia, combattuti tra senso del dovere e umanità, ma senza la possibilità di una vera scelta. Circondati da un’America che sembra ossessionata dal bisogno di schierarsi, sempre, comunque e senza mezze misure, tra l’accorato appoggio fatto di cartelli, regali e dichiarazioni d’amore, e l’opposizione strenua che porta ad imbracciare il fucile per difendere la “sicurezza del paese”. Il tutto poi viene osservato dallo sguardo stupido della stampa, presenza surreale e inevitabilmente comica che Spielberg fa precipitare simbolicamente in un’immensa pozzanghera di fango. Da un punto di vista stilistico, quasi in controtendenza rispetto alla tensione in velocità su cui si basava l’inseguimento metafisico di Duel, con Sugarland Express il regista esplora la possibilità di un inseguimento che, paradossalmente, non superi i limiti di velocità previsti dalla legge. Se si escludono i momenti iniziali e le pochissime accelerazioni successive, la carovana di decine di auto incolonnate alle spalle dei “malviventi” subisce continui rallentamenti e brusche frenate dovute agli inconvenienti più naturali o più impensabili. È una lentezza in cui trovano una perfetta collocazione sia una dimensione del tutto estetizzante dell’inquadratura (si veda in particolare la sequenza finale con il poliziotto in silhouette di fronte ai giochi di luce sul fiume al tramonto), sia quel disordine anarchico e fracassone che sarà ingrediente fondamentale di 1941 – Allarme a Hollywood (1979).

Il ruolo del minore e la sua rappresentazione

La sconfitta del sistema

Indubbiamente il ruolo del minore rappresentato nel film, il figlio di appena due anni che i due protagonisti cercano invano di recuperare, è piuttosto marginale, ma è altrettanto evidente come sia proprio lui il motore dell’intera storia. I suoi due genitori sono stati messi in prigione a causa di piccoli reati e l’affidamento del bambino è stato concesso ad una famiglia borghese che vive in una bella casa nella piccola cittadina di Sugarland. Apparentemente non sembra rendersi conto di tutto quello che sta avvenendo intorno a lui, concentrato solo sui giochi di esplorazione tipici della sua età. I suoi unici episodi di pianto sono legati al momento in cui la madre adottiva viene informata dalla polizia dell’arrivo dei due genitori e corre in giardino a strapparlo dalle sue occupazioni per portarlo in casa, e all’improvviso arrivo dei giornalisti che cominciano ossessivamente a porre domande e scattare foto. Al bambino verrebbe chiesto di mostrarsi felice tra le braccia della sua nuova mamma, ma lui riesce solo a piangere disperatamente perché si sente spaesato. Questa sequenza in particolare ha una forte valenza simbolica proprio perché tende a mettere in luce l’inumanità della situazione. Il bambino non è che un oggetto al centro di una contesa in cui nessuno dei personaggi, né tanto meno le istituzioni che dovrebbero essere preposte alla sua tutela, si curano in alcun modo del suo stato d’animo o del suo bene. L’assurdità dei giornalisti che chiedono ad un bambino di due anni di esprimere il proprio parere sulla nuova famiglia o sull’impresa dei suoi genitori naturali rappresenta in pieno la miopia di un sistema rigido e inumano. Vicenda che assume risvolti decisamente inquietanti nel momento in cui la famiglia, nell’attesa dell’arrivo dei rapitori, viene invasa dai cecchini che non si curano minimamente della presenza del bambino nella preparazione rituale dei fucili che serviranno ad uccidere i genitori naturali davanti ai suoi occhi; o nel momento in cui il padre adottivo, tenendolo in braccio, apre tranquillamente l’armadio delle sue armi da fuoco mostrando orgogliosamente il suo arsenale e l’intenzione di essere il primo a sparare. L’amore per le armi e l’insopprimibile desiderio di usarle è dunque più forte dell’amore per le persone, tanto da annebbiare qualsiasi tipo di ragionevolezza. Così i due cacciatori non rinunciano all’impresa sportiva di uccidere i due “fuorilegge” e non hanno nessun pudore nel coinvolgere il figlio minorenne di uno dei due, in un ideale rito di passaggio all’età adulta. Altrettanto infantili e inadeguati si dimostrano del resto i genitori del bambino. Clovis non è altro che un uomo debole che agisce solo per compiacere la moglie obbedendo a qualsiasi capriccio anche a costo della vita, come nel finale in cui pur avendo scoperto la trappola cede agli isterismi di lei scendendo dalla macchina e facendosi sparare addosso. In lui non c’è alcun senso di paternità né affetto nei confronti del bambino ma solo il desiderio, dettato da un amore infantile e superficiale, di non deludere la donna di cui è innamorato. Lou Jean, d’altro canto, è schiava di un istinto materno talmente forte e incontrollato da farle perdere qualsiasi contatto con la realtà. Vittima probabilmente di un senso di inadeguatezza che l’ha portata a perdere l’affidamento del figlio vorrebbe riscattarsi a tutti i costi ma sceglie un vicolo cieco dopo l’altro. È lei la vera mente della coppia, ma è una mente così annebbiata da un puerile desiderio di possesso da operare solo scelte sbagliate. Il finale del film, infine, ci informa sugli sviluppi successivi della vicenda: avendo dimostrato di potersi occupare del bambino, Lou Jean qualche anno più tardi ottiene la tutela del figlio. Difficile non leggere la sconfitta di un intero sistema tra le pieghe di questo illusorio lieto fine.

Ludovico Bonora