Sinossi
Ungheria, 1944. La guerra ha portato con sé le leggi razziali: gli ebrei devono indossare una stella gialla a sei punte cucita sugli abiti e hanno le razioni alimentari dimezzate. György, quattordici anni, di famiglia ebrea, deve dare l’addio al padre, obbligato a raggiungere un campo di lavoro obbligatorio – che, come scopriremo, altro non è che il campo di sterminio di Mathausen. Dal giorno successivo inizierà a lavorare in fabbrica; ma, lungo il percorso dell’autobus che lo porta al lavoro, un poliziotto fa scendere tutti coloro che indossano la stella gialla. György non lo sa, ma è il primo passo verso i campi di concentramento. Dopo il terribile viaggio in treno, ad Auschwitz c’è l’impatto con le selezioni, i forni, la morte della maggior parte dei compagni di prigionia. Poi György viene trasferito a Zeits, un campo più piccolo presso Buchenwald. Lì conosce la fame, la fatica, la tortura, le angherie dei kapò. Ad aiutarlo, un giovane poco più grande di lui, Citrom, che cerca di fargli forza e lo spinge a conservare la dignità, «più importante del pane e della zuppa», dice. Piano piano, però, György cede alle privazioni e al dolore di una ferita al ginocchio, finché, in fin di vita, teme di essere condotto alle camere a gas; viene invece trasferito in infermeria, dove viene curato e, quasi miracolosamente, rimesso in piedi. Di lì a poco, gli Americani arrivano a liberare il campo e György affronta il viaggio di ritorno. A Budapest, tutto è cambiato: nella casa del ragazzo abita una nuova famiglia, e nessuno sembra comprendere i sentimenti del giovane né l’esperitoienza che ha vissuto: tutti lo invitano a dimenticare. Ma per György non è possibile: e il film si chiude con la voce over del ragazzo che si dichiara pronto a iniziare una nuova vita, colma di speranza ma anche memore e consapevole di ciò che è stato.
Introduzione al Film
Senza destino è la rilettura cinematografica del romanzo Essere senza destino di Imre Kertész, scrittore ungherese premiato col Nobel nel 2002, che in esso ha ripercorso la sua stessa vicenda di giovane ebreo deportato a Buchenwald. Dopo aver rifiutato per anni di cedere i diritti della sua opera, Kertész ha scelto di scrivere lui stesso la sceneggiatura del film, convinto da Lajos Koltai, alla sua opera prima come regista ma esperto direttore della fotografia – ha lavorato con Istvan Szabó (Mephisto [id., Ungheria/RFT, 1981], Il colonnello Redl [Redl Ezredes, Ungheria/RFT/Austria, 1985], Being Julia – La diva Julia [Being Julia, Usa/Canada/Ungheria/UK, 2004]) e con Giuseppe Tornatore per La leggenda del pianista sull’oceano (Italia, 1998) e Malèna (Italia/Usa, 2000). Al centro del testo è l’idea dell’esistenza dei campi di sterminio come fatto incontrovertibile e sempre presente, che non accetta di essere sterilizzato nella retorica delle giornate celebrative ma che continua a pulsare dolorosamente nella vita di ogni giorno di chi ha vissuto quell’esperienza e non può dimenticarla. Ha detto lo scrittore in occasione dell’assegnazione del Nobel: «L’unica cosa sulla quale dobbiamo riflettere è che cosa fare in futuro. Il problema Auschwitz non è tanto quello di metterci una pietra sopra, di conservare la sua memoria o di relegarlo nei meandri della storia; di costruire un monumento per commemorare i mlioni di morti o cose simili. Il vero problema di Auschwitz è il fatto stesso che sia successo, che sia esistito e questo è un fatto che non può essere in alcun modo modificato, neanche con la milgiore o peggiore volontà del mondo». La frase dello scrittore ungherese rende bene l’atmosfera del film - resa dal regista alternando due dominanti coloristiche: a colori, virate in ocra, le due parti ambientate a Budapest, in un gelido bianco e nero le sequenze al campo - impostata non tanto sull’orrore del campo quanto sulla sua altrettanto orribile naturalezza. Prima il padre del protagonista e poi il giovane György accettano con rassegnata arrendevolezza il loro destino, quasi non fosse possibile fare altrimenti, ribellarsi: sono davvero “esseri senza destino”, privati della possibilità di scegliere. In effetti tutto il film è segnato da questa terribile naturalezza, questa casualità cui non si può sfuggire lungo la quale gli avvenimenti si dipanano. Si pensi, ad esempio, alla sequenza in cui György viene fatto scendere dall’autobus e poi sequestrato, con altri ebrei, nell’attesa inconsapevole della deportazione. Il poliziotto che si occupa di loro – la maggior parte sono ragazzi in età scolastica – è davvero un ottuso e volonteroso carnefice: fa giocare i ragazzi per ingannare il tempo, sorride, sembra quasi affezionarsi a loro ma non esita un momento a eseguire zelante gli ordini che gli vengono impartiti anche se non ne comprende il senso, consegnandoli, insieme agli altri prigionieri, al treno che li porterà al campo. E così i gendarmi ai treni, i soldati che sorvegliano il campo, i kapò con le loro piccole vessazioni quotidiane, tutti sembrano compiere quello che ritengono il loro dovere, senza crudeltà, certo con indifferenza; tanto che tutto sembra diventare naturale, non accadere per volontà di qualcuno (di Hitler e di coloro che lo sostennero) ma per una sorta di cammino indipendente della storia su cui nessuno ha davvero potere di agire. Solo alla fine il ragazzo dirà che «siamo noi il destino», come a rimproverare a se stesso prima che agli altri di non aver reagito, di essersi lasciato portare dagli eventi. È questa rappresentazione della banalità del male il pregio maggiore del film. Per il resto, i personaggi di contorno non sono molto caratterizzati; rispetto all’intensità dell’interpretazione del protagonista, Marcell Nagy, gli altri attori scivolano verso la piattezza dello stereotipo e non riescono ad acquisire uno spessore autonomo, lasciando il peso di condurre l’intera narrazione sulle spalle dell’attore protagonista, che comunque riesce a dare un ritratto convincente e coinvolgente del personaggio.
Il ruolo del minore e la sua rappresentazione
È lo sguardo di György, quattordicenne ebreo nella Budapest in guerra, a filtrare tutto il film: la sua voce over, all’inizio del film, ci parla dal presente e, riandando con la memoria agli anni trascorsi, racconta la propria storia in un lunghissimo flashback. Ma la prospettiva del racconto non è mai quella di un adulto che ricorda la propria giovinezza; al contrario, il film trova uno dei punti di forza nel saper restituire la percezione degli eventi di un ragazzino, ingenuo quanto inconsapevole – fin quasi alla fine del racconto - di ciò che sta accadendo. Fin dalle prime sequenze György sembra non capire fino in fondo la gravità della situazione. La stella gialla per lui è un segno come un altro; non sente, dice, l’odio della gente; vede il padre prepararsi a partire per un viaggio che è costretto a intraprendere, sente confusamente che qualcosa non va ma è come se non riuscisse a metterlo a fuoco. La sua inconsapevolezza leggera, da ragazzino intraprendente e allegro nonostante la guerra e le privazioni, è resa visivamente attraverso una serie di soggettive che segnano la prima parte del film. Nella prima sequenza vediamo il padre del ragazzo dare l’addio alla sua ditta, affidandola al contabile, insieme ai suoi averi più preziosi: György osserva la scena attraverso un vetro, come se quello che accade non lo riguardasse troppo, come fosse qualcosa che gli rimane estraneo. Ancora, durante il colloquio d’addio col padre, mastica imbarazzato i resti della cena; mentre lo zio gli chiede di pregare con lui, il ragazzo recita meccanicamente la preghiera e osserva con la coda dell’occhio la sua amica che scende le scale; sul finire della sequenza osserva la famiglia riunita per l’ultima volta attraverso i vetri spessi di una porta finestra, cosicché i volti gli appaiono sdoppiati e fuori fuoco; ancora un modo per segnalare la sua separazione dal mondo degli adulti e della storia, il suo sentirsi estraneo al destino comune degli ebrei che per lui è ancora un’idea astratta e priva di connessioni con la sua vita quotidiana. Anche per tutta la sequenza successiva – il rastrellamento in autobus e la lunga attesa in caserma prima della partenza per il campo – György è come ottuso, non capisce, sulle prime, che cosa stia succedendo. Come dicevamo non c’è posto, nel film, per la drammaticità e l’enfasi di un destino segnato, di un fato cui non si può sfuggire: tutto accade come per caso, con naturalezza: una naturalezza che condurrà all’orrore del campo. Con l’arrivo ad Auschwitz e poi a Buchenwald, György non può più ignorare la sua sorte. La sua difesa dalle angherie, dai soprusi, dal dolore è ora quella di tentare di sopravvivere tramite l’obbedienza, l’adeguarsi alle regole del campo, alla sua logica aberrante. Di più: il ragazzo riesce quasi a ritagliarsi degli scampoli di piacere in una vita disumana, tanto da raggiungere quella che lui stesso definisce una sorta di felicità: la zuppa di carote, «la più buona del campo», o l’ora prima del tramonto, in cui i prigionieri aspettano la cena dopo una giornata di lavori forzati. Il ragazzo sembra voler resistere accettando passivamente ciò che gli succede e anzi trovandovi degli attimi di piacere, di pausa dalla sofferenza. «È naturale», dice, riferendosi alle condizioni inumane in cui si è trovato a vivere: quello che accade succede così, come per natura o per caso, così come si succedono le ore o le stagioni, e l’unico modo di sopravvivere, di andare avanti, è accettarlo, rassegnarsi, adeguarsi, e aspettare che tutto passi. Poi, le privazioni e il dolore hanno la meglio, e la passività di György si trasforma in abbrutimento; solo una salvezza che ha del miracoloso (gli infemieri che lo raccolgono ancora vivo tra i cadaveri) lo riporta alla vita e alla possibilità del ritorno a casa. È qui che l’atteggiamento del ragazzo cambia. Non accetta più passivamente ciò che gli accade, senza fermarsi a indagarne la ragione. Se tutti – i vicini di casa, i conoscenti, anche chi gli paga il biglietto dell’autobus in uno slancio di solidarietà – sembrano chiedergli di dimenticare, di cancellare quei mesi e quegli eventi e guardare avanti, György non vuole farlo. Continuerà a vivere, certo, ma consapevole di ciò che è stato e soprattutto del fatto che «siamo noi il destino», che non ci si deve abbandonare agli eventi come a fattori imponderabili e immutabili ma prendere in mano la propria vita e costruire il proprio destino.
Riferimenti ad altre pellicole e spunti didattici
Le pellicole che rievocano l’Olocausto sono ormai moltissime, e Senza destino può essere inserito agevolmente in un ciclo di film dedicato alla rievocazione del terribile destino di moltissimi ebrei durante la guerra. In particolare si può pensare a una serie di film che, in questo quadro, adottano la prospettiva di un bambino, come accade in La vita è bella (Italia 1997) di Roberto Benigni, che narra la deportazione di una famiglia di Arezzo in un campo di concentramento e lo sforzo immane compiuto dal padre per risparmiare l’atrocità di ciò che accade al figlio, facendogli credere che si tratta di un enorme gioco a premi; altro film interessante in questo senso è Jona che visse nella balena di Roberto Faenza (Italia/Francia 1993), storia di un bambino olandese (è Jona Oberski, dal cui libro autobiografico il film è tratto) deportato a quattro anni nel campo di Bergen-Belsen; anche qui il fulcro del film è lo sguardo inconsapevole del piccolo protagonista di fronte a eventi atroci di cui non può comprendere il senso.
Chiara Tognolotti