Salaam-bombay

di Mira Nair

(India, Regno Unito, Francia, 1988)

Sinossi

Krishna, un ragazzino di dieci anni abbandonato da un circo ambulante, tenta la fortuna nell’assordante, sporca e caotica Bombay. Vive in strada con altri coetanei e si dà da fare come portatore di tè per realizzare il suo sogno: racimolare le cinquecento rupie necessarie per tornare al paese. Nella strada dove lavora ha modo di conoscere Chilum, un ragazzo tossicodipendente con cui diventa molto amico, ma che non esita a rubargli i pochi soldi che risparmia, e la piccola Manju, figlia della prostituta Rekha e del magnaccia Babà. L’arrivo di Solassal, una ragazza quattordicenne vergine, anche lei avviata alla prostituzione, porta un po’ di speranza nel cuore di Krishna che si innamora immediatamente di lei. Quest’ultima, portata lì da una regione lontana, non parla la lingua corrente e finisce per cadere nelle braccia di Babà che, non si sa se per desiderio di possederla, desiderio di soldi o vera infatuazione, la corteggia impetuosamente. Sta di fatto che una volta convinta la ragazza a prostituirsi, Solassal viene venduta ad un ricco facoltoso. Quando Chilum viene licenziato da Babà, per il quale vendeva droga ai turisti, anche la vita di Krishna subisce un vorticoso crollo verso il basso. Il tossicomane, infatti, muore di overdose non prima di aver rubato tutti i risparmi di Krishna. Il ragazzino è licenziato dal lavoro per i troppi ritardi. In più, una sera viene arrestato dalla polizia e imprigionato in un correzionale minorile, senza un vero capo d’accusa. Quando riesce a scappare dal carcere, Krishna torna a casa e sorprende Babà litigare furiosamente con la moglie Rekha. Raccolto un pugnale per terra lo uccide, vendicandosi dell’uomo che gli aveva sottratto la bella Solassal. Anche nella fuga disperata insieme a Rekha, il bambino finisce inesorabilmente solo: mentre tiene per mano la donna, l’unica persona rimasta amica, l’accorrere della folla, giunta per una sfilata di carri allegorici, separa (per sempre?) la prostituta e il ragazzino.

Presentazione critica

Ciao Bombay!, la traduzione in italiano del titolo, ha in sé tutto il sarcasmo, l’amarezza l’ingiustizia che poteva avere l’arrivederci ragazzi pronunciato dai protagonisti del film di Luois Malle. Un saluto che appare come uno scherno e un’irrisione (il punto esclamativo serve proprio a rimarcare la frattura) per chi non può uscire dalla città indiana, così come sembrava una illusione funesta quell’arrivederci rivolto a ragazzi che, entrati in un campo di concentramento, non sarebbero stati più rivisti da nessuno. A Bombay si entra, ma non si può più uscire e Krishna ne è un esempio: nell’ultima sua corsa, quella che dovrebbe portarlo via definitivamente, anche perché è appena evaso da un carcere minorile e ha appena ucciso un uomo, si imbatte in una sfilata di carri allegorici, viene diviso, senza che egli possa opporre la minima resistenza, dalla donna che cerca di proteggere, corre da solo ed infine si ferma. La macchina da presa indugia sul suo volto per molti secondi mentre egli inizia a piangere. Le lacrime sono la presa di coscienza della sconfitta, dell’impossibilità della fuga. Egli era convinto che con un po’ di risparmi sarebbe potuto tornare al proprio paese e dalla propria madre, ma più volte l’amico Chilum l’aveva avvertito su come fosse impossibile fuggire. Il pianto finale di Krishna il segno della resa, la capitolazione della speranza, è il chiasmo di tutti i desideri di fuga falliti, di tutte le capitolazioni e gli scacchi subiti, non solo da lui, ma anche da tutti gli altri personaggi del film: da Chilum, tossicodipendente e spacciatore, che cerca nella cocaina la sua evasione, mentre trova al contrario l’overdose e la morte; da Manju che per combattere la solitudine cui è costretta dall’attività della madre (la bambina in molte scene sta seduta fuori dalla porta di casa mentre la mamma ‘lavora’) viene anche lei catturata con Krishna e finisce la sua corsa in un correzionale rinchiusa in un mutismo ormai permanente; da Rekha, sua madre, che ricava dalle promesse del marito, in realtà bugie sulla sua (im)possibile riabilitazione dalla vita della prostituta, solo desideri repressi, frustrazioni e evasioni soffocate; da Solassal che, entrata nella casa d’appuntamenti vergine e pura, ne esce pronta a cedere il proprio corpo a chiunque, dopo un percorso – quello del corteggiamento di Babà – che doveva essere un modo per scappare da quella situazione e si è invece rivelato un itinerario verso la perdizione; dallo stesso Babà che vedeva in Solassal la possibilità di abbandonare definitivamente la vita dello sfruttatore e che è invece è finito ucciso da Krishna, il più innocuo e sconosciuto tra i suoi nemici. Krishna raccoglie dunque in sé tutti i destini degli abitanti di Bombay. Il saluto alla città si trasforma in contrappasso insopportabile. Anche perché la costrizione a restare si lega all’inevitabilità della corruzione. La fogna di Bombay tutto assorbe: sporcizia, delinquenza, prostituzione, violenza, legalità, amore, purezza. La figura di Solassal, in tal senso, è di disarmante chiarezza: la ragazzina di 14 anni, vergine, bella, silenziosa, è il simbolo della purezza assoluta, della bellezza incontaminata ed è per questo che i due personaggi in opposizione tra loro (il ragazzino ed il magnaccia) si innamorano di lei. La loro è una sorta di lotta del bene contro il male, dove sia l’uno che l’altro finiscono sconfitti. Il cambiamento radicale della ragazza, disposta a concedersi agli uomini, è il segno dell’impossibilità di rimanere puri. In un certo senso, Solassal sembra rappresentare l’India stessa, la cui innocenza, rappresentata dai milioni di bambini che si trovano nella popolosa nazione, finisce per essere contaminata dalla sporcizia e dalla povertà e irrimediabilmente corrotta La lotta contro la povertà – sembra suggerirci Mira Nayr – non avviene attraverso il tentativo di crescita sociale (quasi impossibile), ma attraverso la rappresentazione migliore di sé, come se la finzione fosse un surrogato dell’avanzamento economico. I bambini corrono al cinema (pieno, per tradizione, di storie magniloquenti e pompose) o scrivono lettere ai genitori lontani mascherando i lati negativi della loro esistenza; Babà e Solassal si fanno fotografare in uno sfondo laccato; le genti suonano per la strada e cantano, gli adulti si drogano (un’altra specie di spettacolarizzazione del proprio ego) e possono immaginare futuri migliori. La cristallizzazione della situazione sociale è dunque un elemento quasi scontato. La sfilata dei carri allegorici lo conferma: mentre il paese si fa vedere nei colori sgargianti e vivaci della festa, tra la folla si consuma l’ennesima frattura nella vita di un bambino. Ma la folla è talmente numerosa che certo non si può accorgere della solitudine di un solo ragazzino! Marco Dalla Gassa