Ruoli e dinamiche del volontariato alla prova del cinema di documentazione sociale

25/05/2011 Tipo di risorsa Bibliografie e filmografie Titoli Rassegne filmografiche

Da sempre il documentario ha trovato nella testimonianza di situazioni sociali difficili, spesso estreme, una sua vocazione naturale, capace non solo di farne il luogo di una presa di coscienza del mondo e dei problemi della società da parte del pubblico ma anche un momento di elaborazione delle più originali strategie di percezione della realtà da parte dei cineasti. Il documentario sociale è così diventato il luogo di un incrocio significativo di sguardi all’interno del quale si gioca la questione del cosa mostrare ma, anche e soprattutto, del come mostrare, con la macchina da presa nel duplice ruolo di strumento di acquisizione del dato reale e – fattore ben più importante – di tramite di una relazione complessa tra l’autore delle immagini, i protagonisti delle stesse e il fruitore finale.

Se, tuttavia, a essere documentata non è soltanto una data realtà sociale ma anche un’azione che si proponga di trasformare l’esistente e che, dunque, proietti i protagonisti all’interno di una dimensione in mutamento, il quadro diviene ancora più complesso, i ruoli dei vari soggetti in campo e fuori campo decisamente incerti, lo statuto delle immagini – solo all’apparenza neutre e prive di un orientamento – ambiguo. Si tratta di una questione tutt’altro che marginale per chi documenta la realtà attraverso il cinema, ovvero per mezzo di un dispositivo invasivo, per sua natura tendente a cambiare l’atteggiamento dei protagonisti nel momento stesso in cui entra in gioco. È l’impasse nella quale s’è dibattuto per anni il cinema antropologico, ovvero l’antropologia stessa che dalla metà degli anni Cinquanta incominciò a poter disporre di attrezzature di ripresa leggere, molto più maneggevoli che in passato, a prima vista capaci di restituire un’immagine della realtà inquadrata scevra da filtri di sorta (ad esempio le interpretazioni personali dello studioso riportate per iscritto, dunque tradotte in un linguaggio, in un codice per sua natura “altro” rispetto all’evidenza dei dati), ma in effetti frutto della discesa in campo di un mezzo automaticamente predisposto a “rappresentare” la realtà, a metterla in scena e a rielaborarla, necessariamente, attraverso un punto di vista particolare.

Nel caso in cui a essere testimoniata sia un’azione tesa a mutare l’esistente, il sistema della rappresentazione cinematografica sembra sovrapporsi alla realtà per bloccarla nella sua essenzialità, spesso imponendo a ciascun “attore” un ruolo stabilito, predefinito da un immaginario culturale e, più in particolare cinematografico, già strutturato tanto in chi è l’oggetto delle riprese quanto in colui che le effettua, tanto infine in chi le guarda. A un oggetto dello sguardo per definizione mutevole – il presente documentato, la realtà “in corso d’opera” – viene imposto un apparato che tende a congelare la realtà, storicizzandola, sistematizzandola e spesso imponendole delle stratificazioni politiche e sociali talmente consolidate da passare inosservate. Partendo da queste considerazioni preliminari sembrerebbe che il cinema sia il mezzo meno idoneo per documentare l’esistente, tanto più se al centro dell’obiettivo si trova un’azione volta a integrare una carenza della società, a colmare uno spazio lasciato vuoto dalla politica e, dunque, di per sé orientata al mutamento. Tuttavia, superare l’impasse nella quale il film in funzione di documentazione o testimonianza sembra bloccato – proprio in virtù dell’evidenza e dell’“innocenza” con cui porge la verità allo spettatore – è possibile proprio grazie un capovolgimento dei presupposti (evidentemente fallaci) ai quali di solito ci si affida nell’affrontare questo tema. È meglio, innanzitutto, mettere da parte l’illusione di un’invisibilità della macchina da presa (cosa non facile dato che, nel corso della visione, questa illusione è data principalmente dal fatto che il nostro sguardo è ancorato in tutto e per tutto al suo obiettivo) a vantaggio di una permeabilità tra quella che potremmo definire la “quarta parete” della rappresentazione cinematografica, tra ciò che sta di là e ciò che è di qua dall’obiettivo. Un documentario, infatti, non è soltanto la testimonianza visiva di un pezzo di società a noi sconosciuto ma è anche e soprattutto la documentazione dell’incontro (e non di rado dello scontro) tra colui che filma e l’oggetto delle riprese.

È facile comprendere come ogni tentativo di instaurare con il soggetto ripreso una relazione basata su una (apparente) forma di neutralità e distanza – tipica del cosiddetto documentario d’osservazione di scuola anglosassone, pur determinante nella storia del cinema – sia quasi impossibile e come, al contrario, sia spesso necessario ammettere la presenza di un preciso punto di vista, cercando il contatto con il soggetto attraverso un atteggiamento – o meglio, un’attitudine – partecipante. Di più: alla stregua di uno scienziato che in laboratorio provochi degli eventi per studiarne le conseguenze, il documentarista può, proprio attraverso la presenza della macchina da presa, determinare una reazione da parte di coloro che riprende per ottenere un maggior numero di informazioni (magari proprio quelle che, facendo parte della quotidianità dei soggetti, rimangono implicite pur costituendo la parte essenziale del bagaglio di conoscenze cercate). Ciò è forse ancor più vero per quei documentari che vogliono restituire la realtà di coloro che, proprio come chi fa del volontariato, operano sul territorio a favore di chi vive una situazione di disagio: è automatico dare per scontato che tale azione costituisca una buona pratica, un’occasione virtuosa di incontro tra chi ha bisogno d’aiuto e chi è pronto a offrirne (chiedendo, tra l’altro, ben poco in cambio) e, nella maggior parte dei casi è proprio così. Il documentario tradizionalmente inteso non può far altro che avvalorare tale visione, bloccando i protagonisti in ruoli prefissati: quello della vittima (di una discriminazione, di un’ingiustizia sociale o di una situazione contingente), quello del salvatore della vittima (per il volontario), quello di testimone coraggioso (per il regista del film) e, infine, quello di spettatore passivo (per il pubblico) invitato, tutt’al più, a sostenere economicamente quell’azione ma non a cambiare il proprio modo di pensare e, ancora meno, il proprio stile di vita. Spesso in questi casi il rischio è che il documento vada “oltre” la sua funzione informativa e sfoci in una vera e propria celebrazione non tanto di coloro che portano avanti meritoriamente un’azione sicuramente positiva, quanto di una dinamica basata sulla gestione dell’emergenza che spesso nasconde un’implicita rinuncia a cercare una soluzione, un effettivo cambiamento. A volte si tratta di film prodotti con una chiara e dichiarata funzione divulgativa e promozionale, atti a sensibilizzare lo spettatore più che a informarlo, a consolidare convinzioni e orientamenti sovente già presenti, più che a muovere dubbi e a far nascere domande.

Non mancano, tuttavia, i casi in cui il documentario diventi una dimensione privilegiata al cui interno le relazioni tra operatori (del sociale o della macchina da presa) e popolazioni vengono allo scoperto con tutte le loro contraddizioni e, nei casi migliori, un vero e proprio catalizzatore di tali antinomie o persino uno strumento per intervenire direttamente nel merito dei problemi affrontati. In questi casi la macchina da presa diviene un mezzo capace di andare ben oltre la funzione di semplice registrazione che a prima vista le si può attribuire, per assumere una funzione partecipante al pari degli altri protagonisti in campo, proprio come è avvenuto, per gradi e attraverso modalità affatto diverse ma in fondo convergenti, nel lavoro dei più grandi autori del cinema sociale e etnografico. Da Joseph Flaherty – considerato il padre del documentario etnografico – che nel 1922 gira Nanook of the North con un gruppo di inuit ai quali ha precedentemente spiegato quali siano i meccanismi e la funzione del suo lavoro di documentarista a Jean Rouch – l’inventore del cinéma-verité – che nel 1957 gira Moi, un noir con dei ragazzi ivoriani disoccupati che ha coinvolto in una sorta di laboratorio cinematografico e di autocoscienza collettiva, i migliori esempi di documentario hanno sempre visto partecipi i protagonisti del film (ovviamente il regista ma anche gli “attori”) in un processo di riscoperta e soprattutto di rimessa in discussione di se stessi.

I cinque film che citiamo di seguito per supportare con esempi concreti quanto finora affermato non appartengono (almeno non ancora) ai classici della storia del cinema. Tuttavia, si tratta di documentari contemporanei opera di alcuni giovani registi, che testimoniano situazioni in cui agiscono associazioni di volontariato che intervengono a vario titolo e in vari modi a favore dell’infanzia e dell’adolescenza a rischio o in difficoltà. Come sarà possibile evincere nel corso dell’excursus il ruolo del cinema diventa via via sempre più determinante ai fini dell’azione dispiegata dagli operatori, fino a una coincidenza pressoché totale tra il ruolo partecipante della macchina da presa e la partecipazione (un’attitudine opposta rispetto alla passività di chi si lascia soccorrere senza reagire, come spesso sembra emergere dai documentari sul volontariato) dei soggetti protagonisti, tanto delle riprese quanto dell’azione di volontariato. Attenzione, però, dato che tale coincidenza non sarà del tutto innocua e, lungi dal riprodurre dinamiche consolidate, spesso servirà a mettere in discussione i ruoli di ciascun protagonista.

Artriballes Harragas di Nancy Aluigi Nannini, Valeria Bernardi e Salvatore Fronio documenta l’attività di una scuola di trapezio fondata dai membri di un’associazione di volontariato che opera nel centro storico di Marsiglia. La scuola ha sede all’interno di un isolato chiuso da cancelli collocati dai proprietari degli immobili per isolarsi dal resto del quartiere, percepito come degradato e a rischio. All’interno di questi spazi recintati, tuttavia, i bambini che frequentano l’associazione trovano quella libertà di espressione e di azione che, spesso, nel loro ambiente viene a mancare. I due fondatori della scuola sono impegnati da 10 anni a sviluppare un rapporto con i bambini e le famiglie che sia capace di aggregare gli elementi spesso eterogenei e conflittuali che costituiscono Noailles, quartiere popolare del centro storico della città. È grazie all’insegnamento della disciplina circense, agli atelier di pittura e scultura, ma anche ai momenti di incontro, dialogo e condivisione con le famiglie e gli abitanti del quartiere, che la scuola costituisce una dimensione in cui l’attenzione principale è concentrata sul tentativo di armonizzare le diversità, smussare gli attriti, includere, ma anche discutere, confrontarsi, trovare un punto di incontro. Il documentario fa luce sulle problematiche della città legate, per molti versi, all’esperienza quotidiana della scuola e alle criticità che attraversano Marsiglia, vera e propria sintesi dei problemi sociali della Francia, costituendosi come un intenso atto d’accusa verso le amministrazioni cittadine, spesso cieche verso le esigenze degli abitanti. Frutto di un lavoro articolato nell’arco di otto mesi, il film è uno strumento utile per approfondire la situazione attuale delle città francesi (ma, per molti aspetti, anche del resto d’Europa) ma anche un viaggio coinvolgente in un universo dove bambini e ragazzi hanno ancora la possibilità di dedicarsi a un’arte basata sulla ricerca dell’equilibrio come quella del trapezio, imparando a volteggiare con leggerezza – ma non senza consapevolezza – sugli spazi invasi da cemento, sulla microcriminalità in agguato e sull’emarginazione incalzante. Ciò è possibile proprio grazie alla capacità dei tre documentaristi di ascoltare, osservare e dibattere apertamente con i protagonisti sulle criticità della loro azione, con un’iniziativa analoga a quella condotta dagli operatori attraverso gli strumenti del confronto diretto e dell’ascolto attento verso i problemi degli abitanti del quartiere.

Se in Artriballes Harragas è il legame con il proprio territorio e la preservazione dell’identità sociale a costituirsi come nucleo tematico centrale, in L’insonnia di Devi (2001) di Costanza Quatriglio viene affrontato il tema dello sradicamento familiare e culturale e l’identità problematica di bambini e ragazzi adottati. Il documentario segue il percorso di alcuni adolescenti di origine indiana adottati da famiglie italiane che, grazie a un’associazione di volontariato, intraprendono un percorso di autocoscienza alla riscoperta delle proprie radici, che prevede, come tappa finale, un viaggio in India per visitare i luoghi di nascita e rincontrare il personale degli orfanotrofi nei quali furono ospitati. La regista segue questo percorso, lo affianca e vi si sovrappone (senza tuttavia prevaricarlo) attraverso una serie di interviste ai ragazzi nel corso delle quali emergono tutte le sfumature di una condizione vissuta nella maggior parte dei casi serenamente ma non priva di lati in ombra e, soprattutto, di domande cui spesso le famiglie e gli operatori hanno difficoltà a rispondere. Le esperienze adottive documentate sono tra le più diverse così come, ovviamente, il modo in cui ciascuno dei protagonisti si confronta con i ricordi del passato: c’è chi è stato adottato ancora piccolissimo e dunque è privo di ricordi relativi alle proprie origini, chi ha dovuto attendere in orfanotrofio molto tempo prima di essere adottato, chi conserva un ricordo dei propri genitori perché già abbastanza grande al momento dell’abbandono. Il ritorno in India non costituisce una fuga dal presente e dalla realtà adottiva, né può dar luogo alla possibilità di rientrare in contatto con la famiglia d’origine: l’esperienza, al contrario, è per ognuno dei ragazzi una sorta di riscoperta delle proprie radici inconsce, di una dimensione interiore dalla quale ripartire per ritornare in Italia con un bagaglio identitario e una consapevolezza delle proprie origini più forti. Paradossalmente, proprio questa accresciuta consapevolezza va a completare il percorso adottivo incominciato alcuni anni prima: risarcita, sia pure simbolicamente, quella parte di se stessi rimasta ancorata alla terra d’origine e al ricordo dei genitori biologici attraverso il viaggio, i protagonisti tornano a casa più coscienti di quanto li divide dalle proprie famiglie adottive ma, proprio per questo, anche più forti perché capaci di circoscrivere e individuare la propria diversità in qualcosa di ben preciso che non può intaccare un substrato affettivo forte.

Il ruolo della macchina da presa, in questo caso, è in primo luogo quello di porre ai protagonisti (del viaggio e del documentario) una serie di domande sull’identità propedeutiche al confronto diretto con la realtà d’origine; in seconda battuta di registrare, molto meglio di una relazione o di un diario scritto, le reazioni e le riflessioni nel corso del viaggio e al ritorno a casa. A tratti, tuttavia, emerge come, proprio nel corso del viaggio, la macchina da presa diventi una sorta di specchio, di strumento intimo al quale consegnare impressioni, emozioni, paure che restano inconfessate agli altri membri della “spedizione”, sia che si tratti degli altri ragazzi, sia che si tratti degli accompagnatori, spesso troppo occupati a stilare un bilancio complessivo dell’esperienza e meno attenti ad ascoltare le impressioni dei singoli partecipanti. Ciò è certamente dovuto alla grande sensibilità con cui la regista ha seguito il percorso e alla maggiore libertà nel rapporto con i ragazzi, ma anche e soprattutto alla natura duplice della macchina da presa il cui statuto oscilla costantemente tra i due poli dello strumento di diffusione e propagazione delle immagini e delle idee di ciascuno ma anche di lastra sensibile alla quale affidare i propri dei sentimenti che, solo in un secondo momento, una volta metabolizzate le esperienze, saranno resi pubblici attraverso un’immagine in movimento, una rappresentazione di se stessi, un’identità per così dire “vicaria”.

Quaranta giorni (2003), opera di Emma Rossi Landi, un’altra giovane documentarista italiana, rappresenta una sorta di doppio speculare di L’insonnia di Devi. In questo caso vengono seguite le vicende di un gruppo di bambini orfani provenienti dalle zone contaminate di Chernobyl che vengono accolti in Italia da famiglie volontarie, per trascorrere brevi periodi di recupero fisico e affettivo. In particolare vengono raccontate le storie di tre bambine, Anastasia, Julia e Vika provenienti dall’orfanotrofio di Oshmiany che trascorrono 40 giorni ospiti di due diverse famiglie romane. Vika e Julia sono due gemelle di nove anni, accolte per la seconda volta da Raffaella e Augusto, una coppia senza figli. Anastasia è la prima volta che esce dal suo Paese ed è ospite di Loredana e Piergiorgio, giovane coppia con due figlie piccole. Dal giorno dell’arrivo a quello della partenza la telecamera segue il rapporto che si instaura tra le piccole ospiti e le famiglie, indagando motivazioni, significato ed effetti di questa accoglienza. Le paure e le aspettative di bambini e adulti, il rapporto a volte facile e altre doloroso che si crea in questa breve e intensa convivenza sono il centro del racconto. Lontano da preconcetti o da conclusioni affrettate il documentario diviene uno strumento di rivelazione di una realtà che potrebbe apparire del tutto priva di criticità, vista anche la breve durata dell’esperienza e la natura non vincolante della stessa. L’iniziativa, pur lodevole e vissuta da ognuno dei partecipanti con entusiasmo, pone problemi piccoli e grandi ai quali non è facile trovare delle risposte valide per tutti: seguiti con discrezione ma anche con grande costanza e acume dalla macchina da presa i protagonisti devono ammettere come la relazione con le giovani ospiti non sia affatto semplice e comporti una continua rimessa in discussione dei presupposti di partenza. Questo è possibile, ancora una volta, grazie alla funzione “catartica” della macchina da presa, vero e proprio occhio capace di captare e di restituire (a volte in maniera davvero impietosa) il disagio e l’imbarazzo degli adulti nell’accogliere chi, fin dalla più tenera età, è comunque portatore di una diversità che, più spesso di quanto non s’immagini, dà origine più che a un incontro a uno scontro (ma che, fortunatamente, nei casi illustrati non porta mai al conflitto). In questo caso, più che una sorta di complicità e intesa tra i soggetti sembra determinante una sorta di “effetto sorpresa”, tanto nei confronti dell’esperienza in sé quanto verso la presenza del dispositivo di ripresa.

Anche Lonco/Chupaseos (2004) di Anna Recalde Miranda racconta di distanze e differenze, pur se tra individui della stessa nazionalità, ovvero tra due gruppi di bambini cileni appartenenti a contesti sociali e culturali agli antipodi: il primo, composto da figli della buona borghesia di Santiago, frequenta una scuola privata francese, il secondo una scuola pubblica rurale a un migliaio di chilometri dalla capitale ed è composto dai figli dei contadini della zona di origine Mapuche, indios del Sud del Cile e della Patagonia argentina. La regista, che opera all’interno di un’associazione impegnata nell’assistenza alle popolazioni più svantaggiate del Paese, ha messo a disposizione dei ragazzini la sua macchina da presa: attraverso una serie di brevi interviste volte a far emergere la visione che ognuno dei due gruppi ha dell’altro, ma anche e soprattutto per mezzo di Lonco e Chupaseos, i cortometraggi d'animazione da loro scritti e realizzati sotto la sua guida. In questo caso, dunque, il documentario non è solo il mezzo di registrazione della realtà ma un vero e proprio schermo proiettivo sul quale vanno a riprodursi – sia in forma di testimonianza diretta sia attraverso la metafora della finzione – immaginario sociale, fantasia individuale e realtà di vita dei due gruppi: emergono così i desideri, le aspirazioni, i timori di ciascuno dei due nuclei che, sorprendentemente, risultano non molto diversi tra loro.

Con Shoot Back! (2005) il documentarista Michael Trabitzsch si spinge oltre e organizza per conto di un’associazione di volontariato di Nairobi un vero e proprio corso di cinema per alcuni giovani di una delle bidonville più popolose e degradate della capitale del Kenia. La cinepresa documenta, così, le varie fasi del programma messo a punto per sei adolescenti del luogo che, telecamera alla mano, documentano impietosamente il degrado nel quale vivono: tossicodipendenza, alcolismo, violenza, criminalità, disoccupazione vengono ripresi dal doppio punto di vista di chi al termine della sua missione tornerà a casa e di coloro che, al contrario, resteranno sul campo, più coscienti della realtà infernale nella quale vivono e, forse proprio per questo, più disillusi sulle reali possibilità di uscirne. A essere rivelata, in questo caso è proprio quella capacità propria del “documentario di partecipazione” di mettere in comunicazione (ma anche in conflitto) il soggetto altro delle riprese, il regista, la macchina da presa e il destinatario finale delle immagini, ovvero lo spettatore. Questo metodo tende a mettere in contraddizione distanze e ruoli prefissati, abbattendo alcuni dei presupposti che ancora dominano l’immaginario collettivo, tanto quello sul volontariato quanto quello sul documentario sociale, a incominciare da quello che vorrebbe rappresentare l’alterità in quanto realtà esotica, ovvero come un mondo immobile, bloccato nella sua condizione, possibile oggetto tanto di una rappresentazione senza sorprese quanto di un salvataggio dall’esito più o meno scontato che, tuttavia, proprio come speriamo di aver dimostrato, non può che incominciare da un atto di autocoscienza da parte di tutti i soggetti in campo, spettatore incluso.

 Fabrizio Colamartino

 

I film del percorso

  •  L’insonnia di Devi, Costanza Quatriglio, Italia, 2001*
  • Quaranta giorni, Emma Rossi Landi, Italia, 2003
  • Lonco/Chupaseos, Anna Recalde Miranda, Cile, 2004
  • Artriballes Harragas, Nancy Aluigi Nannini, Valeria Bernardi e Salvatore Fronio, Francia/Italia, 2005

 

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