Rom città aperta

Dagli immaginari alle immagini, dai luoghi comuni ai luoghi in comune.

 

Marco Dalla Gassa, Fabrizio Colamartino, in collaborazione con Valentina Ferrucci.*

 

L’ultima edizione del Sottodiciotto Filmfestival – Torino Schermi Giovani, tenutasi a Torino dal 26 novembre al 5 dicembre 2009, ha ospitato tra i suoi programmi speciali Rom città aperta, un evento dedicato al mondo dei Rom e organizzato dal Centro Nazionale di Documentazione e Analisi per l’Infanzia e l’Adolescenza in collaborazione con il Centro Servizi Educativi del Comune di Torino e Aiace Torino. A curarne i contenuti, oltre a un’équipe di consulenti del CNDA, è stata chiamata Laura Halilovic, regista di origini romanì di soli 20 anni ma già autrice del pluripremiato Io, la mia famiglia Rom e Woody Allen. L’obiettivo principale dell’evento è stato quello di raccontare la cultura rom a 360° attraverso uno strumento come il cinema che solitamente veicola stereotipi e immaginari codificati ma che in questa occasione è stato ribaltato e trasformato in uno spazio privilegiato di rappresentazione e superamento dei pregiudizi, nonché nel punto di partenza per una riflessione sulla reale efficacia delle politiche a favore delle minoranze rom e sinte.

Primo passo per rinnovare uno sguardo di conoscenza è stata la visione di una compagine di documentari provenienti da tutta l’Europa, molti dei quali in anteprima italiana. Si è andato da O Topanki – About the Shoes (Repubblica Ceca, 2007) di Rozálie Kohoutová, incentrato sul tema del difficile inserimento scolastico dei bambini rom in un villaggio rurale slovacco a La bougie n’est pas faite de cire mais de flammes (Francia, 2008) di Marion Gervaise, storia di Cassandra, una piccola rom di origini romene di stanza a Montreuil che si improvvisa “mediatrice culturale” per aiutare i genitori a trovare una soluzione abitativa dignitosa con l’aiuto di un assistente sociale, da Gipsy Summer (Bulgaria, 2006)di Kristina Nikolova, vera e propria elegia della vita nomade, a Citizen Manouche (Francia, 2006) di Thomas Chansou, che segue tre giovani di origini sinte nel loro viaggio dalla Francia in Piemonte alla ricerca delle proprie radici culturali, da Carmen Meets Borat (Paesi Bassi, 208) di Mercedes Stalenhoef che, descrivendo i sogni e le speranze di una giovane rom romena, affronta in tono semiserio il tema del travisamento della cultura zigana, fino a Swing (Francia, 2002) di Tony Gatlif, storia dell’amicizia tra un’adolescente di origini manouche e un coetaneo gagè francese, occasione per immergersi nella cultura musicale di quel popolo, a partire dalla conoscenza di uno dei suoi più illustri portavoce, Django Reinhardt. L’insieme delle pellicole, in futuro disponibili (insieme a molte altre incentrate sullo stesso tema ma non inserite nel programma della rassegna per ovvi motivi di spazio) alla visione presso la Biblioteca Innocenti-Library di Firenze, ha mostrato un ventaglio di racconti e di tematiche straordinariamente ricco, capace di includere tutte le questioni insite in ogni percorso di integrazione sociale dei rom e dei sinti: il problema abitativo, la salvaguardia dell’identità e delle proprie tradizioni, la scolarizzazione dei bambini rom, lo sfruttamento da parte dei gagè di alcuni luoghi comuni sui Rom per interessi economici o politici, gli spazi di dialogo e di comprensione reciproca che nascono il più delle volte dal basso e in micro-comunità.

Secondo passo, meno scontato, ha riguardato la rivisitazione di alcuni film del cinema muto che fin dalle sue prime produzioni tendeva a restituire un’immagine cristallizzata della minoranza gitana. In modo particolare sono stati proiettati due cortometraggi di David W. Griffith, padre del cinema americano, che propongono lo stereotipo dello zingaro imbroglione e ladro di bambini o dello zingaro circense. I due film sono stati musicati dal vivo, proprio come avveniva nei cinematografi dei primi del Novecento: tuttavia, se uno dei due lavori, La villa solitaria, è stato accompagnato in maniera “classica” dal maestro Stefano Maccagno uno dei pochissimi pianisti specializzati nel recuperare le sonorità e le atmosfere degli spettacoli da nickelodeon, il secondo, Le avventure di Dollie, ha subito una “manipolazione” musicale inedita ed originale, realizzata dai Bruskoi Triu, un gruppo di musica gitana, che ha commentato le immagini sullo schermo utilizzando un repertorio di musica manouche e della tradizione popolare sinti per dar vita ad una sorta di ironico “contrappasso” tra banda audio e banda video, tra stereotipi visivi negativi e improvvisazioni sonore positive.

Un terzo momento di visione è stato pensato per le scuole, vero pubblico di riferimento del Sottodiciotto Filmfestival. Le proiezioni di Swing ma soprattutto di Io, la mia famiglia Rom e Woody Allen alla presenza dell’autrice e di una decina di classi scolastiche provenienti da tutta Italia, hanno consentito ai giovani spettatori presenti in sala un confronto stringente e inedito con la rappresentante di una minoranza con cui solitamente non hanno contatto e dialogo, dimostrandosi una valida occasione di crescita per tutti, partecipanti e organizzatori, come hanno confermato le lunghe conversazioni e confronti nate al termine delle proiezioni.

Quest’ultimo rimando ci consente di ricordare che Rom città aperta è stato anche, se non soprattutto, uno spazio di confronto sulla condizione dei giovani rom in Italia che ha visto la partecipazione di numerosi studiosi, artisti, membri della comunità romanì e del mondo dell’associazionismo, rappresentanti delle istituzioni. Oltre alle occasioni in cui hanno preso la parola Moni Ovadia (attraverso un video preregistrato), Pino Petruzzelli (che ha presentato il suo libro Non chiamarmi zingaro) e Costanza Quatriglio (in un dialogo tutto al femminile con Laura Halilovic), il principale focus di discussione si è avuto durante la tavola rotonda intitolata L’integrazione possibile? moderata da Gabriela Jacomella, giornalista del Corriere della Sera, alla presenza di Piercarlo Pazè, magistrato e direttore della rivista “Minori e giustizia”, Maurizio Pagani responsabile dell’Opera Nomadi di Milano, Dejan Stoijanovic, esponente dell’Associazione Sucar Drom, Ilda Curti, Assessore alle Politiche per l'integrazione del Comune di Torino, Massimo Conte, ricercatore e co-fondatore dell’Agenzia di ricerca sociale Codici, Anna Maria Colella, direttrice dell’Agenzia regionale per le adozioni internazionali – Regione Piemonte, Carla Bonino, dirigente del Settore Integrazione Educativa della Città di Torino. L’incontro, pur partendo dalla contingenza della cronaca (proprio in quei giorni il Tribunale per i minorenni di Napoli nega gli arresti domiciliari a una ragazzina rom colpevole di non aver rigettato la sua identità culturale che la porterebbe inevitabilmente, secondo l'opinione dei giudici, alla reiterazione di un comportamento criminale), ha cercato di superare gli steccati ideologici e di mettere in luce non solo i problemi, l'indifferenza, i conflitti (spesso alimentati da motivi esclusivamente politico-elettorali) che animano la dialettica rom-gagè ma anche i casi in cui si attivano politiche per l’integrazione praticabili e ragionevoli.

Sul primo punto (pregiudizi e conflitti), gran parte degli interventi si è soffermata sui gap culturali ancora esistenti nella nostra società e sulla scarsa volontà delle istituzioni – legate al consenso popolare/elettorale – di spendersi per affrontare questo tipo di problemi. L’assessore Curti ha evidenziato, in quanto sintomatico di una certa forma-mentis, il fatto di possedere sia la delega alle politiche per l’integrazione, sia quella al decoro urbano, evidenziando un implicito assioma tra le due competenze e di conseguenza un altrettanto implicito invito ad attivarsi solo sul piano delle apparenze, mascherando i problemi reali attraverso superficiali operazioni di maquillage urbano. Tra l’altro, fa notare ancora Ilda Curti, sono spesso le politiche sociali a costruire alcune situazioni di disagio, come ad esempio quella del nomadismo attuale delle popolazioni rom che è causato essenzialmente dalla politica che privilegia le soluzioni di sgombero invece di favorire le politiche abitative. Di fronte a tali “consuetudini”, il volontarismo delle amministrazioni comunali – tra cui inserisce con forza il Comune di Torino – non può risolvere il problema che ha confini più ampi e che va affrontato in termini generali con politiche non contraddittorie. A tal proposito aggiunge un dato di fatto Piercarlo Pazè: le attività dell’Osservatorio sull’Infanzia, in particolare del gruppo di lavoro che si è occupato di ”bambini rom, sinti e caminanti”, da cui sono derivate le specifiche raccomandazioni indicate nel piano d’azione per l’infanzia e l’adolescenza, sono state stralciate dai temi affrontati nella Conferenza nazionale sull’infanzia tenutasi a Napoli nel novembre 2009, dando così un chiaro segnale di indifferenza sul tema dei minori rom.

Peraltro, la grande esperienza giudiziaria di Pazè conferma, anche grazie a un'analisi puntuale dei dati sulla giustizia minorile, che il problema dei minori rom viene affrontato troppo spesso in quanto problema esclusivamente giudiziario, prima che sociale. A tal proposito Maurizio Pagani ricorda come la sentenza di Napoli, fondata su un pregiudizio culturale e sulla paura dell’Altro, non sia che la punta d’iceberg di una costante “discriminazione giudiziaria” soprattutto nell’accesso alle misure alternative, di fatto precluse ai minori rom nonostante siano obbligatorie per legge. Massimo Conte aggiunge, inoltre, come il pregiudizio degli organi giudiziari sia ambivalente perché appoggiato su uno schema che vede da un lato il minore rom in quanto vittima di sfruttamento, dall’altro come autore di reato e quindi “colluso con una certa mentalità criminale”: tale schematizzazione non aiuta la reale comprensione del fenomeno nella sua complessità, non prende in esame altri fattori sociali discriminanti ed arriva a contraddizioni in termini nefaste, quando affronta casi di riduzione in schiavitù dei minori rom, per poi decretarne la “intrattabilità” da parte del sistema sociale, vista la loro presunta “collusione”, arrivando ad una sorta di “abbandono istituzionale”.

Dejan Stoijanovich, rappresentante della comunità Rom, s’incarica di allargare di nuovo il quadro delle discriminazioni ed emarginazioni a un piano non solo giudiziario, ricordando come siano in generale alcune norme e leggi del Parlamento a statuire, nei fatti, una sorta di antiziganismo: esse infatti incoraggiano la disgregazione delle famiglie (attraverso il “pacchetto sicurezza”), il trattamento della questione abitativa in termini di sicurezza nazionale (in Europa solo l’Italia affida le questioni relative all’inclusione sociale dei Rom al Ministro degli Interni), una disparità di trattamenti e opportunità che lede alla radice le possibilità di integrazione della comunità Rom nel nostro paese. Carla Bonino, a tal proposito, cerca di spostare il focus della discussione sulla questione dell’identità rom, difficile da identificare con chiarezza per via delle molteplici esperienze comunitarie e soprattutto non riconosciuta a livello europeo, come si evince dal dibattito in corso sulla tutela delle minoranze etniche: spesso sono i paradigmi culturali, le forme di conoscenza e partecipazione, gli spazi di condivisione, la presenza di un’efficace rappresentanza delle minoranze a mancare. La prima parte del discorso ha insomma evidenziato diverse problematicità soprattutto sul piano degli interventi delle istituzioni: l’assenza di volontà politica per paura di perdere consenso elettorale, un’incapacità di attivare azioni sociali che facciano realmente sistema, una difficoltà di dialogo e confronto con le comunità romanì, una serie di leggi che favoriscono la discriminazione e la diseguaglianza sociale, una assenza di organizzazione e lobby culturale da parte delle comunità gitane.

Il secondo punto affrontato dalla tavola rotonda, in una fase della discussione aperta anche agli interventi del pubblico in sala, ha riguardato i percorsi di buone pratiche realizzati da associazioni, enti locali e volontariato per favorire processi di integrazione. Una ricognizione sintetica sul lavoro portato avanti dall’Opera Nomadi (specialmente sul fronte delle politiche abitative) e dall’Agenzia Codici (su quello dell’educativa di strada) a Milano e dal Comune di Torino (nella riqualificazione di alcune zone della città partendo dal coinvolgimento di associazioni e comunità territoriali) e dall’Agenzia regionale per le adozioni internazionali della Regione Piemonte (nel sostegno ad alcuni progetti di assistenza e tutela minorile portati avanti in Romania e Bulgaria e nella gestione delle adozioni di bambini Rom con le famiglie italiane) ha aperto il campo al confronto su quali siano i migliori veicoli di conoscenza del problema e di integrazione dei giovani Rom. Dal dibattito è emersa una comune visione circa gli ambiti che meriterebbero un maggiore investimento: il sostegno scolastico, le politiche di accesso ai servizi alla persona, le politiche di inserimento lavorativo che consentirebbero condizioni di vita più dignitose e un maggiore livello di aspettativa scolastica e sociale all’interno della comunità rom.

Oltre alle problematiche già evidenziate, a rendere difficili gli interventi concorre la difficoltà di comunicazione con le diverse realtà rom e un reale interesse nei confronti della loro specificità. Una donna di origini sinti, animatrice di un’associazione di volontariato, ha segnalato, ad esempio, la difficoltà a mantenere la propria identità dato che per facilitare il contatto con i gagè si vede di fatto costretta ad assumere abbigliamento e atteggiamenti a immagine delle donne italiane. Altro reale ostacolo – portato all’attenzione della platea da Andrea Porcellana della Cooperativa Liberi Tutti – riguarda l’assenza di co-progettazione con le comunità rom per quanto riguarda gli interventi sociali, sia per mancanza di volontà delle istituzioni, sia per mancanza di “protagonismo” della comunità rom. Anche i mediatori culturali – ritenuti importanti perché tramite di una comunicazione più efficace tra comunità e i cittadini - spesso sono rigettate dagli stessi rom: nel consegnare per intero la comunicazione con le istituzioni a queste figure i Rom da un lato riconoscono il pericolo di una cristallizzazione della propria  cultura in continua trasformazione, dall'altro il rischio di un eccessivo protagonismo degli stessi mediatori.

Nel corso del giro di interventi ed opinioni, estremamente variegato, è emerso un altro punto fermo: la difficoltà di affermare un’identità Rom, non essendo questa sostenuta da una cultura omogenea e codificata, a fronte di una discriminazione omogenea nei confronti della popolazione rom che rende “rom chi è trattato da rom”. Da questo punto di vista i patti di legalità, le rappresentanze, i mediatori culturali rischiano di essere soltanto un meccanismo di differenziazione culturale, anche a fronte delle molte esperienze positive di mediazione nei contesti cittadini, capaci di agire sul pregiudizio reciproco, per una migliore convivenza.

Dal riscontro positivo guadagnato dall’evento sia da parte del pubblico che ha affollato le sale del Cinema Massimo, sia da parte della stampa quotidiana e online che ne ha seguito le varie fasi, se ne può trarre un ultimo insegnamento: esiste ancora lo spazio, la curiosità, l’interesse e un vocabolario condiviso per rimettere in gioco le definizioni, i luoghi comuni, le cristallizzazioni del “noi” e del “loro”, a partire da casi di integrazione possibile che solitamente non vengono raccontati e rappresentati e che, al contrario, rappresentano la base su cui costruire ogni forma di dialogo e ogni possibile soluzione dei problemi. Trasformando – come Rom città aperta ha cercato di fare – gli immaginari (codificati) in immagini (da codificare insieme) e i luoghi comuni in luoghi in comune (da costruire e abitare insieme).

  (Crediti foto)

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* apparso in «Cittadini in crescita», 1/2010, pp. 91-94