Robert Bresson

15/07/2009 Titoli Rassegne filmografiche
Presentazione del regista

Robert Bresson nasce il 25 settembre 1907 a Bromont-Lamothe. Dopo gli studi si dedica alla pittura, ed esordisce nel cinema soltanto nel 1943, a trentasei anni, con La conversa di Belfort, film che prende in esame i complicati meccanismi psicologici e morali, i conflitti di coscienza, i rapporti fra le novizie e i contrasti tra conversa e madre superiora presenti all'interno di un convento di suore. Con il primo film, il cineasta comincia a segnalarsi per le originali peculiarità del suo cinema, caratterizzato da un costante conflitto tra spiritualità e razionalismo, laddove, nel primo caso, s'intende una sorta di misticismo religioso attraverso il quale possono essere lette tutte le opere del maestro francese, mentre, nel secondo, si rileva una sorta di profondo pessimismo materialista che permea la costruzione quasi claustrofobica di storie e personaggi. Ma il cinema di Bresson si definisce anche, e in certi casi soprattutto, per una rigorosità stilistica basata sulla stilizzazione estrema dei quadri, i quali ritagliano spesso dettagli significativi piuttosto che spazi più ampi e chiarificatori. Il cineasta opera per sottrazione degli elementi drammatici: le inquadrature contemplano porzioni di corpo e oggetti più che prodursi in una dettagliata descrizione, i dialoghi sono scarsi ed essenziali. Queste caratteristiche sono evidenti in tutti i film del regista francese da Il diario di un curato di campagna (1951), nel quale il conflitto morale di un giovane parroco è mostrato attraverso procedure quasi anticinematografiche, con l'azione che si sviluppa in base alle note che il sacerdote trascrive sul suo diario, in modo da creare una complessa relazione tra suono e immagini, a Un condannato a morte è fuggito (1956), in cui l'organizzazione della fuga di un condannato per una colpa ingiusta diventa operazione catartica, a Pickpocket (1959), nel quale la mancanza di moralità si trasforma in un percorso di ricerca di tipo esistenziale, ad Au hasard Balthazar (1966), vicenda di indifferenza, solitudine ed egoismo, a Lancillotto e Ginevra (1974), in cui diventa quasi estremistico il discorso operato da Bresson, che arriva ad inquadrare spesso e volentieri soltanto la parte inferiore dei personaggi e dei cavalli, esibendo dettagli delle armature e dei finimenti degli animali, per giungere, infine, ai due ultimi capitoli della sua produzione, Il diavolo probabilmente (1978) e L'argent (1983), nei quali si fa ancora più aspra la riflessione del regista sulla società moderna e sulle scarse vie d'uscita che essa offre.