di John Hillcoat
The Road di John Hillcoat, tratto dall’omonimo romanzo di Cormac McCarthy, propone un’intensa riflessione sulla genitorialità all’interno di una cornice narrativa fantascientifica e apocalittica che solo in apparenza può risultare fuorviante. Ci troviamo in un futuro prossimo e un cataclisma non ben specificato ha interrotto il ciclo vitale della terra: il sole è oscurato, la vegetazione morta, gli animali estinti. Gli esseri umani sopravvivono come possono, mangiando qualche razione di cibo in scatola trovata qua e là e i più disperati (la maggioranza) dandosi alla violenza e al cannibalismo. È un tempo cui è stata sottratta qualsiasi forma di solidarietà e fratellanza e dove vigono ormai solo gli istinti più brutali. In questo contesto di terrore e morte, solo un padre e un figlio preadolescente sembrano ancora nutrire speranze di un futuro migliore e mantengono un barlume di umanità e moralità. Vagano verso sud alla ricerca di condizioni ambientali più miti. L’impresa non è facile: mancano cibo, forze, salute, e bande di criminali infestano le strade alla ricerca di schiavi. L’uomo è disperato, fa di tutto per proteggere il figlio e sostentarlo senza cedere all’omicidio e all’antropofagia. Conserva a portata di mano una pistola con due colpi in canna: quelli che servono per un doppio suicidio in caso di cattura. Giungere al mare diventa, giorno dopo giorno, l’ultima esile speranza di sopravvivenza. Si diceva che The Road è un apologo sulla genitorialità, sul suo senso, sui suoi limiti. Certo le modalità in cui essa si esprime sono radicali, improbabili, eccessive e la cappa di disperazione che pervade il racconto (ben rappresentata da una fotografia che esalta i grigi, i colori spenti, le mezze tinte e da una colonna sonora tutta giocata su rumori stridenti e fastidiosi) sembra rendere il tutto irrealistico e inverosimile. Eppure, il quadro post-atomico descritto, dove ormai nemmeno le leggi naturali hanno alcun senso (può esserci ancora ossigeno nell’atmosfera se sulla terra non c’è più vegetazione?), consente di andare proprio alla radice della questione (che cosa vuol dire essere padre?), alla sua concreta e indivisibile dimensione originaria, per monitorarne il funzionamento di base. Padre e figlio sembrano condividere il medesimo destino degli uomini protagonisti del mito della caverna di Platone, incatenati in fondo a una grotta, in una realtà fatta di ombre, proiezione ottenebrata e de-umanizzata di un mondo lontano (che nel nostro caso riguarda un non ben precisato passato felice), dalla quale peraltro non possono più liberarsi senza accecarsi e morire. Se il mito inventato dal filosofo greco serviva ad allegorizzare in chiave positiva il processo di conoscenza dell’uomo e la difficoltà di comunicazione del sapere, qui mette in simbolo – ma un simbolo tetro e soffocante – la stretta interdipendenza tra educazione e condivisione dei valori, tra singolo atto pedagogico e rete sociale in cui si inserisce. La figura paterna del film (non a caso senza un nome identificativo) si carica sulle spalle, sia sul piano simbolico che fisico, tutti i doveri del suo ruolo “istituzionale”: proteggere la prole dai pericoli e dalle malattie, alimentarla, educarla a principi etici con l’esempio, la testimonianza, la coerenza dei comportamenti e, infine, insegnarle l’autonomia. Tutti doveri che il protagonista conosce e che cerca di compiere al meglio. Nondimeno, venuta meno una comunità verso la quale indirizzare tale sforzo pedagogico, ogni sua azione rischia di diventare inutile e controproducente, anche se compiuta a fin di bene: inizia rinunciando a piccoli gesti di altruismo (nei confronti di un vecchio e di un uomo di colore) perché diminuiscono le probabilità di sopravvivenza (per poi ascoltare i suggerimenti del figlio e tornare sui suoi passi), prosegue maturando una sempre maggiore aggressività e paura, finisce per reagire come un animale ferito quando viene colpito da una freccia nel corso di una perlustrazione, trasformandosi poco per volta in una bestia che conosce solo la legge dell’homo homini lupus e assomiglia sempre di più ai “cattivi” da cui vuole tenere lontano il figlio (il quale infatti chiede spesso al genitore «noi siamo sempre i buoni?»). Nel lento e ambiguo processo di brutalizzazione del padre (mai definitivo e sempre bilanciato dalla bontà congenita del figlio) risiede l’aspetto più attuale dell’opera: in esso si rintraccia il sottile confine che intercorre tra morale e amorale, pedagogico e antipedagogico, bene e male, e che in un contesto di confusione, assenza di regole e ingiustizia generalizzata come il nostro (fatte ovviamente le debite proporzioni), risulta decisivo nel quadro di crescita delle generazioni più giovani. Venendo meno i principi e la condivisione sociale, la famiglia rischia di diventare un nucleo protettivo e insieme isolato, autosufficiente e conflittuale nei confronti dell’esterno. Educare alla cittadinanza, in questo modo, diventerà sempre più difficile, ben prima che una catastrofe elimini, una volta per tutte, il genere umano dalla terra.
Marco Dalla Gassa
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