di Lous Malle
(USA, 1978)
Sinossi
1912. Violet è la figlia dodicenne di Hattie, una delle tante prostitute che vive nella casa di tolleranza della signora Nell, situata nel quartiere di Storyville a New Orleans. Violet è libera di fare quello che vuole, tenuta distrattamente a distanza dalla madre – interessata per lo più ad accasarsi con qualche cliente – gioca con i coetanei, figli di prostitute o dei domestici, si diverte ad assistere alle prestazioni amatoriali delle ragazze. La sua condotta è perciò molto sbarazzina, ignara di divieti morali, gioiosa (per la libertà) e triste (per la solitudine) insieme. Nella casa, intanto, si presenta a lavorare un fotografo, Bellocq, che ama ritrarre le prostitute e viene chiamato da queste ultime ‘papà’ visto che non approfitta mai delle ragazze. Sempre più presente nel casino, Bellocq pare essere innamorato di Hattie, e Violet ne è gelosa. Ma ben presto Hattie si leva di torno, giacché riesce a convincere un uomo d’affari a sposarla. Abbandonata dalla madre con la promessa di tornare un giorno a prenderla – Hattie non aveva detto al futuro marito che Violet era sua figlia – la piccola finisce per godere di ancora maggiore libertà e inizia a corteggiare sfacciatamente Bellocq. Quando arrivano le prime mestruazioni, senza la minima apparente difficoltà, accetta di essere messa all’asta tra i clienti della casa e di ‘donare’ la propria verginità al miglior offerente. Diventata a pieno diritto prostituta, Violet continua l’opera di seduzione del fotografo finché riesce a installarsi in casa dell’uomo e a farsi sposare. La convivenza tra i due è difficile, visto che Bellocq è indeciso se cedere alle tentazioni della carne oppure mantenere un atteggiamento paterno nei confronti della ragazzina. Ma il problema viene presto risolto. Hattie torna a prelevarla con il marito, l'arricchito signor Fuller, e se la porta via.
Presentazione critica
Louis Malle ha sempre amato la provocazione, lo spiazzamento, l’istigazione delle più segrete e indigeste ‘immoralità’ umane. Nel suo lungo percorso registico, egli ha spesso cercato di piazzare la sua macchina da presa in situazioni limite, davanti a personaggi dotati di un’etica apparentemente ‘naturale’, ma concretamente perversa, costringendo lo spettatore a rispecchiarsi in essi e a fare i conti con le analogie che li accomunano ai personaggi rappresentati: in Le Feu Follet (1963) il protagonista è un aspirante suicida, in Nome e cognome: Lacombe Lucien (1974) l’eroe è un ragazzotto stupido che diventa un agente delle SS tedesche e si innamora di un’ebrea, in Il ladro (1967), il personaggio principale è un rapinatore morbosamente affascinato dall’arte del rubare. Ma è soprattutto nel campo della sfera sessuale, della nascita degli impulsi erotici (specie negli adolescenti) che Louis Malle ha cercato, da una prospettiva che, a volte, lo avvicina agli esperimenti surrealisti e anarchici, di turbare le coscienze, di scavare nella psiche umana, di inoltrarsi in territori poco battuti: ecco allora film che non esitano a parlare di incesto tra madre e figlio (Soffio al cuore, 1970, che racconta la storia di un adolescente che è iniziato al sesso da una prostituta e poi da sua madre), o tra fratello e sorella (Il danno, 1992, tratta appunto il tema della relazione carnale tra consanguinei) e di pedofilia o di iniziazione alla prostituzione come nel caso di Pretty baby. Lo stile calligrafico scelto dal regista francese per raccontare la storia di Violet – ambientazione rococò, riprese quasi esclusivamente in interni, una fotografia che predilige le tinte pastello e i mezzi toni – sgombera il campo da qualsiasi tipo di lettura morbosa e pruriginosa, ma anche da letture di carattere etico o salvifico. In altre parole Pretty baby non è un remake di Lolita. A differenza della ninfetta di Kubrick, Violet non ha consapevolezza della propria carica erotica, non manda in perdizione i personaggi che incontra, né tanto meno si prende gioco degli altri. L’aspetto marcatamente sessuale del racconto è in realtà una scusa per riflettere sull’assenza di una figura materna e paterna, sui gap relazionali che l’essere orfani crea nei bambini, sul crollo della figura genitoriale. L’ambientazione nel bordello della signora Nell serve allora come cassa di amplificazione di questo disagio. Violet gioca un ruolo ingenuo e infantile insieme. Imita la madre come farebbe qualsiasi figlia, e non lo fa solo nelle mosse e negli atteggiamenti, ma anche nelle ‘scelte di vita’ (si sposa con Bellocq come la madre si è sposata con l’uomo di affari), fa l’adulta con i suoi coetanei, promettendo future prestazioni sessuali, ma con gli adulti si comporta in maniera infantile, gelosa, immatura. Più che adescare Bellocq, lo cerca come figura paterna (la gelosia che nutre Violet per la madre non è forse riconducibile al complesso di Elettra?). I comportamenti devianti di Violet trovano la loro spiegazione sostanzialmente nell’assenza dei genitori o nell’incapacità di mantenere il proprio ruolo di genitori. Hattie sparisce quasi subito, Bellocq – chiamato, è utile ricordarlo, ‘papà’ dalle ragazze, Violet compresa – cade nella tentazione sessuale, dopo che era riuscito a sottrarsi alle altre ospiti della casa. Paradossalmente l’unica che si fa carico dell’educazione della ragazzina è la signora Nell che, con modi forse un po’ troppo rudi, è l’unica a punirla quando sbaglia. Il nome della bambina può, in sintesi, racchiudere il senso della storia. Violet è come un fiore, bella e inconsapevole della sua bellezza. Coglierla significa reciderla, ma reciderla è il male minore se prima nessuno ha pensato ad innaffiarla e a farla crescere. Viola è anche il colore del lutto e della scomparsa. Violet ha, infine, un’assonanza non casuale con la parola violence, ovvero violenza. La violenza che le viene recata lasciandola sola o vendendola al migliore offerente. Così quando Hattie verrà a riprendersi la figlia, la ragazza non saprà resistere alle lusinghe di una famiglia normale, con una madre finalmente rispettabile, un padre che non esita a lottare per averla. Benché sposata con Bellocq lo lascerà solo, incapace, quest’ultimo, di mantenere nei fatti il nome – papà – che in modo errato gli era stato fin lì assegnato. Marco Dalla Gassa