Osama

di Siddiq Barmak

(Afganistan, Giappone, Irlanda, 2003)

Sinossi

Un giovane mendicante di nome Endendi sparge fumi di incenso per i passanti in cambio di un po' di elemosina: si rivolge alla macchina da presa che lo sta riprendendo - probabilmente quella di un reporter occidentale - e chiede un dollaro che una mano, prontamente, gli allunga. Siamo a Kabul, in Afghanistan, nel 1996, pochi mesi dopo la presa del potere da parte dei Talebani. La madre della dodicenne Maria è vedova e lavora come medico in un ospedale della città: fino ad ora è riuscita, sia pur tra moltissime difficoltà, a continuare a lavorare, malgrado sia stata più volte minacciata dai Talebani che proibiscono alle donne non accompagnate da un uomo di circolare liberamente. Madre e figlia si ritrovano coinvolte in una manifestazione di donne, quasi tutte vedove di guerra, che chiedono più libertà, la possibilità di lavorare, studiare e curarsi: il corteo, però, viene disperso da una violenta azione delle milizie talebane. Stretta tra il crescente pericolo di venire imprigionata e la necessità di trovare una fonte di sostentamento per se stessa, la figlia e l'anziana madre, la donna decide di travestire Maria da ragazzino affinché possa lavorare presso la bottega di un uomo che si è offerto di aiutarle. Per un po' il trucco regge ma quando Maria, che nel frattempo ha assunto il nome di Osama, si reca insieme a tutti gli altri uomini in moschea per la preghiera, attira l'attenzione di uno dei capi talebani a causa della sua ignoranza delle regole imposte dal rituale. Costretta a frequentare una scuola coranica insieme a centinaia di altri ragazzini, viene aiutata da Endendi. Ben presto viene scoperta, costretta al burqua, imprigionata e processata dal tribunale islamico insieme ai giornalisti occidentali colpevoli di aver ripreso le manifestazioni di protesta delle donne di Kabul. Maria riesce a salvarsi dalla lapidazione solo grazie all'intervento del mullah della moschea che la chiede in moglie al giudice e la porta nella sua casa. Qui Maria scopre che l'uomo possiede molte altre donne, ognuna delle quali ha una storia di sofferenza e dolore da raccontare. In un ultimo vano tentativo le donne della casa tentano di sottrarre Maria alla prima notte di nozze con il vecchio mullah nascondendola in un pozzo: ma il suo destino è segnato e, ormai rassegnata, la ragazzina si piega al volere del suo nuovo padrone.

Introduzione al Film

Un film importante

Siddiq Barmak e il suo film Osama saranno ricordati negli annali del cinema per diverse ragioni, alcune delle quali estranee al valore intrinseco della pellicola. La prima è che si tratta del primo film di produzione afgana girato all'indomani dell'11 settembre 2001 e della caduta del regime dei talebani in seguito alla guerra. Probabilmente si tratta di una delle pochissime pellicole (nella già scarna filmografia nazionale comprendente appena quarantatrè lungometraggi) girate nei ventitrè anni di guerra e dittatura che ha attraversato il paese dall'invasione del 1980 da parte delle truppe dell'Unione Sovietica. Pur trattandosi di una co-produzione, il fatto costituisce in sé un elemento importante nell'ottica di una ripresa della vita civile di un Paese, sia pur lentissima e ostacolata da innumerevoli problemi: da un lato perché, in una nazione stremata e bisognosa di aiuti in ogni campo, la produzione di un film è il primo flebile segnale della possibilità di un ritorno alla normalità, dall'altro perché proprio la dittatura talebana, fondata sulle rigidissime regole della sharia, aveva vietato non solo il cinema ma qualsiasi forma d'arte (pittura, fotografia, letteratura, musica) seguendo un'interpretazione del Corano secondo la quale sarebbe da proibire ogni genere di riproduzione della figura umana. Ancora più importante, inoltre, è il fatto che i protagonisti del film siano donne e bambini, sicuramente le fasce di popolazione che hanno maggiormente sofferto i lunghi anni di guerra e repressione, in un ideale (e, com'è ovvio, del tutto insufficiente) tentativo di risarcire tanto dolore. Che in Osama la questione dello sguardo, del guardare, del visibile sia centrale sia a livello di linguaggio utilizzato, sia dal punto di vista tematico, è evidente fin dalle primissime inquadrature: una telecamera portata a spalla da un giornalista occidentale (lo stesso che sarà giustiziato nel finale) riprende un giovanissimo mendicante che, guardando direttamente in macchina, chiede dei dollari, la valuta occidentale per eccellenza, quella che ai suoi occhi rappresenta tutti gli stranieri, indistintamente; dal fuori campo si protende una mano che consegna una banconota al ragazzino e questo, soddisfatto, ringrazia. E' il primo, importante segnale che il regista invia allo spettatore, quasi a chiarire chi siano gli interlocutori privilegiati del suo film: i destinatari del messaggo non possono che essere gli occidentali. Ciò non solo perché il suo film, così come quelli di tantissimi altri registi dei paesi del Terzo mondo, trovano il loro mercato naturale tra il pubblico dei festival cinematografici e dei circuiti distributivi alternativi, ma anche perché gli occidentali sono coloro che in anni e anni di catastrofi umanitarie non hanno potuto e spesso voluto vedere e sapere. Da un lato, dunque, il mondo occidentale inflazionato dalle immagini divenute merce (il dollaro dato al ragazzino), dall'altro un mondo che nega l'immagine, la combatte in quanto illusorio feticcio della vanità umana. Nel mezzo, un film che usa con rara sensibilità e senso dell’equilibrio (a dispetto della scottante attualità dei problemi affrontati) una serie di immagini dal forte valore simbolico (la ciocca di capelli della protagonista piantata nel vaso), dal grande impatto emozionale (Maria sospesa nel pozzo) volte a mostrare ciò che, solo fino a poco tempo fa era invisibile.

Il ruolo del minore e la sua rappresentazione

Un "corpo estraneo" nella madrassa

Nella stessa sequenza iniziale, dietro il piccolo accattone appare un corteo di donne in burqua, una moltitudine uniforme di singolarità annullate che si offrono ad una visione per così dire "cieca", un'immagine che, insieme a quella delle decine di migliaia di giovanissimi mendicanti afgani, paradossalmente, è tuttora la più emblematica che ci sia di quel Paese. Osama, dunque, sembra voler partire dalle immagini più inflazionate dell'Afghanistan - quelle della maggior parte dei reportage dal Medio Oriente, donne in burqua e giovani mendicanti - per permettere allo spettatore occidentale di entrare nella realtà afgana sotto il regime dei Talebani e spogliarsi progressivamente dagli stereotipi acquisiti nel corso del tempo. E' proprio attraverso gli occhi smarriti di Maria/Osama che il regista ci introduce nell'universo di terrore quotidiano vissuto dalle fasce più deboli della popolazione. E' attraverso i gesti della ragazzina, che per diventare Osama deve fare propri i comportamenti degli uomini (ad esempio lavarsi secondo il rituale della purificazione per accedere alla moschea) in un disperato tentativo di nascondere la propria reale natura, che apprendiamo la realtà (una piccola ma importante parte di essa) della vita sotto un regime teocratico. Maria deve, ovviamente, cambiare identità e con essa la propria immagine: vestirsi come un ragazzo, tagliarsi i capelli, tentare di comportarsi da maschio ma, soprattutto, credere, convincersi di essere un maschio perché "la gente ragiona con gli occhi", come afferma la saggia nonna. Probabilmente è questa la parte più odiosa del suo compito, la negazione di una sessualità non ancora definita che già deve essere messa da parte, ignorata: Maria deve nascondersi in quanto donna e fare mostra di sé come uomo, proprio come avviene quotidianamente per le strade della sua città dove le donne sono costrette a nascondersi dietro i burqua o addirittura obbligate a vivere e morire tra le quattro mura di una casa e gli uomini sono liberi di spadroneggiare e tiranneggiare. Dal momento in cui Maria diviene Osama, dunque, entra in un mondo maschile fatto di certezze assolute, di ordini imprescindibili, di un agire inflessibile e, allo stesso tempo il suo statuto diviene sempre più incerto, continuamente a rischio, messo in dubbio dallo sguardo altrui. Una condizione, questa, confermata dalle scelte di messa in scena del regista: contesa tra l'uomo che le ha dato lavoro e il talebano che vuole portarla alla scuola coranica, legata ad una fune e calata in un pozzo quando viene punita per non aver obbedito, in bilico su un albero dal quale non riesce più a scendere, Maria/Osama diviene l'emblema di una condizione di sospensione innaturrale, di uno statuto individuale profondamente incerto, ribadito dalle parole del mullah che la paragona, lanciandole occhiate libidinose, a un efebo. Attraverso questo personaggio dallo statuto sessuale incerto (efebico, appunto) il regista riesce non solo a denunciare con forza la disgraziata condizione delle donne in Afghanistan sotto il regime talebano, ma anche a introdurre all'interno dell'universo apparentemente monolitico della teocrazia islamica un elemento di dubbio, un "corpo estraneo" proprio in una scuola coranica, il luogo in cui si uniformano le coscienze dei futuri uomini afgani. Sarà solo tra le pareti della casa del mullah che l'ha presa in moglie che Maria riuscirà a ricomporre, insieme alle altre donne, non solo la propria identità sessuale - che, disgraziatamente, di lì a poco la porterà a vivere la propria prima esperienza del sesso tra le braccia di un uomo anziano - ma anche il proprio vissuto interiore di donna, legato a un'oralità priva della ripetitività retorica del Corano recitato a memoria dagli allievi della madrassa, tessuto, invece, dei ricordi, dei rimorsi e dei rimpianti che le sue compagne di prigionia si confessano vicendevolmente nel tentativo - purtroppo vano - di trovare un senso alla propria sofferenza. Si tratta dello stesso spazio del racconto, della narrazione che connota la vita di Maria nei momenti in cui la vediamo abbracciata alla madre o alla nonna che, all'inizio del film, per tentare di convincerla ad assumere la sua nuova identità, le narra la favola di un giovane bellissimo ma molto povero che chiese a un saggio come fare per divenire donna e, in questo modo, poter lavorare meno: gli fu risposto che, per esaudire questo suo desiderio, avrebbe dovuto attraversare l'arcobaleno. Tuttavia, in un'epoca in cui a dominare non è la razionalità ma la follia del fanatismo religioso, anche il mito, per poter funzionare, deve essere rovesciato: a dover cambiare sesso è una ragazzina per poter lavorare e sopravvivere.

Riferimenti ad altre pellicole

Sono due e contemporanei a Osama i film che trattano il tema della condizione femminile nell'Afghanistan sotto il regime talebano. Viaggio a Kandahar, del regista iraniano Mohsen Makhmalbaf è incentrato sulla figura di una giornalista di origini afgane che torna nel suo Paese per comprendere le ragioni del suicidio di una sua amica uccisasi perché oppressa dalla propria condizione di donna, e Baran di Majid Majidi (anch'egli iraniano) incentrato, proprio come Osama sulle vicende di una giovane afgana emigrata in Iran, costretta a travestirsi da maschio per poter lavorare e mantenere la propria famiglia. Non mancano, com'è ovvio, film occidentali incentrati sulla questione dell'identità di genere negli adolescenti e nei giovani. Una pellicola che sarebbe interessante confrontare con Osama è lo statunitense Boys Don't Cry della regista Kimberly Peirce, nel quale una ragazza dall'aspetto androgino si spaccia per maschio portando (proprio come nel caso di Maria) la contraddizione di una sessualità incerta, negata, diversa, all'interno di una piccola comunità della provincia americana. I mondi rappresentati nelle due pellicole (quello afghano e quello statunitense), apparentemente lontanissimi sul piano sociale ed economico emergono, da questo confronto, non così diversi e distanti dal punto di vista culturale, permeati ambedue da un maschilismo ispirato in entrambi i casi da riferimenti religiosi di dubbia natura. Fabrizio Colamartino