di Lee Tamahori
(Nuova Zelanda, 1994)
Sinossi
Sobborghi di Auckland, Nuova Zelanda. La turbolenta famiglia Heke è composta dal padre Jake, detto ‘la furia’, violento e irascibile, dalla coraggiosa madre Beth, che subisce le angherie del marito con paziente rassegnazione, e dai cinque figli, Grace, Nig e Boogie (invischiati nel pericoloso giro delle bande giovanili), Polly e Huata. Dopo essere stata malmenata da Jake per essersi rifiutata di preparare un caffè all’amico Bully, Beth riceve la notizia che Boogie è stato portato in riformatorio senza che lei potesse presentarsi in tribunale a causa delle ecchimosi lasciatele dal pestaggio. Jake alterna momenti di violenza ad altri di illusoria tenerezza: in uno di questi, dopo aver vinto una discreta somma ai cavalli, decide di accompagnare Beth e i ragazzi a trovare Boggie, ma durante il viaggio il lodevole proposito dell’uomo si smarrisce inesorabilmente: a un certo punto si ferma nel locale che è solito frequentare con i suoi amici e si rifiuta di proseguire oltre. Grace, vedendo la remissività – che la ragazza reputa ipocrita – della madre, le urla in faccia tutto il suo disgusto. Jake con gli amici del bar torna a casa tardi per continuare la bisboccia, ma uno di essi, Bully, si introduce nella stanza di Grace e la stupra. La ragazza, sconvolta, cerca conforto nell’amico Toot, ma per via di un innocente bacio si spaventa e scappa via. Quando Grace rientra in casa prima trova Jake con i suoi amici. Qui il padre, di fronte al rifiuto di dare un bacio all’infido “zio Bully”, malmena la ragazza, la quale, sconvolta, esce di casa e si impicca. Beth decide di seppellirla nel suo paese natale di nobili tradizioni guerriere maori, gli indigeni della Nuova Zelanda. Al ritorno a casa, Beth, leggendo il diario di Grace, scopre l’orribile verità e si reca al bar in cui Bully si trova in compagnia di Jake. Il marito di Beth dapprima esige rispetto per l’amico, ma quando capisce cosa c’è dietro aggredisce selvaggiamente Bully lasciandolo a terra in fin di vita. Beth se ne va con i figli per tornare nella terra dei suoi illustri avi, lasciando Jake in attesa che arrivi la polizia.
Presentazione critica
Il film inizia con la macchina da presa che inquadra uno stupendo paesaggio magnificamente illuminato dal sole: l’impressione è quella di trovarsi in una sorta di Eden originario che pacifica l’esistenza dai tumulti emotivi. Ma è solo un’impressione pronta a mostrare immediatamente il suo vero volto con un semplice spostamento della cinepresa: quello raffigurato era solo un ammiccante cartellone pubblicitario che nascondeva la vera natura degradata della periferia di Auckland, piena di arterie stradali, luoghi abbandonati all’incuria, cemento e asfalto. Tutto Once Were Warriors ruota intorno a questa doppia illusoria e contraddittoria natura: inganno e raccapricciante realtà si intrecciano in un perfido svelamento progressivo che conduce alla piena dissoluzione di tutto quanto è stato faticosamente costruito in precedenza. ‘Una volta erano guerrieri’ recita la traduzione italiana del titolo: la fierezza della tradizione maori, i superbi guerrieri nativi della Nuova Zelanda che sopravvivono solo come tradizione e riti in quella che è sempre stata la loro terra, è cancellata da un presente in cui predomina l’aberrazione della dignità, la sua autentica dissoluzione in un mondo nel quale è l’alcool a dettare i ritmi di un’esistenza violenta e meschina. In tutto questo capovolgimento – che potrebbe apparire beffardo se non fosse così intrinsecamente drammatico – appare evidente la volontà più o meno cosciente di ogni personaggio di aderire ad un ben determinato ruolo: Jake è colui che pensa di sottrarsi al giogo della società e delle convenzioni, ma invece non fa altro che perpetuare quella schiavitù con cui la sua gente ha sempre dovuto fare i conti; Beth è la moglie che accetta passivamente il suo ruolo subordinato alla prepotente volontà del marito (a Grace che le chiede la motivazione del suo comportamento la donna dirà remissivamente che fa parte del suo ruolo di donna e moglie); i figli risultano così, loro malgrado, le vere vittime di tutto il complesso meccanismo. Il problema dei ragazzi della famiglia Heke è essenzialmente un problema di identità: Boogie e Nig cercano una dimensione vera nella bande giovanili, una sorta di etichetta che li determini, in netta contrapposizione alla situazione di violenza domestica che si trovano costantemente a vivere. Ma Boogie viene immediatamente arrestato e condotto in riformatorio, luogo nel quale la sua strenua ricerca di identità si indirizza verso un ritorno alle radici, a quella cultura maori a volte rimossa nella cultura neozelandese contemporanea. Il suo terrificante canto di guerra (chiamato ‘Haka’) non è semplice folklore, ma è l’indice di una volontà di riaffermazione di un orgoglio atavico perduto per troppo tempo tra alcool, violenza subita passivamente, accettazione placida del proprio destino. Nig, invece, passa attraverso un rito di iniziazione che lo promuove a uomo nonostante le continue derisioni paterne sulla sua presunta ‘crescita’: il ritorno al rimosso passato di fierezza guerriera si realizza visivamente attraverso un appariscente tatuaggio che segna il volto e contraddistingue l’onorabilità archetipica di chi lo porta. Più complesso il caso di Grace. La ragazza, infatti, non può ricorrere all’orgoglio della tradizione maori, ma non per questo si sente di accettare apaticamente tutto il carico di violenza ed ipocrisia che vede rispecchiato nella propria madre Beth. Grace sente su di sé non solo il peso del degrado in cui tutti i decadenti discendenti maori paiono essersi mediocremente adagiati, ma anche – e soprattutto – la pressione dell’intransigente maschilismo della sua gente, quello stesso maschilismo che fa in modo che una donna (Beth) venga malmenata perché si è rifiutata di preparare un caffè all’amico del marito. La sopraffazione del maschio sulla donna conosce il suo squallido acme nell’episodio dello stupro della ragazza tredicenne e nel conseguente pestaggio di Jake alla figlia che si rifiuta di baciare l’amico Bully: la sensibilità individuale viene sacrificata sull’altare di una scala gerarchica ordinata secondo criteri di predomini sessuali, a causa dei quali la donna – conta il sesso non l’età del soggetto – è considerata oggetto di esclusivo soddisfacimento degli impulsi animaleschi. Ma la tragica conseguenza del suicidio di Grace rappresenta la svolta per Beth, la quale prende coscienza del suo stato di perenne umiliazione e decide di riconquistare un po’ della superbia maori tornando a casa dalla sua gente. Giampiero Frasca