Molto forte, incredibilmente vicino

18/06/2012 Tipo di risorsa Schede film Temi Relazioni familiari Titoli Rassegne filmografiche

di Stephen Daldry

Tratto dal romanzo omonimo di Jonathan Safran Foer (scrittore segnalatosi già per il suo primo libro Everything is illuminated, publicato nella traduzione italiana da U. Guanda nel 2002 col titolo Ogni cosa è illuminata), Molto forte, incredibilmente vicino di Stephen Daldry si propone come l’ennesima riflessione cinematografica sul dramma dell’11 settembre, una riflessione che però questa volta, a differenza di altre, si concentra su temi più intimi come quello della famiglia, della genitorialità, della testimonianza educativa. Il protagonista assoluto del racconto è Oskar Schell, un bambino di undici anni affetto dalla Sindrome di Asperger, con gravi difficoltà di socializzazione con gli estranei, alcune fobie (per combattere le quali gira per la città agitando un tamburello a sonagli), ma anche molta curiosità, una parlantina fitta, un talento innato per le indagini. Il padre, orologiaio di New York, fa di tutto per «costringerlo» a superare le sue paure inventandosi missioni da compiere per le strade della città che lo obblighino a familiarizzare con gli estranei, come quella di scoprire notizie circa l’esistenza di un fantomatico sesto distretto di cui si troverebbero tracce e testimonianze tra le colline di Central Park. Il rapporto tra i due è speciale, carico di affetto, dialettico e improntato sulla fiducia reciproca e sulla voglia di scoprire e conoscere. Si capirà bene quanto dolorosa e funesta possa essere per Oskar la morte del padre, uno dei tanti newyorchesi che la mattina dell’11 settembre si trova nelle due torri gemelle poco prima dell’attacco terroristico. L’uomo, rimasto bloccato per alcune ore negli edifici in fiamme, prima di morire, cerca disperatamente di mettersi in contatto con la famiglia, riuscendo però a registrare solo qualche messaggio sulla segreteria telefonica che Oskar, appena giunto a casa da scuola, ascolterà esterrefatto. L’elaborazione del lutto per la famiglia è lenta e faticosa. Per quanto riguarda il bambino passa attraverso una sorta di ultima missione che egli crede di aver ricevuto direttamente dal padre. Una sera, infatti, Oskar entra nella stanza dei genitori e incautamente rompe un vaso collocato in cima al guardaroba, dentro il quale si trova una chiave misteriosa e un bigliettino con la sola scritta Black. Per il ragazzo è la conferma che esiste un qualche scrigno da aprire dove si trova un messaggio del padre. Senza altre informazioni a disposizione, Oskar progetta di incontrare tutti gli abitanti di New York con il cognome Black (sono più di quattrocento), nella speranza che almeno uno di loro gli sappia dire che cosa apre quella chiave. Ad accompagnarlo in questa estenuante ma formativa ricerca, da un certo momento in avanti, è un anziano uomo, coinquilino della nonna, che non proferisce parola (comunica scrivendo su un block notes), la cui identità è altrettanto misteriosa quanto quella di chi dovrebbe avere notizie sulla chiave.

Senza andare oltre nello svelamento dell’intrigo – perché il film si delinea ben presto come una detective story con finale a sorpresa che è bene non svelare – quello che qui si può dire riguarda il modo con cui prima Foer sulla carta e poi Daldry sulla pellicola descrivono l’identità familiare americana legandola al principale spartiacque storico tra lo scorso e il nuovo secolo. Non è un caso, infatti, che l’ennesimo orfano (di padre) che la Storia del cinema porta sullo schermo lo diventi a causa dell’attentato dell’11 settembre né che Oskar ne «veda» la morte in diretta TV quando crede di riconoscerlo in uno degli uomini che si lanciano per disperazione dalle torri, a ricordarci come quella frattura culturale sia innanzi tutto visiva, sia una ferita alla vista, alla parola, sia un vero e proprio salto nel buio.

D’altronde non è nemmeno accidentale il fatto che l’uomo cerchi invano di comunicare con la famiglia e con il figlio poco prima della fine. A differenza di quanto sarebbe successo qualche anno fa, qui però l’assenza di un dialogo conclusivo tra padre e figlio – di cui si trova traccia vocale nella segreteria telefonica che l’undicenne conserva gelosamente in uno scomparto segreto del proprio armadio e che riascolta quotidianamente in un tentativo di espiazione dalla colpa di non essere stato in casa quando il padre telefonava – non è però indice di incomunicabilità tra generazioni, crisi dell’individuo, spaesamento dell’adulto. Al contrario si comprende presto che è abbrivo e genesi di una nuova e più consapevole interrelazione tra i due, non più fondata sulla parola o sull’incontro reale, ma sui gesti, sul ricordo di quei gesti e sul valore della testimonianza di quei gesti. L’acquisizione di un sé più maturo in Oskar passa, infatti, attraverso l’accendersi di una serie di flashback in cui il rapporto padre-figlio viene ripensato e rivissuto dal bambino come momento privilegiato della propria giovane vita, a contatto con una sorta di eroe moderno, di cavaliere senza macchia e senza paura, dal quale Oskar acquisisce forza, determinazione e talento. L’ultima missione che egli crede gli abbia affidato il padre si trasforma ben presto nella prima missione di una nuova vita autonoma e matura che pianifica con straordinaria precisione e che gli consentirà sia di costruire nuove relazioni significative (con l’anziano uomo che l’accompagna, con la madre che lo attende a casa) sia di trovare risposte alle proprie domande. E se non ce ne sono sul senso di quella tragedia collettiva, Oskar ne troverà a proposito dei significati che può avere l’incontro con l’altro, il superamento delle proprie paure, il valore delle parole e dei sentimenti.

Il film sembra dirci, insomma, che si può rielaborare il lutto dell’11 settembre costruendo o ricostruendo rapporti educativi, specie tra le generazioni, specie tra famiglie, imparando a sostituire la virtualità del contatto offerto dalle macchine (la TV e la segreteria telefonica) con la concretezza dell’incontro diretto, quasi porta a porta, con tanto di accoglienti abbracci o di possibili rifiuti. Solo in questo modo si può trasformare la propria storia (quella della propria sofferenza) in un ricettacolo che accoglie le miriadi di storie che sono attorno a noi (incarnate dai tanti Signor e Signora Black che Oskar incontra sul cammino) e che aspettano soltanto qualcuno che abbia voglia di conoscerle. Questo rinnovato territorio narrativo è il famoso sesto distretto che cerca Oskar e noi con lui. 

Marco Dalla Gassa