Mi chiamo Sam

di Jessie Nelson

(USA, 2001)

Sinossi

Sam Diamond è il più amorevole dei padri ma ha anche un grave ritardo mentale molto grave (le sue capacità intellettive sono quelle di un bimbo di sette anni). Quando sua figlia Lucy, avuta dal rapporto con una donna fuggita dopo il parto, compie otto anni, lo stato della California fa causa a Sam accusandolo di non essere in grado di badare alla bambina. Per questo Sam si rivolge a Rita, un avvocato di successo che, tuttavia, non ha praticamente rapporti con il figlio. Malgrado l’impegno di Rita, Sam perde la causa e Lucy viene affidata ad una coppia; l’uomo, tuttavia, non si perde d’animo: riuscirà a convincere anche i genitori affidatari di sua figlia di essere un ottimo padre e dell’impossibilità per la bambina di vivere lontano da lui.

Analisi

Mi chiamo Sam appare come una delle operazioni cinematografiche più studiate e meglio riuscite sul piano del risultato – non solo commerciale ma anche dal punto di strettamente intenzionale – nell’ambito del genere sentimentale, rivolto al grande pubblico prevalentemente a carattere familiare. Jessie Nelson, già regista di Una moglie per papà (1994) e, soprattutto, sceneggiatrice di Nemicheamiche (1998, regia di Chris Columbus), mette in gioco abilmente nella medesima pellicola due tra i topoi più diffusi del genere melodrammatico: l’handicap e un rapporto genitore-figlio a rischio. Con questi due elementi, di grande presa drammatica, ma al tempo stesso decisamente “ingombranti”, di difficile gestione, la regista riesce, tuttavia, a mettere in scena una vicenda che, al di là della sua eccezionalità, può fornire una serie di spunti utili a comprendere le dinamiche psicologiche sottese ad ogni rapporto genitore-figlio e i meccanismi legali propri dell’adozione e dell’affidamento familiare. L’esperienza di Sam è a suo modo esemplare, proprio perché mette in rilievo determinati aspetti del ruolo del genitore nei confronti del figlio che, solitamente, non vengono indagati perché dati per scontati, assorbiti in una presunta normalità che fa comodo un po’ a tutti ma che, in realtà, non riguarda nessuno. Di cosa ha bisogno maggiormente un bambino per crescere bene? È più importante per lui la dimensione affettiva o quella intellettuale? Un genitore che abbia le capacità intellettive di un bambino di sette anni può aiutare il proprio figlio a crescere realmente? Chi è davvero un buon genitore? Basta essere considerati come “adulti” per esercitare il proprio diritto alla paternità o alla maternità? Se è vero che si può definire come abuso su un minore anche ogni carenza che attenti al suo corretto sviluppo intellettuale, Sam è colpevole di un abuso nei confronti della piccola Lucy? E Rita, allora, che paga il proprio successo professionale con l’incapacità di stabilire persino un contatto fisico minimo con il figlioletto? Anche rischiando di cadere nella tautologia, ovvero che non esistono genitori perfetti (dunque, a maggior ragione, Sam potrebbe essere un padre né migliore né peggiore di tanti altri) il film riesce a far vacillare molte certezze rimettendo in discussione presunte verità acquisite e ruoli stabiliti. Interessante, soprattutto dal punto di vista del divario intellettuale tra genitori e figli, un parallelo tra questo film e Il mio piccolo genio di Jodie Foster: in questa pellicola era la madre (una donna assolutamente sana ma con un grado di istruzione non elevato) di un bambino prodigio a trovarsi in una situazione analoga a quella di Sam, proprio a causa della precocità del figlio. In quel caso la donna veniva accusata da una psicologa interessata a studiare i bambini prodigio di non essere in grado di gestire le potenzialità del ragazzino, di non riuscire a dargli gli stimoli necessari per crescere e sviluppare completamente le sue potenzialità. Anche in questo film, come in Mi chiamo Sam, la soluzione è un compromesso che vede nel finale entrambe le “madri” prendersi cura del piccolo genio. La nostra società, sempre più attenta a tutelare e regolamentare ambiti dell’esistenza dei cittadini fino a ieri affidati al semplice buon senso, rischia a volte un’eccessiva definizione dei ruoli più dannosa che utile all’esistenza degli individui.  

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