Mamma Roma

di Pier Paolo Pasolini

(Italia, 1962)

Sinossi

Roma, primi anni Sessanta. La prostituta Roma Garofolo – detta Mamma Roma – viene finalmente lasciata libera dal protettore Carmine. Roma ha grandi progetti per suo figlio Ettore: acquista una casa nuova in un quartiere dove non è conosciuta, prende la licenza per un banco di frutta al mercato, tenta di integrarsi nell’ambiente piccolo borghese della locale parrocchia. Tuttavia, non avendo imparato neanche a leggere, il massimo cui Ettore può mirare è un lavoro da manovale edile. Così, il ragazzo prende a frequentare delle brutte compagnie e scopre il sesso con Bruna, una ragazza più grande di lui. Ricattando il proprietario di una trattoria, Roma riesce a far assumere il figlio come cameriere. Adesso Ettore lavora, e tutto sembra andare bene finché Carmine, in cerca di denaro, obbliga Roma a tornare sul marciapiede minacciando di rivelare tutto al figlio. Ettore, però, viene a sapere ugualmente la verità su sua madre da Bruna e si licenzia dal lavoro. Arrestato per un furto, in seguito ad una crisi di nervi viene legato ad un letto di contenzione: morirà febbricitante nel reparto di neurologia del carcere.

Presentazione Critica

Ettore, il giovane protagonista del film, è una tra le tante vittime di quel ‘genocidio culturale’ operato dalla società sul sottoproletariato urbano che, durante l’intero corso della sua carriera, Pasolini non si stancò mai di denunciare coraggiosamente, tanto con la sua attività di regista e scrittore, quanto attraverso quella di saggista e giornalista. Vissuto in campagna fino all’età di quindici anni, Ettore viene sradicato dall’ambiente in cui è cresciuto al riparo dalle brutture della vita, da una madre che in lui vede una possibilità di rivalsa nei confronti della società. Nel caso di Mamma Roma, infatti, è possibile parlare solo di rivalsa e non di riscatto: ella desidera, più di ogni altra cosa al mondo, riuscire a suscitare invidia in tutti coloro che definisce ‘pezzenti’ – cioè i propri simili – e conquistare il rispetto o, per lo meno, la considerazione dell’ambiente piccolo-borghese che ha scelto come obiettivo da far raggiungere a suo figlio. Tale tentativo di integrazione sociale è destinato a fallire fin dall’inizio: la donna, infatti, non riesce a comprendere che tanto il quartiere in cui ha scelto di trasferirsi per la sua ‘nuova vita’ (un agglomerato di case popolari soltanto un po’ più nuove del vecchio palazzo di periferia nel quale abitava), quanto coloro che lo popolano non sono certo migliori della realtà che crede di essersi lasciata alle spalle. Animata esclusivamente da un’invidia rabbiosa e atavica, quando si trova alle prese con un rappresentante della sua classe sociale d’elezione, Mamma Roma non ha altri mezzi per convincerlo che ricorrere ad un ricatto, servendosi di coloro con cui ha condiviso l’esperienza del marciapiede (una prostituta ed un ‘magnaccia’) e che tanto disprezza. Ettore, poi, è privo di qualsiasi possibilità di agire autonomamente: egli non solo non possiede alcun titolo di studio che lo possa credibilmente accreditare agli occhi del tanto agognato mondo borghese, ma non ha nemmeno, come sua madre, Carmine o i suoi coetanei del quartiere, né la forza fisica (è minato da una malattia contratta durante l’infanzia) né l’esperienza della strada preclusagli dall’essere un trapiantato dalla campagna alla squallida periferia romana. Pesce fuor d’acqua, è capace, allo stesso modo di sua madre, di imporsi sugli eventi solo facendo appello alla sua rabbia cieca, come in preda ad una febbre che diverrà reale nell’ultima parte del film e che lo condurrà verso una fine tanto assurda quanto banale. Il destino del ragazzo, in fondo, è già segnato, quasi scritto nel suo patrimonio genetico: potrebbe essere lo stesso di Carmine, così come quello di Bruna potrebbe essere il medesimo di Roma. Tra i due ragazzi, infatti, si instaura un rapporto simile a quello esistente tra i due adulti: anche Ettore è più giovane di Bruna, così come Carmine lo è rispetto a Roma; Bruna è una ragazza-madre così come lo era Roma quando, incinta di Ettore, era stata abbandonata dal marito. È facile leggere, nell’ultimo monologo di Roma, la consapevolezza di una sorta di maledizione che governa la sua vita: quella di poter soltanto tentare una fuga dalla propria sofferenza infliggendo dolore ai propri simili. Il grande merito di questo secondo lungometraggio di Pier Paolo Pasolini, girato a pochi mesi di distanza da Accattone (1961), è quello di aver messo a fuoco i mali atavici del sottoproletariato romano che, privo di qualsiasi forma di coscienza di classe (la desolazione dei quartieri di periferia che fanno da scenario al film è il riflesso del vuoto ideologico causato dall’assenza di qualsiasi forma di organizzazione sociale), può trovare soltanto nella rivolta individuale un illusorio riscatto dalla sua condizione, così come Ettore cerca, nel furto che causerà il suo arresto, un ultimo, disperato e spavaldo tentativo di ribellione ad un male fisico che è sintomo di una disperazione interiore divenuta lacerante. Fabrizio Colamartino  

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