L'uomo che verrà

25/02/2010 Tipo di risorsa Schede film Temi Bambini nei conflitti armati Titoli Rassegne filmografiche

regia di Giorgio Diritti

(Italia, 2009)

 

Uno dei tanti meriti che si devono riconoscere a L'uomo che verrà, il film del regista indipendente Giorgio Diritti liberamente ispirato ai tragici eventi avvenuti a Marzabotto e nei comuni limitrofi nell'autunno 1944, è che ci risarcisce dei danni fatti nell'ultimo decennio da tanta brutta fiction televisiva. Eventi e personaggi cruciali per la storia del nostro Paese sono stati spesso al centro di "ricostruzioni storiche" che è fin troppo generoso definire pretestuose, edulcorate se non addirittura fuorvianti rispetto alla realtà storica.

Nell'affrontare una pagina così tragica della nostra storia – la serie di eccidi compiuti dai nazifascisti fra il 29 settembre e il 5 ottobre del 1944 – Diritti decide coraggiosamente di incentrare il suo film su una ricostruzione filologicamente rigorosa, a partire dalla verosimiglianza dei volti degli interpreti, dalla plausibilità delle situazioni, dall'attenzione verso il paesaggio e gli ambienti, fino alla scelta di far parlare i protagonisti nel dialetto dell'appennino romagnolo, restituendo alla cultura contadina dell'epoca l'originarietà dei suoi suoni e delle sue inconfondibili inflessioni.

Una scelta, quella di Diritti, che riporta alla mente L'albero degli zoccoli, il film di Ermanno Olmi che vinse la Palma d'oro al festival di Cannes del 1978 grazie a una rigorosissima ricostruzione della vita quotidiana di una famiglia di contadini bergamaschi della fine dell'Ottocento. Un'eredità che Diritti, ex allievo di Ipotesi Cinema (la scuola fondata a Bassano del Grappa proprio da Olmi), ha saputo raccogliere appieno, come dimostra ad esempio l'attenzione dedicata al rapporto tra uomo e natura declinato essenzialmente attraverso il tema del lavoro nei campi. L'uomo che verrà è, infatti, uno dei pochissimi film italiani che possono aiutare le generazioni che non hanno vissuto quell'epoca a comprendere quali fossero le condizioni, i ritmi di vita, la quotidianità dimessa e senza tempo delle comunità rurali: un approccio antropologico che non era possibile eludere, visto il soggetto affrontato, di certo lontano nel tempo ma che, come tutti gli avvenimenti tragici di questa portata, è da considerare se non come una ferita ancora aperta, perlomeno come una cicatrice dai contorni indelebili.

Quella che per lo spettatore contemporaneo si presenta come una vera e propria epifania, si dispiega attraverso gli occhi di una bambina il cui sguardo, tuttavia, non ha nulla di ingenuo: la piccola Martina ha già visto morire pochi mesi prima un fratellino neonato – evento tutt'altro che occasionale in un'epoca di ordinaria povertà segnata ulteriormente dalle privazioni causate dalla guerra – rimanendo priva della parola, ma non della speranza che un altro bimbo portato in grembo da sua madre possa finalmente riportare la serenità nella sua tormentata famiglia. Muto testimone di quanto accade, questo personaggio sembra essere stato scelto da Diritti con un obiettivo opposto a quello che orienta solitamente le scelte dei registi di fiction e non solo: legare la narrazione degli eventi allo sguardo di un bambino spesso ha la funzione di ricattare empaticamente lo spettatore, costringendolo a commuoversi per quanto accade sullo schermo; nel nostro caso, invece, svolge quella molto più etica di legarlo a una figura che, proprio come il regista, non esprime giudizi su quanto scorre sotto i suoi occhi, limitandosi a registrare con attenzione l'accaduto.

Quando ogni elemento del film contribuisce a comporre un mosaico tanto veritiero di una realtà, ogni altro tentativo di captare la benevolenza del pubblico risulta controproducente.
Intelligentemente, Diritti consegna allo spettatore il compito di legare tra loro i vari eventi – spesso narrati ellitticamente, attraverso gli scarni, indispensabili dialoghi di chi non può sprecare il fiato perché costantemente impegnato in pesanti attività lavorative – così come di mettere a confronto la prima parte del film con la seconda, il vissuto tutt'altro che idilliaco dei contadini romagnoli – sostenuto soltanto dalla fede autentica in una religione cattolica che sapeva ancora essere vicina agli umili e dalla consapevolezza della ciclicità di una vita scandita dai ritmi della natura – con la ferocia dello sterminio perpetrato dalle truppe naziste.
Una violenza che risulta ancora più assurda e odiosa proprio perché si abbatte su un universo regolato da leggi apparentemente immutabili, dalla sacralità dei ritmi del lavoro, dal succedersi della vita (un bambino che nasce) sulla morte (il nonno che aspetta serenamente l'ora del trapasso nel suo letto).

Dopo aver mostrato gli orrori della guerra, L'uomo che verrà apre nel finale uno spiraglio alla speranza attraverso l'immagine di due bambini che si stringono per darsi coraggio: il primo, fortunatamente ancora troppo piccolo per poter ricordare la violenza che lo ha solo sfiorato, l'altra abbastanza grande per avere memoria della barbarie subita dalla sua famiglia e, forse, anche abbastanza forte per trovare finalmente le parole giuste per testimoniarla.

Fabrizio Colamartino