Lunga vita alla signora!

20/07/2009 Tipo di risorsa Schede film Temi Sviluppo psicologico Titoli Rassegne filmografiche

di Ermanno Olmi

(Italia, 1987)

Sinossi

Ogni anno, in un fastoso e immenso castello, si tiene una cena. Ad organizzarla è la vecchia tenutaria che invita un gruppo di persone nobili o famose. Il cerimoniale è rigido e prevede precise norme di comportamento per ogni convitato e per ogni persona di servizio. Alla serata partecipa, per la prima volta, in qualità di aiuto cameriere, Libenzio, un giovane adolescente di umili origini appena uscito da una scuola alberghiera. Ai suoi occhi quella è una realtà da sogno. Tuttavia, con il passare delle ore, quel mondo perde ogni suo fascino e anzi trapela il carattere grottesco e licenzioso della situazione. Terminati i propri servigi, Libenzio si cambia d’abito e scappa, probabilmente per sempre, dal castello.

Analisi

Lunga vita alla signora! ha il non trascurabile pregio di rimarcare le implicazioni sociali e di ceto presenti in ogni percorso professionale, specie se comincia in minore età. Tutti i lavoratori, già dalle loro prime esperienze, si inseriscono in una scala gerarchica e in un tessuto interrelazionale complessi. Spesso non si può modificare la realtà in cui ci s’imbatte, ma soltanto avallarla o rigettarla in toto. Per stabilire di quale ingranaggio si è il dente, a poco vale il bagaglio formativo. Conta molto di più la provenienza di ceto della famiglia, la conoscenza – spesso sottintesa – di determinate regole di comportamento. Non basta: conta la “divisa” che indossi, il tipo di amicizie che hai, le esperienze pregresse, la capacità di accettare i compromessi o le lusinghe del prossimo, la disponibilità ad accantonare il proprio sistema di valori per favorire sé stessi a discapito degli altri. Contenuti che conoscono perfettamente coloro che entrano nel mondo del lavoro, ma che Olmi raffigura argutamente attraverso una fiaba grottesca che esacerba tali fenomeni rendendoli chiaramente visibili a tutti. Libenzio proviene da una famiglia contadina, ha fatto la scuola alberghiera e fa il suo ingresso nella villa come aiuto-cameriere. In quanto apprendista, parte da uno dei gradini più bassi della scala sociale, conscio di poter avanzare per pochi stadi, fino a capo cameriere, dopo anni di gavetta e di esperienza. Egli osserva in silenzio chi lo circonda per apprendere il più in fretta possibile. Tuttavia bastano poche ore all’adolescente per capire che dietro alla patina di ricchezza ostentata, alle belle tavole imbandite, ai bei vestiti e alle belle mobilie, è vivo un mondo pieno di ipocrisie, di poco onorevoli relazioni (la ragazza minorenne che tende la mano al vecchio), di gerarchie insensate, ma ormai cristallizzate nel tempo. Libenzio ha, almeno all’inizio, uno sguardo candido, incontaminato, una voglia di guardarsi intorno dettata dall’indole curiosa e dal piacere della conoscenza (come le grandi lenti degli occhiali stanno a simboleggiare). Poco per volta, il suo percorso di formazione e di (apparente) ingresso nel mondo del lavoro si trasforma in un processo di deturpazione dello sguardo. Quella ragazza – la sola commensale coetanea del protagonista, che ai suoi occhi appariva come gli angeli dipinti nei quadri sacri – nasconde, forse, una relazione con un uomo che potrebbe essere suo padre (o suo nonno); un'attempata nobildonna tenta morbose avance con la scusa di farsi accendere una sigaretta; una specie di scanzonato aviatore, apparentemente indisciplinato al galateo e ai codici di comportamento, finisce per seguire la vecchia proprietaria della villa fin nelle sue stanze. I codici valgono per i sottoposti, chi sta al vertice della piramide può permettersi di trasgredirli, giacché è l’ipocrita garante degli stessi. Una sequenza, su tutte, anche se apparentemente secondaria, mostra il motivo per cui Libenzio è costretto a scappare dalla villa a notte inoltrata alla ricerca di un po’ di aria fresca e di libertà. Il padre, per fargli una sorpresa, si presenta alla villa per vedere come si sta comportando il figlio e per fargli gli auguri per quel suo “debutto in società”: le misere attese del genitore, seppur oneste e sincere, dimostrano la sua totale cecità verso il mondo e il suo funzionamento, mentre permettono al ragazzo di comprendere – ora sì lucidamente – qual è il posto assegnato a lui e alla sua famiglia in quello strano e ingiusto “gioco di società” rappresentato dalla cena nella villa.

Se la fuga probabilmente arrecherà dolore all’umile padre, per Libenzio, paradossalmente, sarà il modo migliore per testimoniare la propria maturità e il desiderio di non essere solo una comparsa.

 

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