L'isola in via degli uccelli

di Soren Kragh-Jacobsen

(Danimarca/Germania/Gran Bretagna, 1997) 

Sinossi

Durante il rastrellamento del ghetto di Varsavia, il piccolo Alex, riesce a fuggire e a rifugiarsi in un cortile diroccato della città soprannominato ‘l’isola di via degli Uccelli’. Per un precedente accordo, il ragazzo dovrà attendere in quel luogo il padre Stefan che ha promesso di tornare a prenderlo. Il ragazzino dispone solo di un piccolo topolino bianco, chiamato Neve, e di uno sgualcito romanzo: il Robinson Crusoe di Defoe. La vita di Alex scorre pericolosa e monotona: al sopraggiungere dei Nazisti deve sempre correre a nascondersi nella sua esigua porzione di spazio – in cui si è dotato dei mezzi di sopravvivenza: un letto, un fornello e una scala per accedervi – e deve costantemente procurarsi i mezzi di sostentamento per non morire di fame. Unico bagliore della sua grigia vita, oltre alla speranza di un ritorno del padre, è la presenza di una coetanea, Stasja, che lo salva dall’ostilità di un gruppo di ragazzi e poi gli offre la sua amicizia. Intanto nel cortile in cui vive Alex, due giovani vengono minacciati da un soldato delle SS. Alex, che sta vedendo, non visto, la scena, spara in direzione del soldato, lo colpisce e salva da morte certa i due individui minacciati. Uno dei due è ferito, l’altro va in cerca di aiuto. Alex si rivolge ad un medico che vive lì vicino, il quale si reca nel nascondiglio e con le sue cure contribuisce alla guarigione del giovane. Il dottore, qualche giorno dopo, viene arrestato dai Tedeschi, mentre il giovane progressivamente si ristabilisce e, con l’aiuto di un sacerdote, riesce a fuggire. Alex rifiuta di andare con loro perché spera sempre nell’arrivo del padre. E continua a credere nell’arrivo del padre Stefan anche quando la madre di Stasja gli propone di recarsi con lei e la figlia in campagna, lontano dal pericolo. Rimasto solo e disperato, senza nemmeno più la compagnia di Neve, morto nel frattempo, Alex vede finalmente giungere il padre che lo porta con sé.

Presentazione critica

Un film importante, colpevolmente trascurato dal pubblico italiano anche a causa di una distribuzione non troppo capillare. Un film su cui riflettere accuratamente non solo per il tema trattato in modo singolare, ma anche per la concezione cinematografica mostrata dall’autore che, due anni dopo L’isola in via degli Uccelli, aderirà con il suo film Mifune (1999), al Dogma ’95, il tanto discusso manifesto di castità cinematografica proposto dai registi danesi Lars Von Trier e Thomas Vintenberg, che prevede l’uso della macchina a mano, il rigoroso utilizzo della luce naturale, l’abolizione di qualunque vezzo autoriale e di qualsiasi intervento sulla linearità spaziale (salti tra luoghi differenti) e cronologica (ellissi) della storia raccontata. Tralasciando l’aspetto linguistico della pellicola, al quale si è solo accennato per completezza, la riflessione che si impone sul tema trattato dal film prende le mosse da una sorta di Diario di Anna Frank realizzato nella contemporaneità, lo stesso anno in cui anche Roberto Benigni forniva la sua personale versione, tragica e trasognata, dell’Olocausto con La vita è bella. Alex è un undicenne sensibile, ma intorno a lui c’è soltanto odio e distruzione: il ghetto ebraico di Varsavia ha subito l’attacco decisivo da parte delle SS. ‘Il sonno della ragione’ ha oscurato strade, vicoli e il sorriso dei bambini. Per Alex non c’è possibilità di sopravvivenza in un mondo dove i suoi stessi coetanei lo trattano con astiosa e superiore arroganza (si pensi alla scena in cui è necessario l’intervento di Stasja per sedare il livore che sta crescendo nei confronti del ragazzo, il quale sta soltanto tentando di dare alcuni calci ad una palla). L’unica speranza è affidarsi ad un ‘non-luogo’ che è la cosiddetta ‘Isola in via degli Uccelli’, un cortile chiuso da quattro stabili diroccati con anfratti per potersi nascondere disperatamente dalla furia tedesca e frammenti di quelle che una volta furono abitazioni. L’“isola” è lo spazio della salvezza utopica, un altrove nel quale estraniarsi e tentare di soddisfare il proprio, innato, istinto di sopravvivenza ed in cui attendere che la difficile promessa del padre, comunque fermato dai Tedeschi al momento del rastrellamento, diventi una splendida realtà e renda possibile la riconnessione con la vita. Alex è solo. Ha con sé soltanto il suo fido topolino bianco – ultimo baluardo di candore in un universo in cui prevalgono i colori scuri e tetri – e il libro di Robinson Crusoe, che, a livello simbolico, determina la necessaria sovradeterminazione del significato espresso dalla pellicola. Infatti, il romanzo di Daniel Defoe offre il destro sia ad un parallelismo tra la condizione del naufrago Crusoe e quella del novello Robinson Alex, costretto all’isolamento per il naufragio degli ideali di umanità e solidarietà (e Kragh-Jacobsen non si fa alcuno scrupolo di mostrare supposte connivenze tra i Nazisti e i polacchi cattolici che collaborarono ai vari rastrellamenti), sia per quanto riguarda un fattibile discorso sulla letteratura come dispensatrice di valori, portatrice di necessario coraggio, simbolo di un differente grado di sensibilità in un contesto storico e ambientale capace di fornire solo barbarie, violenza, distruzione e, conseguentemente, terrore. Non è un caso che due personalità distinte come quella di Alex e quella del giovane convalescente trovino un punto di contatto comunicativo, in un momento nel quale il piccolo ebreo pare non aver nessuna voglia di comunicare, proprio attraverso i due volumi differenti che stanno leggendo, quasi che le parole di un libro trovassero il loro necessario e imprescindibile completamento nella sintassi dell’altro. L’isola in via degli Uccelli gioca sulle antitesi e sul concetto di contrapposizione: da una parte, la sensibilità che soltanto la letteratura può fornire, dall’altra, la cecità e l’odio, la paura e l’istinto animalesco; oppure, da un lato, l’ingegno che si isola e provvede a rimanere vivo con tutto il suo eroico attaccamento all’esistenza, dall’altro, il pericolo dal quale ci si deve necessariamente guardare per poter continuare a coltivare la speranza; e ancora, la forza dell’Utopia e della speranza (Alex che rifiuta più volte di potersi salvare per aspettare il padre, dimostrandosi attaccato ad un’idea che realisticamente ha poche possibilità di potersi realizzare) contrapposta al nichilismo e allo sciacallaggio degli abitanti di una Varsavia fantasma. È la forza dell’Utopia a prevalere, alla fine: il padre di Alex mantiene la promessa e rende possibile la potenza ostinata di un sogno di esistenza. Giampiero Frasca  

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