L'estate di Kikujiro

17/07/2009 Tipo di risorsa Schede film Temi Infanzia Titoli Rassegne filmografiche

di Kitano Takeshi

(Giappone, 1999)

Sinossi

Masao, un bambino di nove anni che vive con la nonna vorrebbe andare a cercare la mamma che è lontana per lavoro. È estate, le scuole sono finite e tutti i compagni sono andati in vacanza. Quando Masao decide di scappare per andare dalla mamma nella lontana Toyoashi, una vicina di casa lo trova e chiede al marito, Kikujiro, uno yakuza maldestro e attaccabrighe, di accompagnarlo dalla madre. L’uomo però, invece di spendere i soldi per i mezzi pubblici, li usa per giocare alle corse, perdendoli tutti. Solo quando un pedofilo cerca di adescare Masao, i due iniziano il vero viaggio fatto di autostop, incontri strani (un punk, un vecchio alla fermata del bus, un poeta, due motociclisti dark), soste in lussuosi alberghi e piccoli furti per raggranellare qualche soldo. Quando arrivati a Toyoashi, Masao scopre che la madre ha un’altra famiglia e capisce la sua realtà di orfano, Kikujiro prova di tutto per farlo ridere. Gli regala un campanellino di vetro (dicendo che era stata la mamma a donarlo a lui), lo porta al luna-park e infine in campeggio dove ai due si aggregano anche i motociclisti dark e il poeta. In una gara di gag esilaranti, l’una più surreale e divertente dell’altra, i quattro uomini riusciranno a portare il sorriso al bambino che quando tornerà dalla nonna avrà la certezza di aver passato, come Kikujiro, un’estate indimenticabile nel bene e nel male.

Analisi

Takeshi Kitano, scrittore, autore e attore televisivo, comico, pittore dilettante e soprattutto uno dei registi più interessanti degli anni ’90, firma con L’estate di Kikujiro una delle opere apparentemente più distanti dalle sue corde d’artista. Conosciuto come autore e interprete di noir violenti, in cui i soggetti sono per lo più ispirati al mondo degli yakuza (ad es. Sonatine, Hana-Bi, Brother), dove la violenza – gratuita, senza filtri, terribile compagna di ognuno – è una sorta d’ineludibile rito morale che prepara al sacrificio della propria esistenza (come avviene per gli ‘eroi’ di Sonatine e Hana-Bi), Beat Takeshi, nome d’arte con cui è famoso in Giappone, si adopera in una pellicola che evita qualsiasi ricorso alla violenza visiva, che racconta la piccola storia di un viaggio, che torna su uno dei temi più lontani dal gangster-movie, quello di un orfano e del suo incontro con un adulto. Senza conoscere il retroterra artistico che guida il regista, non si può comprendere l’importanza di un film che a prima vista pare non scostarsi molto da un canovaccio narrativo assodato: basta citare, tra i tanti titoli che trattano il tema, Il monello di Chaplin, Alice nelle città di Wenders, Paper Moon di Bogdanovich e i più recenti Central do Brasil di Salles o La vita è bella di Benigni. L’originalità del film sta nello sguardo lancinante che Kitano volge sul mondo, che sottende una visione tragica della vita ben presente anche in questa pellicola. A differenza dei protagonisti dei film appena citati dove il ‘road movie’ si trasformava in romanzo di formazione, dove, in altre parole, i personaggi mutavano atteggiamento (soprattutto nel caso dei bambini), in una progressiva presa di coscienza del proprio ruolo e del loro avvenuto cambiamento, qui i personaggi si scoprono alla fine del viaggio uguali a come erano all’inizio, l’uno con una tenue e illusoria speranza di trovare la madre (grazie alla bugia di Kikujiro che regala un campanellino a Masao, ‘per conto’ della mamma), l’altro con la stessa identica attitudine a combinare niente e a raccontare palle (falsamente assiomatica è la frase che pronuncia nel finale, assicurando al bambino una nuova futura ricerca della madre), entrambi perdenti, compreso il piccolo Masao, cui il regista non regala una vera ed effettiva speranza nel futuro (come avviene, all’inverso, per i piccoli protagonisti di Central do Brasil o La vita è bella), solitamente offerta a chi possiede, dalla propria, almeno la giovane età e un futuro ancora da venire. Tale amarezza si manifesta accompagnata, in più, da una sottile ferocia che avviene nel fuori campo (la violenza dell’assenza dei genitori per entrambi i protagonisti; la miseria della vita di tutti i giorni, che non è mostrata, ma che si staglia nello sfondo della storia; la crudeltà dei rapporti umani, l’ipocrisia), caricata di una vena emozionale ben più marcata che in altri casi (anche se analoga commozione suscita la storia della moglie morente in Hana-bi), duplicata dalla presenza del bambino che è visibilmente l’alter-ego di Kikujiro (tra le tante scene di doppio basti citare quelle in cui i due hanno le camice hawaiane, o in cui sono assaliti da incubi notturni), acuita dalla nostalgia del regista per il passato (si vedano i vestiti tradizionali sistemati nelle bancarelle o il demone ‘tengu’, comparso in sogno a Masao, che appartiene alla tradizione del teatro ‘kabuki’), graffiata dal richiamo autobiografico (Kikujiro è infatti il vero nome del padre di Kitano), consegnando in tal modo al film un respiro destabilizzante ben maggiore di quel che può sembrare alla lettura del soggetto. Le gag e i giochi che riempiono la seconda parte della storia appaiono così come l’unico modo che l’uomo ha per ribellarsi contro una solitudine che colpisce trasversalmente tutti (riprodotta meravigliosamente dall’albergo moderno dove i due passano alcune notti, completamente deserto nonostante sia in alta stagione), che è solo lenita ma mai colmata. Masao, in tal senso, non riproduce solo l’isolamento dell’infanzia, quanto più quello degli spettatori in sala, poiché anch’egli, come il pubblico è il destinatario degli sketch di Kikujiro e compagni. L’estate di Kikujiro conferma infine l’originalità stilistica del regista, estremamente pittorica (piena di colori sgargianti che vanno volutamente a cozzare con il grigiore dei personaggi), fatta di attese e campi lunghi, di essenzialità nei movimenti di macchina e negli spostamenti dell’universo filmico, basata sull’accumulo e sulla freddezza della narrazione (mai il film cade nel patetico), influenzata dai grandi comici della tradizione del muto, in particolare da Buster Keaton, cui Kitano sembra ispirarsi nella caratterizzazione del suo personaggio, distaccato e insieme aderente al reale. (MDG)

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