di Antonio Capuano
Presentato in anteprima alla Mostra del cinema di Venezia, è in uscita nelle sale cinematografiche L’amore buio l’ultimo lungometraggio di Antonio Capuano. Come sa chi ha letto il suo profilo e le numerose schede critiche dei suoi film presenti nel portale, Capuano è un cineasta napoletano che da più di vent’anni narra la vita della sua città natale e in particolar modo quella degli adolescenti di periferia che vivono in condizioni di degrado, disagio o prevaricazione. Vito e gli altri, Pianese Nunzio 14 anni a maggio, Polvere di Stelle, Luna Rossa e il più recente La guerra di Mario, sono tutti titoli che certificano l’interesse del regista per lo scavo nelle storie, nei luoghi e soprattutto nei personaggi – sovente interpretati da attori non professionisti che infondevano una straordinaria autenticità – con lo scopo di monitorarne gli stadi di indigenza o disorientamento, verificare gli archetipi culturali e antropologici che li sostengono, per registrare i piccoli e grandi cambiamenti che vengono generati dall’improvviso modificarsi delle situazioni di partenza. L’ultima sua fatica non si discosta dal percorso tracciato nel recente passato tanto che Ciro, il sedicenne coprotagonista di questo film, appare nel fisico così come nei comportamenti l’ultimogenito di una famiglia cinematografica assai numerosa e “unita”. E infatti, come già Vito, Nunzio, Mario e Oreste, anche Ciro vive in una periferia partenopea controllata dalla camorra, anzi appartiene a una famiglia che fiancheggia le associazioni criminali, non ha grandi ambizioni e aspirazioni (se non quella di trascorrere il tempo libero con i propri amici), non ha mai conosciuto il mondo che sta fuori dal ristretto e rassicurante habitat innaturale in cui è cresciuto. È insomma uno dei tanti “ragazzi di vita” del cinema italiano che sembrano rigenerarsi continuamente di generazione in generazione. Nel nostro caso, Ciro si fa coinvolgere in un fatto di violenza: una sera, dopo aver trascorso la giornata al mare, insieme a tre amici abborda un’adolescente benestante e dopo averla trascinata in un garage vicino, partecipa a uno strupro di branco. La violenza, ovviamente, cambia tanto l’esistenza della ragazza quanto quella di coloro che si sono resi protagonisti di questa azione infame. Se per Irene, infatti, inizia una traversata nel deserto (del dolore, dei sensi di colpa, del proprio corpo da accettare) che la allontana dalla famiglia, dagli amici e dal fidanzato, per Ciro – che dopo pochi giorni si consegna alla polizia – si schiudono le porte del carcere minorile (l’istituto penitenziario di Nisida) e inizia un periodo di reclusione e isolamento. I due ragazzi, così diversi, scopriranno, poco per volta, di essere legati da un filo sottile ma difficile da spezzare, un rocchetto così resistente da farli poco per volta avvicinare. L’avvicinamento, simbolico e non fisico, si deve inizialmente alle decine e decine di lettere che Ciro spedisce a Irene, scritte un po’ per sedare i suoi sensi di colpa, un po’ perché il ragazzo si accorge di essersi innamorato di lei. Lettere che la ragazza prima conserva segretamente in un cassetto, poi prova a leggere per subito stracciarle e cestinarle e infine ricompone, brandello dopo brandello, per trovare faticosamente le ragioni di un atto che né i genitori né il ricco e ambizioso fidanzato le sanno spiegare. Una volta che anche Irene prende carta e penna, tra i due ragazzi inizia un breve scambio epistolare del cui contenuto lo spettatore non verrà mai a conoscenza. Non è ciò che interessa a Capuano, impegnato piuttosto a (di)mostrare – attraverso questo escamotage narrativo – che possono esistere contiguità e affinità anche tra due personaggi contrapposti per background, aspirazioni, comportamenti, “ruoli” nella commedia (l’uno carnefice, l’altra vittima). Si tratta di vicinanze che in parte vanno ricondotte alle esperienze di questa particolare stagione della vita (la scoperta dell’altro, il rapporto non risolto con il proprio corpo e le proprie emozioni, la voglia di evasione fisica o simbolica, il bisogno di comunicare e raccontarsi, lo scontro con gli adulti) e in parte appartengono specificatamente a due ragazzi che si rivelano sensibili e attenti a ciò che li circonda. È questo, in fondo, l’assunto-paradosso del film: ovvero che i due condividano un destino comune che va oltre la loro situazione di partenza e che si alimenta nel parallelo e simile disfacimento delle rispettive famiglie e nell’incapacità degli adulti di comprenderli, come dimostra la pochezza delle due psicologhe che accompagnano i due ragazzi in questo loro percorso di elaborazione e crescita. Da questo punto di vista, appaiono straordinariamente contigue le due performance in cui si lanciano i protagonisti: da una parte il testo sperimentale di Marguerite Duras che Irene recita a teatro alla fine di un corso di recitazione, dall’altra le poesie sull’amore e sullo scopare che Ciro declama in mezzo a educatori, poliziotti e coetanei durante un incontro pubblico poi seguite dal concerto in cui lo stesso ragazzo canta una canzone rap. Sull’altare di questa tesi affascinante e per certi versi socialmente sovversiva (come d’altronde lo sono tutti gli ossimori, compreso quello che dà il titolo al film), Capuano sacrifica la verosimiglianza della rappresentazione sul piano della descrizione delle dinamiche procedurali cui è sottoposto Ciro, su quello della raffigurazione della vita in carcere (fin troppo edulcorata) e infine su quello relativo alle modalità con cui i due ragazzi vengono a contatto (situazioni autogestite senza che intervenga nessuna figura professionale in loro soccorso). Scelta di per sé accettabile – come già accaduto in alcuni suoi film precedenti – l’“assoggettamento” della realtà a un principio estetico e a una volontà espressiva più grande, funzionerebbe se fosse dichiarato apertamente con determinate prese di posizione formali e poi controllato con rigore e coerenza per tutto il corso della narrazione. Purtroppo però, nel caso de L’amore buio, la predisposizione di cliché e luoghi comuni non consente di individuare approcci formali convincenti, né un’architettura narrativa perfettamente oliata, finendo per rendere vano l’assunto di partenza del film. Ad esempio, per evidenziare simmetrie e sovrapposizioni tra le storie dei due protagonisti, il cineasta accetta di delineare in maniera affrettata e schematica alcune situazioni e personaggi (come la vita nel carcere di Nisida, il contesto familiare di Irene, il suo fidanzato perbene e insensibile, la figura delle psicologhe ecc.); inserisce possibili chiavi di lettura per poi abbandonarle frettolosamente (come l’uso delle fotografie digitali nella prima sequenza del film o la passeggiata dal sapore rosselliniano di Irene nei quartieri popolari a contatto con la “gente vera”); ne presenta altre che non celano una nota di pretestuosità (come l’incontro casuale di Irene con un quadro del Caravaggio); suggerisce svolte narrative francamente improbabili (la partenza di Irene per gli Stati Uniti al seguito del fidanzato “in odore di Nobel”). E pur tuttavia, all’interno di un plot debole e troppo schematico, restano alcuni momenti vivi e pulsanti, intensi e drammatici, frutto di una capacità di cogliere certi aspetti propri della “antropologia partenopea” che nel nostro regista resta intatta anche in questo film. Ne citiamo alcuni a mo’ di elenco: la sequenza dei tuffi così violenta e accecante; un finto campo/controcampo tra Irene e Ciro che sembrano guardarsi negli occhi; le centinaia di lettere scritte dal ragazzo, a testimoniare una voglia di raccontarsi che, come un fiume carsico d’inchiostro, ha solo bisogno di trovare il suo canale di sfogo per affiorare prepotentemente; gli sguardi corrucciati dello stesso protagonista maschile (o meglio dell’attore che lo interpreta) così irriducibili a qualsiasi finzione narrativa. Inoltre una netta divaricazione stilistica tra le due storie (per colori, movimenti di macchina, distanza della cinepresa dagli eventi) costringe lo spettatore a considerare il film in termini astratti e generali. Come se Ciro e Irene rappresentassero due facce della medesima persona, dilaniata e unita da un’anima violenta e una gentile, da una dimensione colorata e una cinerea, da una condizione di vittima e una di carnefice. Ma anche due facce del medesimo territorio: come se ci fosse un Dr. Jeckill e Mr. Hide partenopei che sanno dell’esistenza l’uno dell’altro e che sanno di doversi prima o poi osservare allo specchio.
Marco Dalla Gassa
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