Lama tagliente

di Billy Bob Thornton

(USA, 1996)

Sinossi

Karl Childers, ritardato mentale, fine conoscitore della Bibbia, lento e macchinoso nei movimenti e nelle parole, si appresta ad uscire dall’ospedale psichiatrico, venticinque anni dopo esserne stato rinchiuso. Quand’era adolescente, aveva ucciso la madre e l’amante, colti sul fatto, ed era stato condannato a vivere in quel luogo. Ora, dopo molti anni di terapia, Karl è finalmente pronto per vivere in società, visto che le autorità non lo ritengono più pericoloso. Per questo, controvoglia, è costretto a tornare nella cittadina natia. Qui Karl fa conoscenza con il piccolo Frank Wheatley – un dodicenne orfano di padre e con la madre che convive con un poco di buono, Doyle Hargraves – e ne diventa subito amico. Per Frank, quasi sempre solo, sofferente per il suicidio del padre, insofferente per la presenza violenta di Doyle, Karl è una specie di figura paterna. Intanto, Childers, poco per volta, si fa apprezzare anche dagli altri abitanti del paese: ripara macchine agricole in men che non si dica, esce con una timida e grassa cassiera, si fa ben volere dalla madre di Frank e da un loro amico gay. Solo Doyle minaccia la sua tranquillità, canzonandolo continuamente, cercando di picchiarlo e infine cacciandolo di casa. Karl paziente accetta tutto, ma quando si rende conto che Doyle porterà alla rovina Frank e la madre, come un vero giustiziere ultraterreno, fa in modo di rimanere solo con l’uomo e poi lo uccide.

Presentazione critica

Karl Childers è un personaggio strano. Non è il solito portatore di handicap che ci ha fatto conoscere il cinema americano. Non è un Forrest Gump o un altro Rain man, per intenderci. Non è né un emarginato, costretto a lottare per un’integrazione difficile, per far accettare o superare le proprie diversità, né ha grandi capacità nascoste, doti (atletiche, psichiche, sentimentali) eccezionali, straordinarie, che aspettano solo di farsi scoprire. Karl Childers non è niente di tutto ciò. Lento, tranquillo, apatico, di poche e misurate parole, di pochi e misurati gesti. Egli è invisibile (dorme in un garage, nel corso delle liti furibonde della famiglia di Frank se ne sta seduto in silenzio senza fiatare). Nella sua estrema “normalità”, Karl si trasforma nella coscienza invisibile delle persone, come uno specchio che rimanda al mittente la sua immagine, priva però di qualsiasi maschera. Grazie al suo pacato modo di essere, fa venire fuori in modo spontaneo i sentimenti delle persone: le paure e le domande più terribili del piccolo Frank (che si chiede per quale motivo il padre si sia ucciso o che confessa apertamente di voler ammazzare Doyle), il terrore della diversità provato dall’amico gay (si pensi al dialogo tra i due, quando l’omosessuale racconta i suoi segreti più intimi mentre Karl sta pensando solo alle sue patatine), la voglia di quotidianità domestica della mamma (quando cucina i biscotti anche di notte senza che, tra l’altro, l’uomo glieli abbia mai chiesti), la meschinità di Doyle, il suo razzismo nemmeno troppo latente. Karl non agisce, in silenzio aspetta che gli altri si aprano a lui. Così facendo, diventa, senza nemmeno volerlo, un personaggio etico, assolutamente inumano e perciò capace di una giustizia ultraterrena. Come una specie di extraterrestre buono, egli entra in contatto con il mondo degli “umani” senza esserne in minima parte contaminato, ma anche senza avere la loro passionalità, reazione, fantasia. Questo profilo “alieno” è, in tutti i casi, da ascrivere ai drammi patiti nell’infanzia: i genitori in continuo e perenne litigio; la madre con una storia extraconiugale, il padre che chiede al figlio di buttare nel cassonetto un fratellino più piccolo non voluto. La condizione di disagio provata da Karl (la cui descrizione è stata mirabilmente affidata dal regista solo alle parole del protagonista e non a inutili e lacrimevoli flash back) è perciò alla base del suo ritardo psichico. Accecato di rabbia, il piccolo Karl uccide l’amante della madre e poi la madre stessa, ma troppo tardi si accorge che i due si stavano dando piacere e non sofferenza. A crollare, prima dell’equilibrio psichico, è il sistema morale del bambino, troppo puro, rigido e inflessibile per sopportare una realtà fatta di orrori e compromessi. La resurrezione di Karl (nell’ospedale l’uomo ha letto solo la Bibbia e un manuale sul Natale) si traduce così in una nuova etica, basata sul dono e sulla protezione di ciò che ha di più caro. L’incontro con il dodicenne Frank non è altro che l’incontro con “se stesso” bambino (un po’ come nel film Faccia a faccia di Jon Turteltaub), il desiderio di protezione verso il ragazzo è una sorta di autoassistenza. Frank è la seconda possibilità di Karl. Per questo motivo l’uomo è costretto a compiere nuovamente un omicidio, per evitare che sia il suo alter ego a commettere i suoi stessi sbagli, preservandone il futuro. Lama tagliente può essere dunque considerata una pellicola che si ferma a riflettere sull’infanzia e sui meccanismi di crescita e maturazione delle persone, nonostante il ruolo di Frank possa sembrare secondario. E lo fa proponendo un modello di bambino tutto sommato originale: il fanciullo, secondo Billy Bob Thornton è una specie di alieno, una persona sola (Frank non gioca mai con gli altri coetanei), con una moralità formata e consapevole (capisce meglio di chiunque altro che tipo di persona è Doyle) ma impossibilitato ad agire; destinato a non essere compreso, a cercare luoghi di espressione solitari (come il bosco dove Frank va a leggere), caduto dal cielo, ma anche protetto da esso (in fondo Karl è un angelo che protegge Frank). Ma a ben pensarci, di fronte alla dissoluzione della famiglia, all’inversione dei ruoli sociali (l’amico gay è l’unica vera figura paterna cui Frank può ancorarsi, dopo la cattura di Karl), alla povertà morale e culturale della vita nella provincia americana, non è forse meglio essere un extraterrestre piuttosto che un umano?

Marco Dalla Gassa  

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