La scuola è finita

25/11/2010 Tipo di risorsa Schede film Temi Educazione e istruzione Titoli Rassegne filmografiche

regia di Valerio Jalongo

(Italia, Svizzera, 2010)

 

Difficile raccontare la scuola italiana di oggi, specie se si sceglie di farlo attraverso una pellicola che non si affida a formule più o meno consolidate, più o meno di successo come la commedia di costume, il film di denuncia, il documentario sociale, ma mescolando le carte dei generi nel tentativo di smarcarsi da definizioni sbrigative, alla ricerca dell’originalità che richiederebbe un tema come questo.
Valerio Jalongo con La scuola è finita, se non altro, ha il merito di averci provato, arrivando buon ultimo a puntare il proprio obiettivo su una realtà che sembra, specie negli ultimi tempi, una “sorvegliata speciale” da parte del cinema: coacervo di tensioni sociali, conflitti generazionali e derive ideologiche, la scuola è stata di volta in volta il luogo metaforico al cui interno i problemi dell’intera società più che affrontati vengono esorcizzati, resi accettabili perché vissuti all’interno di una dimensione ritenuta marginale se non addirittura trascurabile. Trattando temi capitali come quelli relativi alla scuola in maniera superficiale, il cinema sembra ricalcare fedelmente la realtà, almeno quella del nostro Paese, dove le parole educazione, cultura, istruzione, ricerca sembrano ormai evocare lussi superflui più che imprescindibili necessità.

Volendo azzardare una definizione, La scuola è finita è una commedia generazionale, nel senso che contrappone e affianca due generazioni, adolescenti e quarantenni di oggi, in un confronto che, alla fine, risulta impossibile. Protagonisti della storia sono infatti Alex, studente di un istituto tecnico alla periferia della Capitale che ha fatto dello spaccio di ecstasy la sua principale attività scolastica, nonché Daria, avvenente professoressa di scienze, e Aldo, insegnante di italiano con il pallino della musica, un tempo moglie e marito, ormai prossimi al divorzio consensuale.
Quando per Alex si prospetta una sonora bocciatura, Daria e Aldo tentano, ognuno a suo modo, di evitare che ripeta l’anno e magari si cacci in guai peggiori di quelli già causati da una madre svampita, separata dal padre del ragazzo e troppo presa dalla relazione con un altro uomo per dedicare attenzione al figlio, nonché da un ambiente scolastico lassista, disorganizzato e carente sotto ogni aspetto. La professoressa, anche grazie all’ascendente che sa di avere su Alex, tenta la via del dialogo, della comprensione e del rispetto; Aldo quella del coinvolgimento, dell’entusiasmo e della complicità, grazie alla passione per il rock che lo accomuna al ragazzo. Paradossalmente, sarà la vita dei due adulti a essere sconvolta (in tutti i sensi) dal rapporto con Alex che, al termine del film, si ritroverà ancora una volta solo con i propri problemi.

Nelle affermazioni di Jalongo – docente egli stesso presso l’istituto Rossellini di Roma – La scuola è finita doveva essere un film di denuncia, capace di portare all’attenzione del pubblico cinematografico lo stato di degrado in cui versa la scuola italiana: probabilmente non ce n’era bisogno, tanto evidente è la condizione di crisi vissuta – sia per motivi contingenti, sia per scelte politiche e amministrative discutibili – da questa istituzione. La realtà supera la finzione, e così la scuola diventa poco più che uno sfondo – peraltro messo in scena dal regista con indiscutibile efficacia, anche grazie al coinvolgimento diretto nella lavorazione del film dei veri studenti del vero ITS Pestalozzi di Roma – per le vicende vissute dai tre protagonisti, elementi centrali per comprendere il senso di un film che, al di là dei suoi molti difetti (su tutti, una sceneggiatura dispersiva) ha comunque degli elementi di interesse.
La scuola è finita, più che trattare i problemi dell’istituzione scolastica in sé, del suo attuale degrado e delle possibili soluzioni a tale situazione, sembra volerci parlare del divario, apparentemente meno consistente che in passato ma in realtà enorme, tra le generazioni che si ritrovano a confrontarsi al di là e al di qua di quella linea invisibile che passa tra la cattedra e i banchi.

Il film mette in scena due quarantenni in crisi, come tanti se ne incontrano oggi, incapaci di dare un senso comune alla propria relazione, frustrati da una professione nella quale riversano energie e competenze senza tuttavia ottenere i risultati sperati: due professori disillusi, certo, ma ancora capaci di dare qualcosa ai propri alunni, almeno instaurando con loro un rapporto di complicità. Quando a un certo punto del film diviene evidente come il loro convergere sulla figura di Alex con l’obiettivo di rimediare al suo scarsissimo rendimento scolastico (ma anche alle peraltro legittime accuse degli altri docenti che lo bollano come spacciatore) sia anche un tentativo di riavvicinamento in vista di un’improbabile riappacificazione, è facile pensare a questa coppia di professori e al loro alunno come a una metafora della società e della famiglia contemporanea.
Genitori spesso disorientati dal proprio ruolo, di volta in volta assunto con troppa preoccupazione ed eccessivo coinvolgimento emotivo (come nel caso di Daria incapace di mettere un freno all’infatuazione che il ragazzo nutre per lei), oppure con un malinteso senso di complicità che, invece di portare i ragazzi sul terreno degli adulti, costringe questi ultimi a mettersi pericolosamente al loro stesso livello, condividendone le esperienze, anche le più pericolose (come quando Aldo assume degli stupefacenti in compagnia del suo alunno).
Alex, Daria e Aldo ricordano, in fondo, una famiglia, anche perché troppo spesso a un corpo docente che non riesce ad assolvere ai suoi compiti principali – offrire conoscenza, creare interesse verso la cultura, produrre spirito critico – si chiede di adempiere a una mansione educativa che non gli appartiene – creare un orizzonte di valori condivisi – ma della quale, allo stesso tempo, le famiglie sono spesso incapaci.

Daria e Aldo falliscono sia in quanto docenti, a causa di fattori estranei alla propria diretta responsabilità, sia in quanto “genitori”, per l’impossibilità di ricoprire un ruolo che non può – e non dovrebbe – essere il loro. Una confusione di ruoli e funzioni molto diffusa in Italia (un esempio per tutti potrebbe essere costituito dalle famiglie che sostituiscono lo Stato nel fornire ammortizzatori sociali ai giovani e welfare a bambini e anziani) di cui fanno le spese, ovviamente, le generazioni più giovani, una deriva che andrebbe arrestata prima che sia troppo tardi, prima che, quanto affermato da Alex – “uno inizia col pensare di non essere capace e poi finisce col non essere più capace di fare niente” – diventi una realtà per molti.

Fabrizio Colamartino

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