Io, la mia famiglia rom e Woody Allen

di Laura Halilowich

(Italia – 2009)

 

Sinossi

Laura Halilovic è una diciannovenne torinese e vive da undici anni con i suoi otto familiari in un appartamento alla periferia della città. Laura ha nostalgia per la sua infanzia, vissuta in un campo Rom, anche se si è ben adattata alla vita in una casa e si dice pienamente integrata nel quartiere dove risiede.

Raccontando della madre, del padre e dell’anziana nonna che ancora abita in un campo nomadi alla periferia di Milano, Laura fa emergere le rivendicazioni dei Rom e ciò che pensano di loro i gagi (i non Rom). Ci offre anche la possibilità di conoscere quali sono le sue aspettative grazie a una lettera scritta a Woody Allen che è il regista la cui immagine la colpì da piccola e che ha nutrito il suo desiderio di diventare regista.

 

Presentazione critica

Introduzione al film

Una giovane regista Rom grazie all’amore per il cinema di Woody Allen

Laura Halilovic ha diciannove anni e realizza questo suo primo cortometraggio con la convinzione, l’entusiasmo e la passione di chi è alla sua opera prima. Se si vanno a studiare le opere di esordio di coloro che poi sarebbero diventati registi di professione ci si accorge che in esse (corti o lungometraggi che siano) vengono sintetizzate numerose tematiche. Sono quelle che stanno a cuore a chi dirige e che, forse inconsciamente o forse no, temendo di non avere una seconda occasione per potersi esprimere, le propone tutte insieme all’interno di un film-contenitore. È quanto accade all’esordiente e promettente Halilovic che utilizza già con padronanza le tecniche di base del documentario per esporre il proprio punto di vista sulla sua condizione di ragazza con carta d’identità italiana, passaporto bosniaco e impronte rilevate ogni anno per il permesso di soggiorno.

Le opzioni scelte dal punto di vista narrativo sono fondamentalmente due: a) la voce narrante di Laura che parla di sé, del suo presente, del suo passato; b) gli interventi dei suoi familiari (madre, padre, nonna, zio) che esternano ciò che pensano della loro cultura e della loro condizione di Rom in Italia. Sul piano visivo tutto ciò viene proposto con un montaggio che fa sì che quando uno degli ‘intervistati’ parla se ne colgano i gesti o gli sguardi e che, al contempo, si inseriscano (se necessarie) immagini del tempo trascorso o comunque delle situazioni a cui viene fatto riferimento. Assumono così grande rilevanza i video della prima infanzia di Laura girati con la camera VHS oppure le vecchie foto prese dall’album di famiglia. Allo stesso modo le soggettive o le riprese a seguire altri personaggi realizzate con la camera a manofanno sì che il documentario non soffra mai per staticità.

Laura Halilovic riesce ad offrire allo spettatore un punto di vista necessariamente unilaterale. Se si pensa alle dichiarazioni dei ‘gagi’ registrate al mercato rionale tutte ‘contro’ i Rom, non si può fare a meno di chiedersi se proprio nessuno si sia espresso in termini più raziocinanti e civili o se invece questi eventuali ultimi interventi non siano stati tagliati in fase di montaggio per rafforzare la tesi. Tale eventualità, tuttavia, non toglie valore al documentario, dal momento che la giovane regista riesce a mostrare al contempo l’amore per la propria etnia, le differenti posizioni all’interno della comunità Rom e il personale bisogno di svincolarsi da antichi retaggi. Gli sguardi della nonna e le immagini dell’infanzia di Laura sottolineano la nostalgia per un modo di vivere che agli occhi di una bambina poteva apparire magico ma che, visto nelle rughe e udito dalle parole dell’anziana nonna si rivela attualmente difficile da sostenere. I dettagli delle mani materne impegnate a preparare un impasto mentre la donna espone a voce i disagi di una convivenza in condominio con i ‘gagi’, trovano in altre mani al lavoro (quelle del padre che realizza contenitori in rame) un mezzo di convivenza con chi è diverso dai Rom, anche grazie all’apprezzamento per l’onestà e la dedizione a un mestiere antico e pressoché scomparso. A dominare è, tuttavia, la condizione dei Rom che vivono nei campi, come illustrato dall’esempio dello zio minacciato da uno sgombero forzato. Laura espone le contraddizioni interne al suo mondo (chi desidera la vita nomade, chi invece vorrebbe maggiori certezze di stanzialità legate anche alla frequenza scolastica dei minori) e risolve l’annoso tema della disonestà dei Rom con un intervento della madre che afferma la necessità di arrestare chi delinque a fronte dell’altrettanto urgente necessità di non generalizzare riversando su un’intera etnia le colpe di pochi.

Il suo vissuto personale, i suoi sogni di bambina e il suo radicato desiderio di diventare regista si inseriscono rapsodicamente nel tessuto della narrazione: la lettera a Woody Allen, la mancata risposta, il red carpet veneziano (con Allen che firma l’autografo e si tiene la penna della protagonista) sono utilizzati come scene di interpunzione quasi fossero separazioni tra un capitolo e l’altro del racconto. L’immagine di un sontuoso abito da sposa che viene riposto in un armadio costituisce poi l’elemento di forza dell’ultima parte del film: il ripetuto invito a sposarsi, che Laura respinge, si trasforma in un incubo onirico in cui la profferta di matrimonio assume visivamente la dimensione dell’ossessione. Tuttavia, proprio nel finale, a coronamento ironico della pellicola, proprio un matrimonio costituisce l’esordio dietro la telecamera di colei che firma questa interessante opera prima.

 

Il ruolo del minore e la sua rappresentazione

Il minore come figura unificante di esperienze diverse

Ciò che caratterizza questo film-documentario è il punto di vista della regista che descrive la vita del popolo Rom a partire dal suo appartenere a questo popolo. Ne scaturisce una visione dal di dentro, una descrizione che elude e oltrepassa gli approcci sociologici alla questione. Emerge una frattura insanabile tra i rom e il popolo occidentale che li ospita, una linea di demarcazione che sembrerebbe sancire un impossibile dialogo. La cultura occidentale tende a stereotipare la cultura rom attraverso la parola “zingari” con tutta la diffidenza e il timore che questo termine suscita: vengono percepiti come una unità a sé stante con un’identità scomoda. Tuttavia il punto di vista della regista tende a volte a riprodurre gli stessi meccanismi di cui accusa i paesi occidentali. Gli altri sono quelli che non sono Rom, i gagi, ai quali non viene riconosciuta un’identità. Da questo misconoscimento reciproco non possono che nascere tensioni e ostilità, pretese e intolleranze.

Se gli zingari hanno la fama di rubare, gli occidentali hanno la fama di essere ottusi e borghesi: ne emergono due posizioni apparentemente in contrasto ma uguali nella sostanza. In fin dei conti ogni fama che viene attribuita possiede un fondo di verità, non assolutizzante ma del quale è bene tenere conto. In questo contesto di tensioni reciproche la figura del minore emerge come figura unificante l’esperienza di entrambi i popoli.

Quando la regista ci mostra i bambini che giocano nel campo rom, che partecipano alle feste degli adulti, che siedono a tavola ridendo e scherzando, lo spettatore avverte immediatamente un allentamento della tensione. Accade un qualcosa che, a dispetto delle differenze, consente di riconoscersi in un’esperienza comune. Il desiderio di giocare, di divertirsi, di mangiare insieme, di cucinare insieme riporta il dialogo all’essenza stessa dell’uomo, a un qualcosa di comune che solo una presa di posizione ideologica può eludere. La regista ci racconta la sua storia da bambina fino a giovane donna, facendoci partecipe delle sue esperienze fondamentali. Vediamo così in atto un rapporto tra generazioni (bambini, adulti e anziani) che nella nostra cultura è venuto meno. Vuoi per motivi contingenti, vuoi per motivi culturali, la società occidentale (almeno quella delle grandi città) vive in comparti stagni che sembrano non avere possibilità di dialogo e di arricchimento reciproco. La vita comunitaria dei Rom ci riporta a una cultura rurale del passato in cui la convivenza di più generazioni sotto lo stesso tetto era la normalità.

Mentre l’Occidente si sta trasformando in un mondo di adolescenti ad oltranza, nel quale il salto generazionale viene pericolosamente azzerato, la cultura Rom mantiene la sfida del confronto tra generazioni diverse. La regista ce ne mostra anche tutte le difficoltà e le incomprensioni. La protagonista fatica a trovare uno spazio personale fuori dagli schemi rigidi che la vorrebbero sposa a 19 anni. L’essere venuta a contatto con la scuola, pur con tutte le difficoltà dell’integrazione, la televisione e il mondo occidentale in genere, la spinge a desiderare una vita sua. Non trovando alleati in questa sua battaglia si rivolge a Woody Allen con una lettera da cui spera una risposta che non arriverà mai. Woody Allen, prototipo della società americana, rappresenta per lei quel riscatto, quell’integrazione che si fonda non sull’appiattimento delle differenze, ma sulla valorizzazione dell’identità di ognuno come base per una convivenza pacifica e libera. Il suo riscatto personale avverrà attraverso il suo lavoro di regista che si presenta come un ben riuscito modello di integrazione.

 

Riferimenti ad altre pellicole e spunti didattici

Numerosi sono i film che hanno come protagonisti i Rom. Ne segnaliamo tre che possono essere proposti a fasce d’età diverse. Per gli allievi della quinta elementare e dei primi due anni della scuola media può risultare interessante la visione di Tir-na-nOg – È vietato portare cavalli in città (Tir-na-nOg– Into the West, USA, 1993) di Mike Newell. In esso si descrive il desiderio di nomadismo di due bambini privati del loro cavallo e costretti a vivere in un casermone alla periferia di Dublino. C’è poi (per la scuola media di secondo grado) Un’anima divisa in due (Italia,1993) in cui Silvio Soldini racconta, senza cadere mai nella retorica, il rapporto tra la guardia giurata di un grande magazzino milanese e una giovane Rom sorpresa a rubare. Più complesso, ma non meno interessante anche perché lo stesso regista è un Rom, è Gadjo Dilo – Lo straniero pazzo (Gadjo Dilo, Francia, 1997) in cui Tony Gatlif (nato in Algeria da gitani andalusi) porta sullo schermo un giovane Brad Dourif nei panni di un musicofilo che, alla ricerca di una cantante di cui ha la voce incisa su un nastro, si immerge nella cultura Rom della Romania e comprende che ognuno è un po’ straniero per gli altri. Altrettanto pregnanti e di segno profondamente opposto un altro film di Gatlif, Swing (id., Francia 2002) sulla tenera amicizia tra un giovanissimo chitarrista francese appassionato di Django Reinhardt e la figlia Rom del suo maestro di musica nel corso di un’intensa estate, nonché il film di Emir Kusturica Il tempo dei gitani (Dom za vesanje, Jugoslavia 1989) che narra le vicissitudini di un adolescente Rom di origini bosniache portato in Italia e costretto a delinquere dalla famiglia a cui è stato affidato dalla madre.

Elena Galeotto, Giancarlo Zappoli