Intervista a Lara Rastelli

16/07/2009 Tipo di risorsa Interviste Temi Minori detenuti

regista di Nisida. Grandir en prison

Parigi, 23 novembre 2008 

 

CAMeRA (C) Da quale impulso, urgenza, curiosità o incontro significativo è nata la decisione di realizzare il suo film?

Lara Rastelli (LR) La privazione di libertà come argomento filosofico mi interessa da sempre. Una decina di anni fa ho scritto una sceneggiatura per il cinema sulla questione della recidiva.Era la storia di un ragazzo tra la sua uscita di carcere e il momento in cui viene ri-arrestato. Una sociologa – a scopo di ricerca – mi aveva lasciato leggere le bellissime interviste che aveva condotto in carcere con un gruppo di recidivisti. Ricordo una frase di un ragazzo che vedeva dalla sua cella la metropolitana che conduce in periferia. Diceva: “La cosa più difficile è sentire i treni che passano, c’è una linea di fronte e una dietro. Passano ogni minuto. E io immagino le persone in quei treni: sono nella loro vita, passano davanti al carcere e alle volte non sanno neanche che esiste, non pensano mai a noi. E io vorrei essere in uno di quei treni, nella mia vita, con le mie abitudini”. Personalmente non riesco a passare davanti ad un carcere senza fermarmi, senza avere un pensiero per coloro che dietro quelle mura scontano la loro pena. È così e basta. Nisida non è nato né da un’urgenza, né da un incontro particolare ma rappresenta il concretizzarsi di un interesse di lunga data.

(C) Quali sono state le principali difficoltà che ha dovuto affrontare durante le riprese? Quali sono i limiti che le sono stati imposti?

(LR) Per essere sincera la cosa che più mi ha sorpresa è stata la facilità con la quale sono entrata per la prima volta all’IPM di Nisida. Ho trovato il numero di telefono del centralino sulle pagine gialle, ho chiamato, ho chiesto di parlare col Direttore, mi sono presentata e ho ottenuto un appuntamento. Gianluca Guida, il Direttore, mi ha fatto visitare l’IPM, abbiamo parlato, mi ha chiesto di esplicitare il mio progetto con uno scritto. Insieme abbiamo richiesto l’autorizzazione per le riprese al Ministero. Sei mesi dopo l’avevo. Solo che le riprese dovevano essere effettuate negli spazi comuni, e quindi non nelle celle, e il film doveva rispettare l’anonimato dei ragazzi. I ragazzi del documentario sarebbero stati scelti dal Direttore e dalla sua équipe pedagogica. Insomma avevo l’autorizzazione ma mi sembrava tanto una presa in giro... E non solo a me: i produttori del film hanno fatto subito un passo indietro. Io il documentario volevo farlo davvero e ho deciso che questi limiti sarebbero stati la forza del film perché sono propri al carcere. Bisognava trovare delle idee, una scrittura cinematografica propria al soggetto che volevo trattare. L’unica cosa che mi faceva davvero paura era di non scegliere i ragazzi con i quali avrei lavorato. Ma Guida è stato comprensivo su alcune mie richieste e in più ho avuto un pizzico di fortuna... Ritengo che i limiti che mi sono stati imposti sono diventati in parte una forza per il film. Per il resto, e cioè la logistica durante le riprese, abbiamo facilitato al massimo tutti i controlli per il materiale tecnico di ripresa e per i laboratori, fornendo delle liste molto precise e lasciando all’interno ciò che era più “a rischio”. Abbiamo elaborato e cercato di rispettare al massimo dei piani di lavorazione con orari, luoghi, persone da riprendere. Credo che questo sforzo per facilitare il lavoro del personale dell’IPM sia stato ben recepito e quindi, tutto sommato ciò ha contribuito al rispetto reciproco tra la mia troupe e il personale del carcere.

(C) Ogni film ambientato in carcere o “nelle sue vicinanze” (tribunali, comunità di recupero) impone di confrontarsi con stereotipi figurativi e narrativi tipici della rappresentazione carceraria e con luoghi comuni radicati nella nostra visione del carcere. Ne ha tenuto conto durante la lavorazione e il montaggio del film?

(LR) Certo che ho tenuto conto degli stereotipi! È stata una lotta enorme tra me e me per liberarmene, soprattutto all’inizio. Lasciarmi andare, lasciarmi coinvolgere dall’immenso immaginario collettivo sulla prigione significava togliere al film la sincerità intellettuale che era alla base del mio percorso. Francamente è stato un lavoro enorme. Ricordo che i primi tempi facevo dei sogni atroci sul carcere, sui detenuti che nulla avevano a che vedere con ciò che mi circondava. Era necessario che io guardassi, scavassi questa realtà con i miei occhi e solo con i miei. Volevo lavorare con una soggettività onesta, retta. Anche perché ciò che mi interessava maggiormente era la relazione con i ragazzi. Ho cercato costantemente di essere aperta e franca. Ed ero curiosa di sapere come sarebbe andata a finire, ciò che avrei pensato del carcere minorile a fine percorso. Potevo girare all’IPM di Roma, sarebbe stato più facile logisticamente parlando e meno oneroso per la produzione. Ho scelto, e davvero scelto, Nisida perché non assomiglia ad un carcere. Perché non ci sono corridoi infiniti, porte chiuse a chiave ad ogni angolo, perché la natura irrompe impetuosa nel perimetro del carcere. Oltre i ragazzi, a Nisida, ma sono sicura che ciò è vero altrove, ho incontrato delle persone per cui nutro una grande stima: alcuni agenti, le insegnanti, il cuoco, la ragioniera; ho incontrato delle persone che credono al loro lavoro, al loro ruolo. Nonostante ciò, alla fine di quest’avventura il muro non era caduto, le sbarre alle celle erano sempre lì... insopportabili. Ciò che penso alcuni ragazzi non lo pensano, ma io credo sia impossibile rieducare, come dice la Costituzione, e, contemporaneamente, rinchiudere. È un paradosso: c’è un conflitto di idee. È chiaro che il delitto, il crimine non va dimenticato. Ciò nonostante mi sembra sia giunto il momento almeno di interrogarsi seriamente su misure alternative al carcere anche per i casi più gravi. Ciò che spesso conduce questi ragazzi a sbagliare è una non aderenza al reale. La conoscenza che hanno della società che li circonda è molto parziale. Non bisognerebbe allontanarli dal nostro mondo ma al contrario scaraventarli dentro, permettergli di riflettere concretamente. Spero che il documentario che ho fatto ed eventi come “Ora d’aria” contribuiscano ad una ricerca in questo senso. Mi sto allontanando dalla domanda...

(C) Uno degli aspetti più delicati del suo lavoro è stato di certo il contatto, il confronto e la collaborazione con i ragazzi detenuti che hanno recitato nel film. Che tipo di relazione si è istituita con loro e che livello di partecipazione è stato loro richiesto?

(LR) “I ragazzi che hanno recitato” mi fa sorridere...ma c’è una verità. All’inizio e più sporadicamente dopo, Enzo, Samir, Rosario credevano di dovermi dimostrare qualcosa. In poche parole si rinchiudevano da soli in certi ruoli: dall’alto dei suoi 12 anni di pena Enzo si atteggiava a capetto, Rosario ci teneva a far sapere che avrebbe potuto rendere pazzo chiunque e Samir muto mi guardava da lontano e i suoi occhi dicevano: “Tanto io già lo so chi sei!”. Noi – dico noi, perché la mia troupe ha partecipato pienamente alla relazione con i ragazzi – li abbiamo presi in contropiede, ci siamo interessati ad un’altra parte di loro (la fragilità, l’esuberanza, il talento artistico). Li abbiamo coinvolti sorprendendoli. È stata la prima tappa. All’inizio i nostri scambi non andavano aldilà dei “si”, “no”, “bello”, “brutto”, “buono”, “cattivo”. Insomma era una catastrofe. Non so bene come e perché la relazione si sia approfondita. Mi ricordo solo che avevo tre parole in testa: responsabilità, coscienza e ambizione. L’ambizione principale era che non eravamo insieme per passatempo ma per vivere veramente il tempo che ci era stato concesso. Quanto alla coscienza era per me importantissimo che avessero in mente lo scopo e il perché del lavoro che facevamo: primo concetto non era il mio ruolo e in mio potere di intercedere in loro favore – a livello giudiziario o amministrativo – durante la loro permanenza a Nisida. I ragazzi avevano la responsabilità del film, quanto me, quanto il produttore. Farà sorridere ma funzionavamo quasi in autogestione. Noi grandi davamo delle linee conduttrici di lavoro, delle scadenze e loro decidevano come, quando avrebbero lavorato, quando avevano voglia di parlare, di reagire ad una situazione. Chiaramente ci sono stati giorni difficilissimi, giorni in cui non ho girato niente, giorni in cui giravo delle scene in cui mi deludevano – e che sono montate – giorni in cui l’Inter aveva perso e quindi tutto il resto era relativo... Ma Enzo, Ali, Rosario, Samir ci hanno dato tantissimo e io ho cercato professionalmente di dare il mio massimo. Il fatto che amassi il mio mestiere li ha avvicinati a me. Strano no, visto che fanno di tutto pur di non “faticare”! E alla fine è proprio il lavoro svolto insieme che ha permesso alla nostra relazione di approfondirsi parecchio. Avevamo previsto due laboratori. Il primo durante il quale giravano loro un documentario. Lo scopo era conoscerci e fargli capire cosa è un film. Il secondo per fabbricare le maschere e quindi consentirci di cominciare le riprese del film. Visto che questo metodo funzionava alla fine abbiamo organizzato altri due atelier nella speranza di facilitare la parola, l’esprimersi partendo dal concreto. Credo che mi abbiano stimato perché ho sempre promesso meno di quanto ero in misura di dare, evitando così di deluderli. E soprattutto ci siamo sempre scritti ed è stato importantissimo poiché la continuità della relazione si è mantenuta grazie a ciò e anche perché eravamo fuori contesto, fuori film. Alle volte non stavano ai patti e di sicuro ciò che si costruiva tra noi un giorno poteva sfracellarsi il giorno dopo...ma bastava ricominciare e a forza di ricominciare le fondamenta sono diventate più solide. Mi hanno voluto bene e io pure. Sono riusciti a trasmettermelo, e questo conta parecchio.

(C) Le maschere indossate dai ragazzi nel corso delle riprese ci sembra che abbiano una tripla funzione: quella più concreta, ovvero impedire che siano riconoscibili come chiede la normativa, un’altra meno ovvia, cioè aiutarli a parlare liberamente davanti alla camera, una terza simbolica, ossia indicare agli spettatori che questi ragazzi sono praticamente invisibili allo sguardo della società. Si sente di condividere questa analisi?

(LR) Le maschere sono frutto di un’idea che è stata, in effetti, la sana reazione al limite che mi era stato imposto dal Ministero: rispettare l’anonimato. Il produttore del film era entusiasta e io mi sentivo in un certo modo liberata. Le cose sono andate diversamente all’IPM quando ho presentato il progetto. Ho sentito una certa ironia del tipo: “E perché no il passamontagna?”. Ho constatato una certa paura del grottesco. La reazione dei ragazzi è stata violentissima: nessuno voleva più fare il film. Dopo lunghe discussioni hanno capito che non era una mia volontà ma un limite per me, che anch’io – come loro – non potevo fare quello che volevo in carcere. Così alla fine li ho convinti. Le maschere che si vedono nel film sono il frutto di un laboratorio che abbiamo fatto con i ragazzi e che è durato quindici giorni. Simbolicamente la maschera è il proseguimento di una privazione di identità dovuta al carcere, l’elemento tangibile e visibile di Enzo P., Rosario R. e Samir B. come si suol dire. Per questo motivo partecipa pienamente al tentativo di raccontare i ragazzi durante l’esperienza della loro incarcerazione. Non so se i ragazzi hanno parlato più liberamente grazie alle maschere. È una cosa che è stata spesso detta da coloro che hanno visto il film. Ma sinceramente non saprei. Forse si, magari in maniera incosciente. Di sicuro sia loro che io ne avremmo fatto volentieri a meno. Difatti quando i ragazzi sono diventati maggiorenni abbiamo fatto una richiesta, io come regista, e loro individualmente, per poter continuare le riprese senza maschere. Avevo voglia di riprendere la loro pelle, le loro espressioni che conoscevo a memoria e loro avevano voglia di essere veramente loro. La nostra richiesta però non è stata accolta. Così, per un certo verso, le tre inquadrature dei loro visi alla fine del documentario, non previste, sono state un regalo che ho fatto a me stessa e a loro, il frutto di un grande desiderio comune. Ricordo una scena non montata per vari motivi. Alla fine dell’ultima, lunga e dolorosa intervista a Rosario, gli chiedo se posso riprenderlo a viso scoperto. È un momento fortissimo. Difficile da descrivere. Rosario toglie lentamente la maschera, si pettina con le mani, e mi guarda con quei suoi occhi. Io giro lo schermetto della telecamera e gli dico: “ Lo vedi quanto sei bello!”. Rosario sorride. Ecco io avrei voluto mostrarvi i visi di questi ragazzi. Ma le maschere fanno parte delle loro privazioni di detenuti. Aggiungerei, ultimo elemento importante, che le maschere sono state l’arma di Enzo, Rosario e Samir nei confronti del film e questo l’hanno capito al volo. Bastava che le togliessero e io mi ritrovavo disoccupata. È stata spesso la loro maniera di dirmi: “non voglio”. In un certo qual modo le maschere erano la loro forza.

(C) In che misura lo stile adottato è stato influenzato dall’argomento del film? È stato costretto a modificarne le caratteristiche nel corso della lavorazione?

(LR) Sin dall’inizio mi era chiaro che per realizzare un documentario in un carcere avrei dovuto adottare un linguaggio cinematografico specifico al contesto. Ogni film, in realtà, suppone uno stile appropriato all’argomento. L’uso delle maschere, di inquadrature molto strette o larghissime e del controluce è un elemento che esiste sin dall’elaborazione del progetto. Ma si tratta comunque di un dispositivo molto classico. In poche parole ho pensato che vista la complessità del soggetto mi conveniva adottare un linguaggio semplice. Durante le riprese, alla fine della prima fase, due ragazzi: Ali che è ancora nel film e Giuseppe, sono stati trasferiti. Non era previsto. Tra le mie richieste iniziali avevo domandato di poter lavorare con ragazzi che sarebbero restati almeno un anno. C’era una scelta da fare: o seguirli (in Comunità a Napoli e all’IPM di Firenze) o continuare con altri ragazzi ed è quello che abbiamo preferito fare pur intuendo che una decina d’ore di girato interessante finivano nella spazzatura e che la prima parte del film sarebbe stata disequilibrata. Nessuno di noi aveva previsto invece la durata del film e delle riprese. Ci orientavamo su un documentario classico di 52 minuti e pensavamo di girare circa un mese e mezzo nell’arco di un anno. Il film dura un’ora e quaranta e abbiamo girato circa tre mesi durante più di due anni. Il motivo è inerente a due fattori direttamente interconnessi. A Nisida tutto è lento, lentissimo: dall’ottenere le chiavi di una sala al trovare un bagno. I ragazzi sono lenti perché tanto, come dicono loro, sono lì per perdere tempo. Hanno alti e bassi e durante i bassi non si lavora. I ragazzi non hanno fiducia in sé stessi e allora bisogna dimostrare loro, passo dopo passo, che sono capaci di fare una maschera, una fotografia, ecc. Non sanno cos’è il tempo (me ne ricordo di uno ad esempio che non sapeva leggere l’orologio). In carcere il tempo è un “non tempo” o quantomeno il tempo della pena. Questo tempo così particolare, così diverso da quello di fuori, e che ho scoperto a Nisida, ho cercato di tradurlo col tempo impartito al montaggio del film.

(C) Cosa ha appreso da questa esperienza cinematografica, non solo a livello umano ma anche e soprattutto per il suo lavoro di regista, nella sua visione del cinema e del documentario?

(LR) Ho imparato sperimentandola l’importanza della libertà, dell’indipendenza a livello professionale. Ho iniziato un documentario con un’autorizzazione che mi diceva: “Non farlo!” e l’ho finito pensando: “Incredibile quanto sia stata libera su Nisida”. Forse perché ho capito il ruolo dei limiti nella creazione, quanto sia fondamentale appropriarsene e rigirarli a proprio favore. Vi ricordate Pasolini in Comizi d’Amore: ogni volta che sa che verrà censurato lui mette un bip, si censura da solo... senza in realtà censurarsi minimamente! La mia libertà la devo anche ai miei produttori, alla fiducia e al tempo accordato. Se avessi avuto le sei classiche settimane di montaggio Nisida sarebbe un altro film. Ho capito una cosa: che quando non si hanno soldi, o pochi soldi, si deve avere tempo. Insomma sto imparando a sfruttare le debolezze... Ormai fare un film è alla portata di tutti e per questo motivo ho voglia di sperare in un cinema sempre più indipendente da certi schemi di creazione voluti dalla televisione, un cinema più creativo e libero.

a cura di Marco Dalla Gassa e Fabrizio Colamartino