Cagliari, 27 novembre 2008
(CAMeRA) Da quale impulso, urgenza, curiosità o incontro significativo è nata la decisione di realizzare Jimmy della Collina?
(Enrico Pau) Il film è nato dalla lettura dell’omonimo romanzo di Massimo Carlotto. Avevo letto molti dei romanzi di Massimo, ma non questo che non è certo tra i suoi romanzi più conosciuti: è un racconto per ragazzi, edito da una piccola casa editrice. Ho scoperto poi che è molto diffuso e letto nelle scuole, tra i ragazzi delle superiori. È stata una folgorazione perché mi ha rivelato un mondo e un universo che io non conoscevo, quello del carcere minorile e di una comunità di recupero per giovani carcerati. Avevo sentito parlare di comunità per le tossicodipendenze e non immaginavo che esistessero strutture dove si potesse scontare parte di una pena. Scoprire che ci sono luoghi in cui si offre ai ragazzi la possibilità di vivere un’esperienza alternativa a quella della carcerazione, più umana, più ricca di stimoli anche relazionali, affettivi, è stato molto importante e mi ha spinto ovviamente a pensare che la storia potesse diventare un film. Poi il romanzo ruota intorno a un argomento fondamentale come l’adolescenza e tutte le sue variazioni. È la storia di un ragazzo che si trova in un momento particolare della sua vita, in una fase di passaggio che lo porta ovviamente ad un momento di crisi profonda e ad una fuga. Come dice spesso Don Ettore Cannavera che è il personaggio che ha ispirato un po’ tutta la storia, “questi ragazzi in realtà sono in fuga da sé stessi” ed è paradossale che finiscano proprio in un carcere minorile.
(C) Quali sono state le principali difficoltà che ha dovuto affrontare per realizzare il film?
(EP) Abbiamo aspettato per oltre un anno e mezzo una risposta da RAI Cinema che non arrivava mai e che, invece, poteva arrivare in poche settimane. Ovviamente c’è stata pochissima attenzione da parte dei produttori, quelli professionisti. Poi ho avuto la fortuna di un incontro con un produttore romano, Luciano Russo della X Film e, successivamente, con questa fondazione che è nata all’interno di una cooperativa edile, formata da operai, la Ope di Cagliari, che ha creduto nel progetto e lo ha finanziato in maniera determinante. Le difficoltà, quindi, sono state quelle di tutti coloro che cercano di fare cinema indipendente in Italia affrontando temi non scontati. Quello di Jimmy della Collina è un tema difficile, poco gradevole. In questo momento la situazione sta migliorando, per fortuna. Ai tempi in cui cercavo i finanziamenti, pensare di produrre un film sul carcere era una vera scommessa, per quanto venisse dalla penna di uno scrittore conosciuto e amato. Se non ci fosse stata una volontà collettiva, il tentativo di mettere insieme un budget, piccolo per altro, e che tuttavia ci ha consentito di lavorare senza alcun problema, non sarebbe stato possibile finire il film. Ho lavorato cinque settimane, le stesse che avevo avuto per il mio primo lungometraggio, che aveva un budget molto più alto, ho lavorato con le persone con cui amo lavorare, ho avuto gli attori che desideravo avere. In sostanza, superata la prima fase, non ci sono stati problemi.
(C) Dal punto di vista burocratico, per quanto riguarda l’amministrazione carceraria, e per i rapporti con la comunità, come vi siete trovati?
(EP) Abbiamo avuto la totale disponibilità della comunità e del carcere minorile anche perché noi volevamo girare nei luoghi reali della storia. Il direttore di Quartucciu ci ha dato addirittura un’ala del carcere non occupata in quel momento e l’abbiamo potuto trasformare in un set. Si è trattato di un vantaggio enorme. È una di quelle cose che rende possibile girare con budget così irrisori. Se non ci fosse stata tale disponibilità non so come avremmo fatto. È chiaro che questo clima è nato anche dal fatto che sia il carcere sia la comunità sentivano che attraverso il film c’era la possibilità di raccontarsi e di portare all’esterno la propria voce. Sui giornali nazionali c’è spazio solo per le cose negative, non si può mai raccontare la vita di tutti i giorni sia dei carcerati sia delle persone che lavorano nel carcere. Da questo punto di vista Jimmy forse ha reso un servizio ad una realtà che è pressoché sconosciuta e spesso viene rappresentata con stereotipi che purtroppo non rendono conto della natura vera di questi luoghi. Perché il carcere ha subito troppo spesso una lettura irreale, deformata, almeno nel cinema italiano. Anche se poi esistono ottime eccezioni, come per esempio L’aria salata, un film con una grandissima tensione per la realtà del carcere nel quale è ambientato, dandone una rappresentazione certamente riuscita. Questo per dire che non siamo gli unici ad aver fatto questo tipo di lavoro!
(C) Ogni film ambientato in carcere o “nelle sue vicinanze” (tribunali, comunità di recupero) impone di confrontarsi con stereotipi figurativi e narrativi tipici della rappresentazione carceraria e con luoghi comuni radicati nella nostra visione del carcere. Ne hai tenuto conto durante la lavorazione? Se si, in che misura il film si allontana o si avvicina a questi stereotipi?
(EP) Sono affascinato dal cinema di genere. Tutta la prima parte del racconto, i primi quindici minuti, sono un omaggio al cinema di genere. Quasi in maniera jazzistica, c’è il tentativo di raccontare freneticamente, come in un assolo di batteria, il momento in cui il ragazzo perde la coscienza, si pone di fronte al tema della rapina, come ci arriva, come l’ambiente che lo circonda in qualche modo lasci segni su di lui, come lui sia in crisi rispetto alla sua famiglia, come si opponga al modello che gli è stato proposto, che è quello del lavoro in fabbrica. Si tenta di dare l’idea di questa fuga da sé stesso, questo tormento adolescenziale che è tipico di chi vive in una realtà provinciale che non riesce a rappresentare il suo bisogno di scoperta del mondo: da qui nasce il suo desiderio di fuggire in Messico. Insomma, tutto questo ho cercato di raffigurarlo attraverso il respiro di una tachicardia, come uno sguardo in soggettiva del ragazzo che, attraverso il suo corpo, ci racconta tutte queste sensazioni, i suoi sogni, le delusioni: è un momento fortemente marcato e segnato da un’idea di genere, che in qualche misura è quello del noir.
(C) Nel tuo film lavorano insieme attori professionisti e ragazzi comuni: che genere di collaborazione s’è instaurata tra i primi, i ragazzi detenuti e quelli della comunità?
(EP) La verità e la forza della rappresentazione del film, ammesso che ci siano, sono legate al tentativo di creare un cortocircuito molto interessante tra elementi eterogenei come lo sono quell’insieme di attori che vengono dal teatro, giovani del luogo e ragazzi, sia detenuti nel carcere che ospiti della comunità, che hanno lavorato con me. Lavorare nei luoghi e con le persone investite da queste problematiche ha toccato profondamente tutta la troupe. È come se raccontassimo in presa diretta una storia nel luogo in queste vicende avvengono ogni giorno. Siamo nel territorio della finzione, ma lo spazio non è stato ricostruito: era uno spazio reale e gli attori partecipavano osservando la realtà che avevano attorno come se vivessero una sorta di privilegio. C’era l’emozione dell’incontro con i ragazzi, il desiderio d’essere fedeli a ciò che loro vivono, l’unicità di un’esperienza, visto che solitamente il cinema entra negli ambienti e li cambia. In questo caso è successo il contrario. Sono i luoghi che hanno cambiato i “cinematografari”. Sai, spesso, nel cinema c’è un po’ di cinismo. Invece siamo noi quelli folgorati sulla via di Damasco.
(C) In che misura il registro linguistico adottato è stato influenzato dall’argomento del film?
(EP) Il film è diviso in due parti. La prima è un po’ estrema, tachicardica, ritmica: mentre giravo pensavo a film che hanno lasciato su di me una traccia molto forte. Successivamente il film rallenta all’improvviso: come nel romanzo c’è una maggiore attenzione alla relazione tra i personaggi e gli spazi, la campagna, il carcere. Volevo che i luoghi lasciassero un segno profondo nei personaggi. E, via via, il ritmo rallenta in maniera direttamente proporzionale alla presa di coscienza di Jimmy, come in un passaggio verso qualcosa che, pur non modificando la sua visione un po’ “bullistica” del mondo, comincia a minare le sue certezze. L’incontro con la volontaria che opera all’interno del carcere lo segna, lo modifica profondamente. Nascono dentro di lui delle incertezze. E quindi in questo senso il film acquista un respiro più paesaggistico: nella prima parte un paesaggio industriale, con la fabbrica come elemento dominante, nella seconda un paesaggio segnato da questa comunità che Don Ettore ha voluto fosse situato in un posto bellissimo, perché i ragazzi devono riacquistare anche il senso della bellezza, quella dei luoghi, dell’apertura spaziale, degli orizzonti liberi. I luoghi devono segnare profondamente e lasciare una segno forte su di loro. Anche il film doveva fare sentire questo passaggio ai suoi spettatori.
(C) E il tuo abituale modo di girare è stato modificato dal tema affrontato e dai luoghi del racconto?
(EP) Abbiamo preparato il film per un anno e mezzo durante il quale siamo andati spesso in carcere e nella comunità e abbiamo poco per volta conosciuto queste realtà. Per cui sono arrivato “all’esame”, al tournage, abbastanza preparato, sapevo cosa avrei incontrato. Ovviamente poi la sorpresa è quella di vedere gli attori che lavorano tra loro, portando dentro la loro emozione, i loro vissuti profondi, per fortuna. È il bello del cinema e se il regista è abbastanza intelligente da farsi “visitare” dalle visioni degli attori, il tutto guadagna in verità. Comunque il film è molto vicino all’idea che avevo all’inizio: è strano, è un film che sentivo molto e che avevo già visto quasi alla prima lettura del romanzo.
(C) Cosa hai appreso da questa esperienza cinematografica, non solo a livello umano ma anche e soprattutto per il tuo lavoro di regista, nella tua visione del cinema?
(EP) Vivo un momento di pessimismo. Mi sono accorto che realizzare film come questi rende ancora più difficile trovare i soldi per i successivi, trattandosi comunque di pellicole che si collocano in un territorio non popolare. So che tornare al lavoro dopo Jimmy sarà molto difficile. Anche se è stato presentato in diversi festival, il film non ha avuto un successo di pubblico tale da consentirmi di vedermi finanziato un nuovo progetto. Diciamo che in questo momento sono in buona compagnia: in Italia sono molti gli autori che non si pongono il problema di fare film commerciali. Non mi pento di niente, credo che questa pellicola sia importante, soprattutto dal punto di vista umano: l’incontro con Don Ettore, con i ragazzi, ha segnato profondamente me e Anna Iaccarino con cui ho scritto il film. E anche il resto della troupe. Molti di noi continuano a frequentare questi luoghi. Valentina Carnelutti, una delle attrici, ora è volontaria a Regina Coeli. È evidente che questo cinema non si fonda sul business, ma sull’incontro spirituale, non c’entra niente con l’idea di un prodotto finito che voglia accarezzare lo spettatore. Non avevamo nessuna intenzione di farlo, volevamo raccontare una storia vera, anche cruda, forte, ma allo stesso tempo poetica. a
cura di Marco Dalla Gassa e Fabrizio Colamartino