di Abbas Kiarostami
(Francia, 1999)
Sinossi
In uno sperduto villaggio del Kurdistan iraniano giungono dei visitatori da Teheran, per una misteriosa missione: il loro capo – l’unico del gruppo a comparire in campo nel corso del film – è molto interessato a conoscere quale sia lo stato di salute di un’anziana donna che, agonizzante, tutti danno per spacciata. Alloggiato in una delle case del villaggio, ogni volta che il suo cellulare squilla, l’uomo è costretto a precipitarsi su un’altura poco distante. Dalle conversazioni telefoniche si capisce che il reale scopo della sua missione è filmare un rituale funebre durante il quale le donne del villaggio si graffiano il volto in segno di lutto. Aspettando che gli eventi si evolvano, il protagonista fa amicizia con un ragazzino del villaggio, costata con stupore che la donna che lo ospita ha partorito senza problemi il suo decimo figlio, recita una poesia a una ragazza che munge le sue vacche in una grotta. Quando, infine, l’anziana donna muore, rinuncia alla sua ricerca e riparte per Teheran.
Presentazione critica
Con Il vento ci porterà via Kiarostami torna a girare, dopo alcuni anni, un film in una regione isolata, lontana dalla confusione – soprattutto culturale – delle città, all’interno della quale è possibile ritrovare, depurati da contaminazioni estranee, quei temi che, da sempre, lo hanno interessato: il rapporto dell’uomo con la morte, il viaggio come dimensione di scoperta anzitutto interiore, l’immagine come problematico rispecchiamento della realtà. Così, non è sicuramente un caso se, il primo abitante del villaggio che il gruppo di stranieri incontra sul proprio cammino e che, per l’intera durata della storia fa da guida al protagonista, sia un bambino. I bambini, nel cinema iraniano in generale e in quello di Kiarostami in particolare, hanno sempre avuto il ruolo fondamentale di rivelare il significato più profondo delle cose, quasi siano proprio loro i depositari di verità che, agli occhi distratti degli adulti, sfuggono inesorabilmente. Il protagonista, invece, è un vero e proprio corpo estraneo nella realtà arcaica del villaggio e, per comprenderne i segreti ritmi vitali, deve spogliarsi di tutte le sue sovrastrutture culturali per imparare a guardare la realtà con occhi diversi. Solo attraverso le domande poste al suo piccolo aiutante questi può venire a conoscenza dello stato di salute dell’ammalata e, tuttavia, le risposte che riceve non soddisfano mai le sue attese: Fahrzad – questo è il nome del bambino – ha sempre e comunque delle buone notizie da riferire – l’ammalata sta meglio, ha mangiato, ha parlato, eccetera – perché le sue brevi relazioni sono soltanto delle registrazioni dell’esistente, della realtà, del presente. Il protagonista, invece, è dominato da una volontà di ipotecare il futuro tipica del mondo moderno che deve arrestarsi di fronte a una dimensione spazio-temporale nella quale vita e morte fanno parte di un ciclo naturale che non ammette previsioni. Tra il protagonista – sempre più nervoso di fronte all’evolversi degli eventi e a tratti addirittura capriccioso – e Fahrzad si instaura, allora, un legame ambiguo e contraddittorio, all’interno del quale l’adulto è il personaggio “desiderante”, che non tiene conto della realtà dei fatti pur di arrivare a soddisfare una propria aspirazione e il bambino è la sua guida saggia e prudente che lo invita – implicitamente – a rimanere con i piedi per terra. L’inadeguatezza del protagonista nel cogliere il mistero della vita – dunque il suo confluire naturalmente nella morte – celato nelle piccole cose, negli avvenimenti minimi e apparentemente insignificanti che costellano il periodo della sua permanenza, è resa simbolicamente dall’inutilità delle apparecchiature tecnologiche che si è portato dietro dalla città: giunto al villaggio, la sua automobile va in panne e, da quel momento in poi, sarà utilizzata soltanto per salire in cima alla collina del cimitero nel tentativo di utilizzare il telefono cellulare. Lo spazio del villaggio si pone, così, non solo come luogo isolato dalla civiltà, ma come vera e propria dimensione “altra”, all’interno della quale il protagonista può orizzontarsi solo grazie all’aiuto del suo piccolo amico. Una realtà assolutamente non lineare, un incastro sorprendentemente eterogeneo di volumi scavati nella terra, simili a cavità uterine, dunque femminili nella sua essenza. Un’essenza, questa, che il protagonista dapprima tenta di violare con la sua ostinazione nel voler documentare la morte, ma di fronte alla quale si arresterà nella scena del dialogo con la giovane mungitrice all’interno del quale la poesia si rivela come unica possibilità di contatto tra due dimensioni troppo distanti. Mettendo in scena un tempo sdoppiato – quello dei visitatori, lineare, proteso verso un obiettivo concreto e che pare incepparsi continuamente nelle inutili corse del protagonista verso la sommità della collina, quello del villaggio che, pur nell’apparente immobilità, segue dei ritmi ciclici governati dalle leggi della natura – Kiarostami sovrappone al tempo determinato della storia narrata quello eterno e al tempo stesso mutevole delle immagini del paesaggio, delle digressioni liriche che sembrano invitare lo spettatore a perdersi in una contemplazione dell’esistente, unica modalità dello sguardo che può consegnarlo alla realtà delle cose.
Fabrizio Colamartino