Il tamburo di latta

di Volker Schlöndorff

(Germania/ Francia, 1979) 

Sinossi

Danzica, anni Venti. Agnes Koljaiczek, appartenente alla minoranza etnica casciuba, moglie del commerciante tedesco Anselmo Matzerath e amante del proprio cugino, il polacco Jan Bronski, dà alla luce Oskar. Il bambino, giunto a tre anni decide di arrestare il proprio sviluppo perché disgustato dal mondo degli adulti: si lascia cadere dalle scale bloccando la propria crescita e, al tempo stesso, acquistando poteri paranormali (può, emettendo un urlo acutissimo, mandare in frantumi i vetri di un intero palazzo). Oskar ha anche una grande passione: suonare un tamburo di latta donatogli dal giocattolaio ebreo Markus, che corteggia discretamente Agnes. Passano gli anni, in Germania sale al potere Hitler e anche nella Prussia orientale si afferma il nazismo: Oskar assiste all’adesione entusiasta di Matzerath al nuovo regime e alla timida opposizione da parte di Bronski che continua ad avere una relazione con Agnes. Il bambino entra in contatto con Bebra, un nano che si esibisce in un circo: tra i due nasce spontanea l’amicizia. Scoppia la seconda guerra mondiale e attorno a Oskar vengono meno molte delle persone amate: Bronski viene fucilato dai nazisti durante l’Anschluss della Polonia da parte del Reich, Agnes si suicida per non partorire un secondo figlio e anche Markus si toglie la vita per non essere deportato nei campi di sterminio. Matzerath, intanto, assume come cameriera la sedicenne Maria, coetanea del figlio. La ragazza, divenuta amante del proprio datore di lavoro, rimane incinta anche grazie all’aiuto di Oskar che, malgrado abbia ancora le fattezze di un bambino, si è invaghito di lei: di lì a poco nascerà un bimbo, figlio naturale di Matzerath ma “adottato” da Oskar che provvede a regalargli un tamburo identico al suo. Bebra, che con il suo spettacolo gira l’Europa occupata dai nazisti, invita Oskar a unirsi alla compagnia: a Parigi il protagonista si esibisce per le truppe tedesche rompendo bicchieri con il suo urlo portentoso e s’innamora della nana Roswitha che, tuttavia, muore durante un bombardamento in Normandia. Tornato a Danzica, Oskar assiste all’arrivo delle truppe sovietiche che uccidono Matzerath: il ragazzo (oramai ventenne) butta il tamburo di latta nella fossa scavata per il padre e poi ci si getta egli stesso, deciso, adesso, a crescere. È il 1945, la guerra è finita: Oskar e Maria abbandonano Danzica alla volta della Germania.

Introduzione al Film

Un romanzo eccezionale sulla “banalità del male”

Film di eccezionale successo (campione di incassi in Germania, Palma d’oro al Festival di Cannes del 1979 ex aequo con Apocalypse Now di Francis Ford Coppola, premio Oscar nel 1980 come migliore film straniero), Il tamburo di latta di Volker Schlöndorff è un’ardita operazione di trasposizione per il grande schermo del grande romanzo omonimo del 1959 che rese noto internazionalmente lo scrittore tedesco Günter Grass. Il film si inquadra in quella tendenza determinatasi in Germania tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli Ottanta e che vide nascere, grazie ad alcuni degli autori del Nuovo Cinema Tedesco come Reiner Werner Fassbinder, Hans Jurgen Syberberg, Edgar Reitz, Helma Sanders-Brahms, una riflessione originale e demistificante sulla storia tedesca della prima metà del ventesimo secolo, volta a individuare, in particolare, le cause sociali e culturali (più che politiche ed economiche) del nazismo e del suo tragico portato di orrori. Pur avvalendosi della collaborazione dello stesso Grass per la stesura della sceneggiatura, Schlöndorff riuscì solo in parte a riversare nel film lo spirito dissacrante e soprattutto la forma magmatica del romanzo originale che tanto sorprese e scandalizzò critica e pubblico all’epoca della sua uscita. Nella trasposizione cinematografica si smarrisce non solo la complessità narrativa (lì articolata su vari livelli) ma, soprattutto, quella componente fantastica insita nella realtà trasmessa da uno sguardo allucinato, quella libertà dall’obbligo di rappresentare che permetteva alla parola scritta di mettere in comunicazione elementi affatto eterogenei attraverso l’allusione più che per mezzo della raffigurazione, nonché la carica di oscena decadenza volta a mettere in risalto il vero spirito di un’epoca buia. La messa in scena, pur pregevole per accuratezza storica, ricchezza scenografica e soprattutto per la scelta degli interpreti, tutti di straordinario livello espressivo, solo a tratti riesce a rendere l’atmosfera a metà strada tra farsa e tragedia di cui Grass era riuscito a circonfondere il proprio romanzo. Al di là dei suoi limiti, Il tamburo di latta di Schlöndorff è comunque uno dei tentativi più eclatanti di rintracciare i segni, a tratti davvero inquietanti nel loro ricorrere a distanza di decenni, di quella che fu definita dalla studiosa ebrea Hannah Arendt come la “banalità del male”, ovvero quell’atteggiamento diffuso, sicuramente molto più preoccupante di certe forme estreme di fanatismo, di acquiescenza e passività nei confronti di un regime che si sarebbe ben presto mostrato in tutta la sua disumanità. È proprio nella descrizione di questa realtà, quella della piccola borghesia tedesca che avallò acriticamente la salita al potere di Hitler e la nascita del Terzo Reich, soddisfatta delle rivincite che la Germania, dopo decenni di umiliazioni, si stava prendendo a scapito di coloro che aveva eletto a capri espiatori (gli ebrei, certo, ma anche i polacchi e i casciubi, le altre due etnie che dividono la scena con i tedeschi) che Schlöndorff colpisce nel segno, e non tanto nella ricostruzione di quegli eventi storici che Oskar si ritrova a costeggiare nella sua incosciente traversata. In taluni casi le sequenze che descrivono la vita della famiglia di Oskar, le riunioni tra amici in occasione di battesimi e funerali, le tresche amorose tra Agnes e Bronski sotto lo sguardo quasi complice di Matzerath sono veri e propri ritratti di gruppo di ferocia inaudita e spietata precisione per la capacità che hanno di descrivere, pur deformandola, la stessa realtà sociale che era stata oggetto del pennello dissacrante e allucinato di artisti come Otto Dix, Georg Grosz, Max Beckmann, alcuni tra i maggiori esponenti della Nuova oggettività, un movimento che a cavallo tra gli anni Venti e i Trenta si fece portatore di una visone satirica antiborghese di inusitata violenza.

Il ruolo del minore e la sua rappresentazione

Un nano per tutte le stagioni

Spesso il cinema ha scelto lo sguardo dei bambini per rendere più intensamente le brutture della guerra: magari, soltanto per aggiungere alla materia narrata un tocco patetico che rendesse le storie più accattivanti per il grande pubblico, altre volte riuscendo a costruire attorno allo sguardo smarrito dei giovani protagonisti veri e propri capolavori (si pensi, ad esempio, a Germania anno zero di Roberto Rossellini). Il tamburo di latta è un caso a sé, che mette a dura prova la capacità dello spettatore di scegliere tra le tante suggestioni fornite dalla storia narrata e prendere posizione nei confronti del protagonista, una figura per molti versi ambigua, diversa da qualsiasi altra proposta dal binomio cinematografico bambini-guerra. Tale duplicità (ma forse sarebbe più esatto parlare di molteplicità) emerge fin da subito e da diversi elementi: Oskar è nato a Danzica, una città da sempre contesa tra Russia, Germania e Polonia, nonché crocevia di culture diverse grazie alle attività commerciali legate al suo porto, ed è il prodotto della mescolanza di diverse etnie (la madre casciuba, il padre tedesco, lo zio polacco), nonché figlio di due padri affatto diversi (Matzerath e Bronski). Soprattutto, per buona parte della durata del film, Oskar ha la fisionomia di un bambino ma agisce e si rapporta con il mondo come uno degli adulti che lo circondano. Decide di smettere di crescere perché disgustato dal mondo dei grandi (dalla grettezza di suo padre, dalla doppiezza di Bronski, dalla licenziosità di sua madre e dal generale squallore della società che lo circonda), ma dal basso della sua scelta estrema giudica tutti coloro che incontra e si comporta come loro, se non addirittura peggio. In questa doppiezza sta tutta la forza e allo stesso tempo la debolezza del personaggio: Oskar è il protagonista assoluto del film e, in virtù della propria singolarissima esperienza può essere guardato legittimamente come colui che incarna la Germania della prima metà del ventesimo secolo con tutte le sue contraddizioni. Ma Oskar è colui che, decidendo di non crescere, di non diventare come gli adulti, sceglie di non adeguarsi al sistema. Sembrerebbe un contestatore, uno che rompe la continuità di un percorso storico (tanto quello che porta dritto al nazismo quanto quello del tutto inefficace che tenta di opporvisi), un anarchico che rifiuta non solo i risultati ma anche le premesse sociali di un sistema corrotto in partenza: l’urlo e il tamburo sono, in questo caso, due armi da opporre di volta in volta ai vari rappresentanti dell’autorità (il padre legittimo, la maestra, il medico). Al tempo stesso, però, Oskar riesce a cavarsela sempre (proprio grazie alle sue sembianze infantili), a passare inosservato o a salire sul carro dei vincitori e, soprattutto, a scenderne appena in tempo, subito prima che si trasformino in sconfitti: suonando il suo tamburo di latta controtempo riesce a sabotare una manifestazione nazista ma, qualche anno più tardi, si esibisce proprio per le truppe tedesche di stanza in Francia. Se il suo rapporto con il padre (un padre-dittatore, dunque Hitler e il Reich) è ambiguo e contraddittorio (anche perché segnato da un’incertezza originaria: chi è il suo vero padre, il nazista piccolo-borghese Matzerath o il rivoluzionario e libertino Bronski?), quello con la madre è chiaro e inequivocabile: Oskar è una creatura uterina, il grembo materno è il suo habitat e, comunque, a esso tenta sempre di fare ritorno, rifugiandosi nei momenti di incertezza o paura sotto le gonne (della madre, della nonna, delle altre donne che incontra) che di quel ventre sono il simbolo. Emerge chiarissima la componente edipica insita nel carattere del protagonista (più volte nel corso del film Oskar guarda di nascosto sua madre Agnes fare l’amore con Bronski o lasciarsi corteggiare da Markus) che trova la definitiva conferma nella sequenza in cui costringe Matzerath a mettere incinta Maria, sua matrigna e, allo stesso tempo, madre di un bambino che lui stesso ha contribuito a concepire e che, dunque, è inevitabilmente anche suo figlio. Nell’ultima sequenza Oskar parte alla conquista della “nuova” Germania che, sconfitta per l’ennesima volta sul campo di battaglia, sarà di lì a poco protagonista del cosiddetto “miracolo economico”. Dopo aver seppellito tutti i suoi morti (Agnes, Bronski, Markus, Matzerath), Oskar ha finalmente deciso di crescere: proprio come la Germania all’indomani della seconda guerra mondiale ha pagato a caro prezzo la propria consapevolezza.

Riferimenti ad altre pellicole e spunti didattici

Difficile trovare altre pellicole analoghe o anche soltanto lontanamente accostabili a Il tamburo di latta. Ciò che fa di questo film un unicum è proprio il suo personaggio principale: alla stregua di tanti altre figure rappresentate dal cinema, Oskar attraversa le tragiche vicende storiche che connotarono la prima metà del ventesimo secolo dando allo spettatore un punto di vista privilegiato sugli eventi, con la non piccola differenza che in tutte queste pellicole i protagonisti sono degli adulti. Del tutto assente risulta, del resto, lo spirito dissacrante e la visione grottesca della realtà in film sulla guerra che hanno per protagonisti bambini o adolescenti come L’infanzia di Ivan di Andrej Tarkovskij, Stà fermo, muori e resuscita di Vitalij Kanevskij ed altri nei quali lo sguardo dei giovani protagonisti è orientato più alla denuncia di una condizione disumana che allo sberleffo, come è, invece, nel caso di Oskar. L’unica pellicola che può essere accostata a quella di Schlöndorff è Europa Europa: tratto dai diari di Solomon Perel, ebreo sopravvissuto alla shoah fingendosi ariano, il film di Agnieszka Holland a tratti possiede la stessa carica ironica e grottesca de Il tamburo di latta. Il film può costituire un valido supporto alla didattica al fine di mettere in evidenza gli aspetti più grotteschi delle dittature e, soprattutto, le cause sociali e culturali che portarono alla seconda guerra mondiale: la visione della pellicola dovrebbe essere preceduta da un’adeguata preparazione storica e seguita da un’analisi degli elementi simbolici presenti al suo interno. Fabrizio Colamartino

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